UN CONTRIBUTO PER L’INTERCULTURA NELLA SCUOLA - di Luigi Ambrosi
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PER L’INTERCULTURA  NELLA  SCUOLA
UN  CONTRIBUTO
di Luigi Ambrosi


 


Non è semplice mettere a punto oggi un programma interculturale per una scuola del dopo-Moratti; anche l’intercultura deve fare i conti con tre macigni sociali che pesano sulla scuola. Un primo macigno è l’eccessivo provincialismo che avvolge ancora la questione dell’immigrazione in Italia, frutto anche di anni di campagne e culture denigratorie nei confronti degli immigrati; questo provincialismo ha contagiato anche il mondo della scuola e il punto di vista dei docenti. Fino a che la società e le Istituzioni non riconosceranno i migranti come soggetti sociali portatori di diritti e cittadini come tutti gli italiani, la scuola non riuscirà autonomamente ad essere all’altezza dei compiti.

Non si è ancora voluto acquisire che in Italia vi
sono tre milioni di emigrati, che lavorano e concorrono alla produzione di reddito e ricchezza sociale, che sono indispensabili alla nostra società; è una realtà, come si dice, strutturale. Anche tra i docenti questa consapevolezza non è ancora acquisita, ma si mescola a pregiudizi ed atteggiamenti superficiali, prodotti sicuramente anche dal clima esterno al mondo della scuola. In questo campo i portatori del nuovo sono quasi unicamente  i bambini e la loro cultura dell’accoglienza, dell’uguaglianza, della curiosità del conoscere.

Un secondo macigno è dato da un clima di declino
culturale, di conoscenze,  interessi, attenzioni che pervade la società ed il mondo della scuola; un declino che sta assumendo accelerazioni fino a denotarsi come un vero e proprio crollo culturale: del resto che potevamo aspettarci da oltre un decennio di full immersion nel calcio, nei reality, nell’illusione venduta a piene mani di soldi facili diventando calciatori o veline?

Privati di ogni potere, di ogni possibilità di essere
soggetti di trasformazione, privati della dimensione sociale di utilità e di impegno, e quindi di interessi anche culturali conseguenti, assistiamo a questo forte crollo di interesse culturale anche nella scuola. Mi sembra che quest’ultimo elemento accomuni l’esperienza di tutti i docenti, in ogni ordine di scuola. Ad esso dobbiamo aggiungere le politiche culturali neoconservatrici della Moratti, che si richiamano addirittura ai periodi culturali precedenti l’illuminismo, vedi l’esclusione dai programmi scolastici delle teorie dell’evoluzione darwiniane ecc. (quando dovremo dire agli alunni che la Terra è piatta, come scrive la Bibbia?). Certo ci sarà anche qualche nostra difficoltà ad intuire i nuovi modi giovanili di accesso alle conoscenze ed a quali nuove gerarchie di conoscenze,ma non solo.

Inizialmente qualcuno ha tentato di motivare questo
declino accelerato dandone colpa, come al solito, alla presenza di alunni stranieri che abbassavano gli standard minimi, ma ormai anche gli insegnanti con più pregiudizi cominciano a riconoscere che quanto sta accadendo ha radici più profonde e riguarda prima di tutto il “fronte” italiano. Anzi…


Se ne conclude che solo un forte impegno “sociale” di un nuovo governo potrebbe forse contrastare queste tendenze. Forse.

Un terzo macigno è la forte demotivazione che ha pervaso gli
 insegnanti, che hanno avuto modo di riscontrare, oltre ad un peggioramento delle proprie condizioni economiche, giuridiche e nel lavoro quotidiano, di essere considerati come soggetti assolutamente passivi nella trasformazione morattiana  della scuola.

Parlare di intercultura oggi è  possibile solo tenendo conto
di questi macigni che gravano sul mondo della scuola. Per quanto riguarda le richieste concrete, la strada più semplice sembrerebbe un “ritorno al passato”, il ripristino adeguato di un grande numero di facilitatori linguistici: uno per plesso per le scuole con oltre il 10 % di alunni di famiglie di origine straniera. La figura del facilitatore linguistico andrebbe accoppiata a quella del mediatore culturale, arruolato tra insegnanti  e/o tra elementi indicati dalle Associazioni o Consolati di comunità straniere (come genericamente prevedeva la legge 40/98 della Turco).
Le programmazioni di classe dovrebbero comprendere la co
noscenza di elementi delle principali culture del mondo, al fine di arricchire i contenuti culturali fuori da una logica euro/occidentale-centrica e di riconoscere le richieste culturali delle nuove utenze immigrate.
Dovrebbe essere applicata la convenzione dei diritti dei bambini, che è legge di Stato, e che prevede il diritto alla salvaguardia di lingue e culture d’origine.
Dovrebbe acquisire un maggior rilievo la Consulta Nazionale Interculturale, prima soppressa e poi mantenuta ad uno stadio vegetativo dalla Moratti.

