Esportare la civiltà. Con la forza. Il diritto d'ingerenza umanitaria dopo la caduta del muro di Berlino: ecco come ritorna il vecchio discorso coloniale sulla ''missione civilizzatrice''.
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La missione di ripulire il mondo
Esportare la civiltà. Con la forza



 


Dopo la caduta del muro di Berlino il diritto d'ingerenza umanitaria è stato invocato spesso per giustificare interventi militari occidentali, tanto che Colin Powell, già segretario di stato americano, considerava le organizzazioni non governative come «una parte importantissima della nostra squadra di combattimento». Ecco che ritorna il vecchio discorso coloniale sulla «missione civilizzatrice».

Rony Brauman
«Il paese che ha proclamato i diritti dell'uomo, che ha contribuito brillantemente al progresso delle scienze, che ha introdotto l'insegnamento laico, che davanti alle nazioni è il grande campione della libertà, ha (...) la missione di diffondere ovunque possibile le idee che hanno fatto la sua grandezza. Dobbiamo considerarci investiti del mandato di istruire, elevare, emancipare, arricchire e soccorrere i popoli che hanno bisogno della nostra collaborazione (1)».
Queste parole, scritte dal radicale Albert Bayet nel 1931 in occasione del Congresso della Lega dei diritti dell'uomo dedicato alla colonizzazione, dovrebbero essere studiate attentamente dai contemporanei impegnati negli aiuti internazionali. Anche se la formulazione è desueta, il contenuto corrisponde a un programma di modernizzazione sociale e politica tuttora attuale. Peraltro, in Francia quello stesso Congresso della Lega dei diritti dell'uomo aveva condannato la «concezione imperialista della colonizzazione», giustificata solo a condizione di perseguire gli scopi «umanitari» riassunti da Albert Bayet.
Per questa corrente umanista, la colonizzazione era fonte di benefici e di elevazione dei costumi: quindi un obbligo di coscienza, in ragione dell'evidente superiorità della società colonizzatrice sui popoli colonizzati. Tre secoli prima, ai tempi della conquista dell'America, il potere dei conquistatori faceva appello alla cristianizzazione piuttosto che alla modernizzazione, ma sempre insistendo «sui benefici portati dagli spagnoli a quelle contrade selvagge». E non è raro trovare testi in cui si dà credito agli spagnoli di aver «soppresso pratiche barbariche quali i sacrifici umani, il cannibalismo, la poligamia e l'omosessualità, per portare in quelle terre il cristianesimo e gli usi e costumi europei, oltre a diversi utensili e animali domestici (2)». Bartolomeo de Las Casas, prete domenicano difensore degli indios, che ha descritto in maniera particolareggiata i disastri della Conquista e condannato lo schiavismo e i trattamenti crudeli, ha però difeso la colonizzazione, che a suo parere avrebbe dovuto essere affidata non ai soldati ma ai religiosi. La fondazione della Croce rossa - invenzione della moderna azione umanitaria - mostra chiaramente come a quei tempi non si avvertissero contraddizioni tra aspirazioni umanitarie e progetto coloniale. In Francia, l'era dell'imperialismo coloniale si apre alla fine degli anni 1850, quando sta per essere adottata la prima Convenzione di Ginevra (1864) di cui la Francia di Napoleone III è la prima firmataria e la più ferma sostenitrice (tanto che per poco non è stata firmata a Parigi). Questo documento non mette in discussione il diritto di conquista, né quello di scatenare conflitti armati, ma cerca semplicemente di fissare qualche limite alla guerra.
Gustave Moynier, suo primo presidente, riteneva che la Croce rossa fosse «ispirata alla morale evangelica»; ma al tempo stesso, come la maggior parte dei suoi contemporanei, vedeva i popoli colonizzati come antitetici alle nazioni civili. «La compassione - scriveva - è sconosciuta a queste tribù selvagge che praticano il cannibalismo.
(...) Per loro è un concetto talmente estraneo che la loro lingua non possiede una parola per esprimerlo. (...) I popoli selvaggi (...) fanno [la guerra] a oltranza, e si abbandonano senza ambagi ai loro istinti brutali; mentre le nazioni civili, per il fatto stesso di cercare di umanizzarla, confessano che quanto vi accade non è sempre lecito (3)». E inoltre, in L'Afrique explorée et civilisée, afferma: «La razza bianca deve risarcire la razza nera (...) e consentirle di beneficiare dei mezzi di cui dispone la civiltà moderna per migliorare la propria sorte in maniera conforme ai voti della provvidenza».
Certo, oggi nessuna Ong con fini di solidarietà o di difesa dei diritti umani sarebbe disposta a sottoscrivere una dichiarazione del genere.
Peraltro, il più delle volte gli operatori delle organizzazioni di aiuti internazionali sono reclutati tra i detrattori del colonialismo.
Ma le pratiche di coloro che si percepiscono come agenti dello sviluppo sono una chiara dimostrazione di quanto lo spirito della «missione di civiltà» sopravviva alla scomparsa dell'imperialismo coloniale.
