L'esperto: l'essenziale è superare l'ostacolo della lingua
di Chiara Righetti
Giuseppe Faso, ex docente di lettere alle scuole superiori, è responsabile del Centro interculturale dell’Empolese-Val d’Elsa, che si occupa di formare gli insegnanti all’educazione interculturale.
Professor Faso, le anticipazioni del ministero dell’Istruzione parlano di 70mila alunni stranieri in più nelle scuole italiane. E’ un aumento notevole, ma comunque all’interno della forbice prevista: si prevedeva una crescita tra le 50mila e le 70mila unità.
Ma i dati segnalano anche un’emergenza abbandono e dispersione scolastica, specie alle scuole superiori. E’ vero, ma aggiungerei un altro dato: sappiamo che i ragazzi stranieri scelgono per lo più gli istituti professionali (nel 40 per cento dei casi), poi i licei linguistici, poi gli atri istituti. Ovviamente sui motivi ci sono opinioni diverse. Qualcuno dice: scelgono quel percorso perché pensano di ottenere un diploma più spendibile sul mercato del lavoro. Ma credo che dietro ci sia anche un intervento da parte degli insegnanti che scoraggiano, dicendo cose tipo: “Questi ragazzi al liceo non reggono”.
L’intenzione è forse quella di proteggerli. Gli insegnanti dimenticano che gli istituti professionali hanno un monte ore molto impegnativo, materie molto difficili. E inoltre i licei non richiedono al ragazzo di apprendere altri lessici specialistici: perché un manuale di diritto è più complesso di una grammatica greca. Insomma, spesso c’è una sorta di preselezione. E spesso non sono le famiglie a fare questo ragionamento sullo sbocco professionale, sono le scuole che lo fanno per loro. E per finire sappiamo bene che nelle scuole professionali ci sono più bocciati, anche fra gli italiani.
Comunque il gap resta ampio: il tredici per cento di respinti in più. Una ragione sono le difficoltà incontrate dai ragazzi che arrivano già grandi in Italia. Ma a volte ho l’impressione che si riesca a far poco anche per gli altri.
Quali sono le difficoltà della scuola? Il primo errore è una forte sopravvalutazione della componente linguistica nel giudicare i bambini che si hanno davanti. La non conoscenza della lingua fa scomparire le altre competenze. Un altro errore è il pessimismo: si tende a dire “questo bambino non sa una parola d’italiano” senza dargli il tempo di aprire bocca. E molti insegnanti non accettano chi non riesce a far prevalere nel discorso il principio sintattico.
Si spieghi meglio. I livelli sono tre: sintattico (l’articolazione dei periodi) semantico (il significato delle parole) pragmatico: quest’ultimo dà la priorità ai gesti, al contesto in cui ci si trova. Un classico esempio è una conversazione al mercato: frasi smozzicate, apparentemente senza senso. Ma il contesto rende perfettamente possibile capirsi. Chi impara una lingua segue sempre questo percorso: prima impara a controllare il livello pragmatico, poi quello semantico, poi la sintassi. Mentre a scuola si esige stupidamente che un bambino cominci dalla fine, e se non ci si riesce gli si dice: “non capisco” rendendogli così impossibile comunicare. Mentre al contrario se il bambino si sente compreso parla di più e impara più rapidamente.
Insomma, l’ostacolo linguistico è sopravvalutato. E altre cose sottovalutate. Nascondendosi dietro alla mancanza dell’italiano, si dimentica che il bambino sa altre cose.
Ma la scuola deve garantire una certa uniformità di valutazione. Tutt’altro: questo non lo dice neppure il ministro Moratti. La valutazione deve basarsi su parametri individuali, considerare i progressi in relazione a singolo alunno. Questo non vuol dire lassismo, è giusto che la scuola pretenda progressi, che non si accontenti di una conoscenza dell’italiano indispensabile per comunicare, ma pretenda anche quello che serve per studiare. Perciò questa fase di “tolleranza” dev’essere transitoria, ma non può durare due mesi. Gli studi dimostrano che una persona impiega tre-quattro anni per padroneggiare completamente una lingua. Io lavoro con centinaia di insegnanti, discuto con loro di queste cose ogni giorno. Perché poi magari da parte dei docenti c’è una certa “tolleranza”, sensibilità, come vogliamo chiamarla? Così si dà a quei ragazzi una licenza media, ma si sa già che non saranno in grado di affrontare le scuole superiori. Per cui quel gap che si fa evidente dopo le scuole medie in realtà è cominciato molto prima.
