LA SCUOLA DIFFICILE

Lucrezia Pedrali
È difficile fare le cose difficili.
Parlare al sordo, mostrare la rosa al cieco.
Bambini, imparate a fare le cose difficili:
dare la mano al cieco, cantare per il sordo.
(Gianni Rodari)
Fare scuola rientra tra le cose difficili. Essere insegnante è difficile e complesso. J. Delors afferma: “ L'importanza del ruolo dell'insegnante in quanto promotore del cambiamento, della comprensione e della tolleranza reciproca, non è mai stata così evidente come oggi. E probabilmente è destinata a diventare anche più fondamentale nel ventunesimo secolo. La necessità di cambiare, di passare da forme grette di nazionalismo all'universalismo, dal pregiudizio etnico e culturale alla tolleranza, alla comprensione e al pluralismo, dalla autocrazia alla democrazia nelle sue varie manifestazioni, e da un mondo tecnologicamente diviso dove l'alta tecnologia è privilegio di pochi a un mondo tecnologicamente unito, assegna enormi responsabilità agli insegnanti, che contribuiscono a forgiare i caratteri e gli spiriti delle nuove generazioni”.
Compito immane affidato alla scuola e ai docenti, reso ancor più difficile dal risvolto psicologico insito nella complessità: la necessità di “sopportare” la fatica della differenza e della molteplicità e quindi anche della integrazione di ciò che non si condivide. E precisamente in questi tempi ci troviamo a fare scuola in un contesto che non facilita la nostra azione. Sul piano istituzionale ci stiamo confrontando con una riforma incerta, che lascia più aggrovigliati che mai alcuni nodi di fondo: la figura del tutor, il portofolio, le indicazioni nazionali, l'anticipo, i risvolti della contrattazione. In questo clima vale forse la pena sostare per un momento e riflettere a partire da una domanda apparentemente banale: perché si deve andare a scuola? Cosa rende la scuola un luogo collettivo indispensabile per la crescita dei cittadini?
Le risposte a queste domande sono cambiate nel corso del tempo: la società moderna, industriale aveva assegnato alla scuola il compito di liberare il soggetto dai suoi particolarismi e di condurlo, attraverso gli apprendimenti, ad un uso sempre più consapevole delle sue capacità razionali; inoltre doveva affermare il valore universale della cultura, del modello sociale nel quale l'alunno era inserito nel rispetto della gerarchizzazione sociale. Ma la rapida trasformazione della società e l'allentarsi (o talvolta i frantumarsi) dei legami che intercorrono tra la dimensione personale e quella pubblica del vivere, hanno cambiato la ragion d'essere della scuola. Che tuttavia, anche nell'epoca della postmodernità, mantiene tutta la sua importanza. Lo sviluppo della ricerca scientifica nel corso del novecento ha reso necessario rivedere la convinzione che esista un sapere unico, certo, definitivo, universale e oggettivo. I modelli interpretativi, le teorie, assumono valore solo all'interno di specifici contesti e spesso tra loro non comunicano. La scuola è il luogo dove diventa possibile far dialogare tra loro i modelli diversi perché è (o dovrebbe essere) il luogo delle relazioni, della comprensione cognitiva ed emotiva, dell'integrazione e della progettualità, della connessione fra le varie parti di sé, della costruzione di identità.
Le competenze che servono per vivere il nostro tempo sono profondamente diverse da quelle richieste fino a qualche decennio fa. Potremmo parlare della necessità di acquisire competenze trasversali: autovalutazione, responsabilità, comunicazione, cooperazione, relazione, gestione dell'incertezza, pensiero plurale…
Domande più importanti delle risposte
Allora la domanda successiva è: la scuola è attualmente in grado di rispondere a queste esigenze formative? O meglio: come deve essere per poter accogliere la sfida posta dalle nuove esigenze formative? Edgard Morin , parlando della scuola primaria nel suo libro La testa ben fatta ha indicato un possibile percorso : “ Piuttosto che reprimere le curiosità naturali, quelle di ogni coscienza che si risveglia, si dovrebbe partire dalle prime domande: cos'è l'essere umano? La vita? La società? Il mondo? La verità? Il fine della ‘testa ben fatta' sarà favorito da un programma di domande che parta dall'essere umano ”. E ancora: “ Si dovranno impartire lezioni sulle connessioni bioantropologiche che mostrino come l'uomo sia, nel contempo, totalmente biologico e totalmente culturale, che il cervello studiato in biologia e la mente studiata in psicologia sono due facce della stessa realtà, sottolineando che l'emergenza della mente presuppone il linguaggio e la cultura. Così si realizzerebbe, a partire dalla scuola primaria, un processo che legherebbe le domande sulla condizione umana alle domande sul mondo”.
Le domande sono più importanti delle risposte: essere cittadino del mondo contemporaneo forse significa saper porre le domande e saper organizzare strumenti, metodi e percorsi per cercare le risposte, più che accumulare conoscenze certe e definitive. Si pone allora il problema del rapporto tra contenuti del processo di apprendimento/insegnamento e le metodologie, ovvero il rapporto tra il che cosa e il come.
La riflessione sulle procedure metodologiche diviene centrale perché le strategie attraverso le quali si attivano i processi danno conto e ragione della loro efficacia rispetto al raggiungimento delle competenze complesse.
Si tratta di individuare ambiti e modalità che permettano costanti collegamenti con la realtà, di operare giocando sui rapporti che intercorrono tra differenti modi di essere e di pensare, fra i diversi linguaggi, fra le diverse esperienze e appartenenze, fra le diverse narrazioni e storie.
La scuola difficile è la scuola del laboratorio di co-costruzione della conoscenza, la scuola dove l'errore o le deformazioni diventano strumenti per la crescita e l'esercizio del pensiero critico, dove la diversità (storica e culturale in senso ampio) diviene centrale perché il riconoscimento di sé e dell'altro si fonda sulla relazione dialogica.
Scriveva Riccardo Massa “La scuola deve educare, cioè aprire la mondo. Non soddisfare bisogni, ma rendere capaci di autonomia e di desiderio. Non infantilizzare - come avviene quando si lascia che i bambini continuino a scontrarsi con conoscenze estranee al loro mondo vitale - ma aiutare a crescere. Insegnare a contenere l'angoscia, a fare qualcosa che consenta di ritrovare parti buone dentro di sé, modificare le relazioni con gli altri, sentirsi utili e importanti, apprendere dall'esperienza”.
Di questa scuola difficile vorremmo parlare nella presente rubrica nel corso del prossimo anno
http://www.saveriani.bs.it/cem/Rivista/arretrati/2005_06/intfase2.htm