Secondo la definizione di Jean-Pierre Olivier de Sardan, la legittimazione di gran parte degli aiuti internazionali si fonda su due categorie strettamente legate tra loro: il paradigma «altruista» e quello «modernizzatore» (4). Nei discorsi e nelle prassi di numerosi organismi - dalla Banca mondiale alle Nazioni unite e alle Ong - questi due concetti si ritrovano costantemente, sia pure in proporzione variabile, a seconda dei casi e in funzione dei dati locali del mercato degli aiuti.
Peraltro, la stessa definizione di aiuti allo sviluppo reintroduce, in nome della solidarietà, le categorie gerarchiche ereditate dal passato. E come potrebbe non essere così, visto che è oramai consacrata - sia pure per le ragioni più lodevoli - la contrapposizione tra «sviluppato» e «sottosviluppato», declinabile in numerose varianti più o meno eufemistiche? I parametri economici in base ai quali si definiscono i «paesi meno avanzati», così come i criteri antropologici adottati per indicare l'«arretratezza» di certe popolazioni, appartengono invariabilmente al vocabolario degli stati dominanti. Come la contrapposizione tra società «tradizionali» e società «moderne», riferita alle dicotomie, care al pensiero coloniale, tra comunità e individuo, tradizione e innovazione, solidarietà e concorrenza, clientele e buona amministrazione.
«Evangelizzazione sanitaria» Da decenni, migliaia di programmi di aiuti, soprattutto nel campo delle tecniche agricole e delle campagne sanitarie, si fondano sulla partecipazione e mobilitazione di introvabili «comunità» rurali.
Nel migliore dei casi, questo immaginario esotico di una società omogenea fondata sulla condivisione suscita nelle persone che ne sono oggetto una cortese indifferenza, e nel peggiore un netto rifiuto.
Lo dimostra ad esempio uno studio su un programma di aiuti alla Cambogia: «Quando nei villaggi qualcuno arrivato da fuori comincia a parlare di sviluppo comunitario, come viene compreso dagli abitanti? Probabilmente i visitatori avranno esordito spiegando (...): "Quello che vi chiediamo è di cooperare, di lavorare insieme". Ma a queste parole gli abitanti dei villaggi spalancano gli occhi e chiedono, sconvolti: "Non avrete mica intenzione di riportarci all'epoca di Pol Pot?" (5)».
Lo stesso schema della «comunità», chimera onnipresente nelle raccomandazioni degli esperti dell'Onu come nei discorsi dei volontari delle Ong, si apparenta in qualche modo alle rappresentazioni coloniali. Connotato dalla contrapposizione tra «loro» e «noi», tra ritardo e progresso, questo schema istituisce di fatto gruppi di indigeni poveri, definiti da carenze e rischi specifici, che coincidono precisamente con gli obiettivi dei programmi di aiuti. Per definizione, la comunità parla il linguaggio dei «bisogni», proprio perché è stata costruita sulla base e in funzione di quei bisogni, delle carenze che la mettono in pericolo. Carenze che saranno colmate dai rappresentanti degli organismi di aiuto, venuti a salvarla dalle sue debolezze.
Un campo d'applicazione privilegiato per questa invadente sollecitudine è fornito dai cosiddetti programmi per la salute. Gli organismi specializzati dell'Onu - in particolare il Fondo delle Nazioniunite per l'infanzia, Unicef, e l'Organizzazione mondiale della sanità, Oms, con numerose Ong al loro seguito - si sono posti l'obiettivo di diffondere la credenza, profondamente radicata nel mondo occidentale, che la maggior parte delle patologie diffuse nel terzo mondo siano dovute a scarsa pulizia. Ad esempio, l'epidemiologia anglosassone, oggi largamente dominante, distingue tra water-based deseases (malattie dovute all'acqua) e water-washed deseases (malattie curate con l'acqua). L'acqua che lava e purifica, o che al contrario insudicia e contamina: questa l'essenza del loro credo, più simile a un catechismo della modernità che a una verità accertabile. Per convincersi della dimensione essenzialmente liturgica di quest'annuncio, basti ricordare le previsioni di epidemie fulminanti formulate dagli esperti dopo ogni catastrofe naturale, anche se non si conoscono esempi di eventi del genere (6). Fuori da simili contesti di sconvolgimento, nelle situazioni ordinarie, le campagne di «educazione sanitaria» prevedono essenzialmente la prassi, assai più prosaica, di vantare i meriti del sapone e delle latrine, dell'acqua bollita e di regolari abluzioni. Si ritiene che grazie a queste misure di pulizia si possa prevenire il 90% delle malattie: una promessa ripetuta incessantemente, che finisce per apparire come una realtà incontestabile per l'effetto stesso di questo insistente martellamento. In questo modo si stabilisce un rapporto diretto di causa/effetto tra i comportamenti errati e le malattie che li penalizzano. Con questa semplificazione ingannevole si giustifica, in nome dell'interesse superiore della comunità, l'intrusione dei volontari delle Ong che entrano nelle case delle famiglie senza essere stati invitati. Fin dall'epoca dello sviluppo accelerato delle Ong, negli anni 1980, è pratica corrente nel terzo mondo condurre inchieste sul modo in cui le famiglie usano l'acqua e sulle loro pratiche igieniche, con l'obiettivo di riformarle. Ma già nel XVIII secolo, il principio che ispirava le campagne di restaurazione morale dei puritani inglesi era quello di portare l'igiene al popolo. In Francia, l'igienismo del XIX secolo si manifestò sotto forma di «pastorali della miseria», finalizzate a trasformare i costumi della popolazione più bisognosa per debellare la «sporcizia anticamera del vizio (7)».