Ci sono altri ostacoli nel proseguire gli studi? Un ultimo fattore da considerare è il distacco fra età e anno scolastico frequentato. In Italia, un alunno straniero dev’essere inserito nella classe più vicina alla sua età. Ora, è chiaro che un po’ di elasticità è fondamentale: se un ragazzino arriva in Italia ad aprile e deve sostenere l’esame di terza media dopo due mesi, magari ha senso fargli perdere un anno e consentirgli un inserimento più graduale. Ma ci sono distacchi di tre, quattro anni. Se uno finisce a 17 anni le medie, con che spirito affronta le superiori dopo un percorso già pieno di sofferenze?
Quali sono gli errori più comuni nell’insegnamento? Non siamo in grado di proporre lezioni d’italiano non escludenti. Non valorizziamo le altre competenze di questi ragazzi: non offriamo corsi nella loro lingua che consentano di ottenere crediti, un’iniziativa molto intelligente che oggi viene utilizzata in forma sperimentale da non più di venti sezioni in Italia. Altri errori molto gravi riguardano l’insegnamento linguistico, ancora basato su regole grammaticali imposte dall’alto che i bambini sentono estranee. Un esempio: su 20 libri, 19 sostengono che il pronome di terza persona è “egli”. Solo uno parla di “lui”.
Quali sarebbero invece le priorità? Sdrammatizzare il problema delle competenza linguistiche e valorizzare le altre competenze non riconosciute. Allora, per dirla con uno slogan, potremmo arrivare con facilità ad avere “il programma dell’apprendente”, non quello del docente. In classe, cancellare i lavori inutili e reintrodurre attività in cui chi sa meno non è obbligato a una performance immediata con gli insegnanti. Ad esempio sfruttare i giochi cooperativi, basati sul principio dell’apprendimento di gruppo. Perché ormai è dimostrato che i bambini imparano soprattutto dai coetanei, nelle ore di ricreazione, mentre vanno a scuola in autobus. Con un’intelligenza che a quell’età è prontissima, nulla per loro è sprecato.
E’ difficile? Noi insegnanti non abbiamo questa impostazione. Se proponiamo un lavoro di gruppo è per pigrizia, mentre questo metodo per dare risultati richiede uno sforzo enorme. Va evitato il rischio che i gruppi facciano riferimento a un unico leader. E’ un rischio costante con i ragazzi, ma lo si può aggirare se si sta attenti alla costruzione degli “status” di ciascun bambino.
Questo lavoro spetta agli insegnanti o a enti esterni? Questi ultimi possono essere utilissimi, e spesso fanno un ottimo lavoro. Il problema è che, se l’ente esterno fa troppo, la scuola tende a dormire sugli allori.
Il vostro Centro interculturale lavora in un altro modo. Sì, noi formiamo gli insegnanti della scuola statale, saranno loro poi a lavorare da soli. Questo ha lo svantaggio che ci vuole un fegato di cemento armato: nella scuola ci sono debolezze, cattive pratiche. Il vantaggio però è che andiamo alla radice del problema. O cambiamo, poco a poco, con coraggio e forza il nostro modo di rapportarci a queste cose (dico il modo di noi insegnanti) o qualsiasi intervento è destinato a restare isolato.
Ai docenti cosa proponete? Ad esempio insegniamo come fare a capire un bambino che non usa i verbi. Spesso facciamo un gioco. Facciamo ascoltare una conversazione registrata e chiediamo: quale di questi uomini è straniero? Il tizio A, il B o il C? E regolarmente i pareri si dividono. In realtà, come spieghiamo dopo, sono tre italiani che stanno parlando al mercato.
(16 maggio 2005 - ore 08.41)
http://www.ilpassaporto.kataweb.it/dettaglio.jsp?id=30763
|