Altrimenti, che vita è? Riflessioni sul sequestro e la liberazione di Giuliana Sgrena di Luisa Muraro
Certe volte ci capita di vivere storie che sono più grandi di noi e bisogna starci lo stesso, io dico, senza cedere alla tentazione di ridurle alla nostra statura. Ragionare sì, perché bisogna sempre ragionare, ma senza la pretesa di avere capito tutto o, addirittura, di mettersi in cattedra. Tale è la storia che ha visto come protagonisti Giuliana Sgrena, Nicola Calipari, e accanto a loro una serie di altri personaggi, i sequestratori di Giuliana, i collaboratori di Calipari, sua moglie, i giornalisti del manifesto, Letta e Berlusconi, il governo Usa, i soldati che hanno sparato e, per finire, anche noi che abbiamo partecipato come abbiamo potuto, con rabbia, ansia, pietà, gioia, dolore. Tutti, chi più, chi meno, coinvolti in una vicenda che ci porta fuori dai nostri limiti ordinari. Scrivo per invitarci a non rimpicciolire le cose, a non fare i meschini, come tendono certi commentatori che forse sono imbarazzati o spaventati da ciò che li oltrepassa. E a custodire il ricordo di questa storia con pensieri precisi.
Il primo pensiero deve restare, io credo, quello che ha espresso Rosa Maria Calipari. A Giuliana che le diceva: suo marito è morto per salvarmi, ha risposto: è andato in Iraq per salvarti. Certi hanno detto di Nicola C. che ha commesso degli errori. Ho analizzato un articolo in cui Scalfari ripeteva e argomentava questa tesi (La repubblica 9 marzo), ma dai fatti che lui stesso elenca, a rigore di logica risulta che si è trattato di un rischio calcolato, che è cosa ben diversa da un errore. Con il senno di poi si può dire che Calipari avrebbe fatto meglio a correre l'altro rischio (ossia, lui e la Sgrena bloccati in Iraq dai servizi americani che combattono la pratica del sequestro), ma sappiamo che "il senno di poi" è merce scaduta. Anche il governo italiano ha corso un certo rischio mandando un aereo militare a prendere la Sgrena appena operata, la notte stessa della sparatoria, invece di lasciarla riposare nell'ospedale americano, e suppongo per la stessa ragione: non lasciarla nelle mani dei servizi americani. Senza contare che, probabilmente, la missione di lui non era semplicemente di liberare la Sgrena dai sequestratori, ma di liberarla e di portarla in Italia. Ci è riuscito, a costo della sua vita. Ne valeva la pena? Molti se lo chiedono e alcuni, anche fra le persone comuni, rispondono di no. A questi io dico: attenzione a come ragionate perché tutto indica che Calipari pensasse invece di sì, e il suo giudizio vale tanto quanto la sua dedizione: chi esalta questa e critica quello, involontariamente lo offende e fa a pezzi tutta la storia in cambio di niente.
Un ragionamento analogo vale per la giornalista del manifesto: si è esposta al rischio del sequestro e della vita avendo fatto i suoi conti (so positivamente che era molto lucida) e giudicando che ne valeva la pena. La storia del giornalismo è costellata di uomini e ora anche di donne che hanno rischiato la vita per fare bene il loro lavoro. Finora l'abitudine è stata di ammirarli: non perdiamola, non tanto per un riguardo a loro ma per noi, per restare persone decenti.
Un altro pensiero da custodire è quello che ha formulato Giuliana parlando della prigionia, nel primo articolo scritto per il manifesto. Ha scritto: "Il mese che ho vissuto da sequestrata ha probabilmente cambiato per sempre la mia esistenza, un mese da sola con me stessa, prigioniera delle mie convinzioni più profonde, ogni ora è stata una verifica impietosa sul mio lavoro". Sono parole impressionanti che vanno raccolte da ogni persona che sente di avere delle convinzioni forti e non vuole tenerle per sé ma farle conoscere: con che parole, con quanta responsabilità, con che verifiche. Forse, con il passare del tempo, Giuliana tornerà alla cosiddetta normalità che è di portare le proprie convinzioni come un corredo mentale che niente e nessuno verifica; forse invece non potrà più e conserverà la misura imparata nella vicinanza della morte, nello specchio di quegli uomini sempre sul punto di diventare i suoi assassini. In quella situazione, scrive, "ho provato tutta la durezza della verità" e quanto sia difficile proporla, quanto sia fragile chi ci prova. Parla, credo, degli scambi che ha avuto con i sequestratori per essere riconosciuta come donna di pace e giornalista al servizio del popolo iracheno, senza lasciarsi sopraffare dalla paura e dalla disperazione.
Studiando i verbali della caccia alle streghe, ho incontrato donne che, come lei, hanno cercato di distogliere i giudici dai loro fantasmi di morte per poter essere viste e riconosciute nella loro umanità. Qualcuna, a sprazzi, ci è riuscita. È questo anche il caso di Giuliana? Sembra di sì ma non è possibile dare una risposta certa, molti essendo i fattori che hanno giocato, e molti a noi sconosciuti, nella sua liberazione. Quello che è possibile intravvedere, è che a questo esito lei ha contribuito nei modi a sua disposizione, per esempio accettando - anche interiormente - il bisogno che i suoi carcerieri avevano, a causa della loro cultura, di vederla associata a un uomo, un marito, e da lui aiutata. E lui, Pier Scolari, come sappiamo, ha fatto la sua parte generosamente.
Qualcuno, tra i personaggi pubblici, attacca Giuliana Sgrena perché ha parlato di "agguato" per interpretare i fatti che hanno trasformato la sua liberazione in una tragedia. Io credo che usando questa parola lei sia rimasta fedele non solo al suo compito giornalistico ma anche a quella verità di cui ora sa, più di chiunque fra noi, quanto sia dura da proporre. Mi spiego. Non conosciamo la verità su quei tragici fatti e qualcuno ha detto che si saprà solo quando non sarà d'interesse per alcuno. Questa opinione mi pare condivisa dai più, fra le persone comuni. Dobbiamo allora lasciar perdere ogni idea di verità e accomodarci con un surrogato più o meno verosimile, o, peggio, inventarci la verità che ci fa più comodo? C'è un'altra strada, ed è di tenere presenti più ipotesi, come si fa con gli identikit. La parola "agguato" contribuisce a fare questo disegno, il disegno della verità non (ancora) conosciuta, in quanto descrive la modalità dei fatti nella esperienza vissuta della giornalista e potrebbe corrispondere anche alla loro sostanza. Può essere (avanzo un'ipotesi) che quei militari che hanno sparato sull'auto degli italiani, avessero l'ordine di fermarla per trattenere Giuliana e i suoi liberatori, considerati colpevoli di avere trattato con i terroristi, e che quei militari, male addestrati e peggio reclutati, come ci è stato spiegato, non abbiano saputo eseguire gli ordini correttamente.
La veridicità di Giuliana Sgrena è come l'intelligenza strategica di Nicola Calipari, non possiamo disfarcene a piacere, per accontentare il nostro umore o il nostro partito. Perderemmo il significato di quello che ci è successo. Le cose sono veramente accadute e formano una storia che ci ha riguardati molto da vicino rendendoci meno meschini, perfino il capo del governo. La sua memoria ora è affidata al senso della misura nella polemica politica e, ancor più, alla consapevolezza che c'è un di più da salvaguardare, come un riferimento non solo interiore ma anche politico. Altrimenti, che politica è, e non solo, che civiltà è, che vita è mai la nostra?
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