Coordinamenti cittadini di docenti operanti nell’intercultura e Associazioni delle Comunità Straniere e Rappresentanze Consolari potrebbero promuovere eventi cittadini in occasione delle principali festività i
nterculturali (Capodanno cinese, islamico, feste amerinde, africane ecc.; festival musicali e teatrali interetnici per le scolaresche, laboratori nelle scuole di calligrafia cinese o araba, di costruzione di maschere africane o di tessitura Amerinda …) Ma questo “ritorno al passato” all’esperienza milanese del Progetto “Il mondo in un piatto di feste” richiede innanzitutto ci sia la volontà e la possibilità di investire risorse per nuovi organici, nuovi laboratori ecc. Dipende anche dai costi che la Società è disposta a sostenere per favorire lo scambio etnico-culturale ed un reale confronto-incontro tra culture o, al contrario, quanto sia disposta a rischiare nella non-relazione, come l’esperienza francese ed inglese hanno messo ampiamente in luce.

Ma ho l’impressione che questo “ritorno al passato” sia ormai superato o quantomeno insufficiente. I fatti della scuola di via Quaranta introducono un elemento di novità, di modifica dell’ottica con cui pensare e progettare l’intercultura nella scuola pubblica.
Intanto il quesito principale, da porsi ai docenti: vogliamo che i figli di immigrati frequentino la scuola pubblica o che si costruiscano scuole etniche, private, parificate o altro? Non ci devono essere ambiguità. 

Penso ad una dirigente scolastica che desiderava l’allontanamento degli alunni islamici dalla scuola e che poi, promossa ispettrice, è stata mandata a cercare di convincere le famiglie della scuola di via Quaranta ad iscrivere i figli nelle scuole pubbliche. E’ indispensabile la chiarezza su questo tema.

Se preferiamo che i figli di migranti frequentino le
scuole etniche, mettiamo in conto la progressiva riduzione del numero di alunni, classi e posti di lavoro nelle scuole pubbliche; mettiamo in conto di prevedere un territorio, un quartiere dove i figli di migranti non si sono mai relazionati con gli italiani, adulti e minori: quanta diffidenza e quante tensioni possibili…. Penso alle vie del mio quartiere con la “banda” giovanile di italiani, di sudamericani, di cinesi, di arabi, di senegalesi…mai abituati a relazionarsi tra loro. Non credo sia da augurarsi una città così: troppo pericolosa, e quanto si perderebbe in nuove conoscenze?

Se non vogliamo un presente/futuro così, dobbiamo ri
pensare una scuola pubblica che accolga, che addirittura attragga i figli di migranti, che sia abbastanza adeguata ai cambiamenti sociali da essere in grado di rispondere alle istanze delle nuove utenze. Utenze che, ricordiamolo, con il loro lavoro e con le tasse finanziano la scuola pubblica (e anche quella privata). Se poi la scuola pubblica saprà non solo rispondere alle nuove istanze ma anche farne occasione di arricchimento per tutti gli alunni, meglio ancora: avremmo una scuola all’altezza dei tempi che sa produrre anche mediazione culturale, che produrrebbe valore aggiunto culturale per tutti.
Attualmente Direzione Scolastica ed Istituzioni stanno sostenendo con
arroganza che gli alunni stranieri devono frequentare la scuola pubblica: bene, che la scuola pubblica si attrezzi. Perché ora i figli di immigrati, privi di facilitatori linguistici e di risorse adeguate, giacciono in stato di abbandono più o meno totale nella nostra scuola pubblica. Perché ora i figli di immigrati, privi di mediatori culturali, stanno subendo la totale cancellazione della loro lingua e cultura d’origine, nonostante le leggi a salvaguardia della stessa. Salvaguardia che permetterebbe tra l’altro la creazione di altro valore aggiunto: pensiamo ad un nuovo cittadino italiano, figlio di migranti, che oltre la lingua italiana conosce la propria lingua d’origine, il cinese, l’arabo, l’ispanico… è una ricchezza per tutta la società. 
Cosa può voler dire per la scuola pubblica attrezzarsi alla nuova utenza
e valorizzarla per tutti?
Pensando alla scuola dell’obbligo, in particolare alla scuola primaria, riconoscere il diritto alla lingua e cultura d’origine vuol dire innanzitutto riconoscerle spazi in orario scolastico ed anche extra-scolastico; per es. destinare il venerdì pomeriggio per corsi di lingua e cultura d’origine, corsi ai quali potrebbero partecipare facoltativamente anche alunni italiani.  Corsi che potrebbero diventare laboratori di arricchimento culturale per tutti. Si potrebbe pensare al venerdì destinato all’intercultura, dove in tutte le classi si conoscono le “culture altre” trasformandosi in laboratori di mediazione culturale. Le scuole, con opportuni finanziamenti, potrebbero anche aprirsi al sabato mattina per permettere ai differenti gruppi “etnici” di approfondire le proprie culture. E qui si potrebbe aprire anche il discorso sulle ore di religione islamica o altre religioni non cattoliche: che sia un diritto fruirne nella scuola pubblica è evidente, fintantoché la religione cattolica viene insegnata in orario scolastico. E’ una questione di par condicio che riguarda anche tutti quegli italiani che hanno abbracciato la religione islamica; è una questione di “o tutti o nessuno”.



Rimane comunque aperta a tutte le soluzioni la domanda: come adeguare la scuola pubblica ai nuovi tre milioni di cittadini italiani?

Senza dimenticare i tre macigni.


Luigi Ambrosi



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