Come dimostra l'esempio dell'inchiesta cambogiana sopra menzionata, gli educatori tendono spesso a deplorare il peso delle tradizioni.
Ma solo pochi si rendono conto che se non fosse per l'imbarazzo, e soprattutto per le regole di cortesia e di ospitalità, andrebbero incontro a reazioni molto brusche, data la rozzezza delle loro intrusioni (8). Convinti di essere portatori di un sapere liberatorio, non percepiscono il carattere offensivo dei loro insegnamenti, che violano l'altrui intimità. La confusione tra pulizia, salute e normalità da un lato, e sporcizia e malattia dall'altro, è la tipica connotazione delle campagne di quest'evangelizzazione sanitaria, versione attualizzata della «missione di civiltà» dell'Europa. Si ritiene che questi popoli «sottosviluppati» debbano essere condotti da nuovi tutori alla maturità sociale, traghettati verso il benessere e il progresso, destati alla coscienza dei loro interessi da pastori che impongono la loro autorità nel segno della lotta contro il «pericolo fecale».
Gli aiuti e la cooperazione internazionale non sono certo prigionieri di questa divisione tra pecore a pastori, e il loro ruolo non si limita alla diffusione della buona parola. Al di là delle operazioni di soccorso che portano avanti, le Ong e l'Onu giocano ormai un ruolo nel dibattito pubblico, e contribuiscono a produrre nuove regole nello spazio politico mondiale. E in questo modo divengono espressione di un movimento di fondo, che può essere inteso come un arricchimento della democrazia in senso partecipativo, nel momento stesso in cui le sue tradizionali forme elettive sembrano esaurirsi, almeno nei paesi di più antica democratizzazione.
Ma questa nuova legittimità, così come la popolarità che la sostiene, non è priva di conseguenze. È stata utilizzata più volte, ad esempio, dal governo americano, per presentare sotto una luce più favorevole le sue imprese belliche dopo gli attentati dell'11 settembre.
«Vorrei poter essere realmente certo - ha detto Colin Powell nell'ottobre 2001 - che abbiamo le migliori relazioni con le Ong, tanto importanti per noi come moltiplicatori di forze. Esse rappresentano una parte importantissima del nostro assetto di combattimento (...) Siamo infatti tutti impegnati nel perseguimento di uno stesso, unico obiettivo: quello di aiutare l'umanità, di aiutare chiunque nel mondo si trovi nel bisogno o soffra la fame (...) per dare a tutti la possibilità di sognare un futuro più radioso (9)». Al di là del suo aspetto opportunista, questa professione di fede è indubbiamente sincera. Di fatto, le Ong non sono proprietarie o depositarie esclusive dei valori che promuovono. Ma è proprio questo il problema. Sono ormai innumerevoli le organizzazioni impegnate a rendere operanti e a rafforzare una serie di diritti, concepiti come valori: il diritto alla salute, all'educazione e allo sviluppo, i diritti del bambino, i diritti delle donne. Secondo la tesi di Hugo Slim, direttore degli Studi presso l'Institute for Humanitarian Dialogue, visto che i valori di queste organizzazioni «traducono la loro visione di una società moralmente giusta», esse dovrebbero logicamente sostenere la coalizione militare che li incarna (10).
Più chiaro di così! Certo, esiste una differenza non di poco conto tra l'intrusione nel privato delle case in nome della salute, e l'ingerenza armata in nome dei valori superiori dell'umanità; ma è evidente che l'una e l'altra rispondono a un principio unitario. In entrambi i casi si fa riferimento a una posizione d'avanguardia, all'impegno di emancipare altri popoli da tradizioni o sistemi politici arcaici.
Come dimostra la posizione di chi in Francia afferma il «diritto all'ingerenza umanitaria», schierandosi in favore dell'invasione dell'Iraq.



note:

* Cofondatore di «Médecins sans frontières». Quest'articolo è un capitolo di La fracture coloniale, la société française au prisme de l'héritage colonial, opera collettiva a cura di Pascal Blanchard, Nicolas Bancel e Sandrine Lemaire, La Découverte, in libreria dal 15 settembre.

(1) Citato da Charles-Robert Ageron, France coloniale ou parti colonial, Puf, Parigi, 1978.

(2) Tzvetan Todorov, La conquista dell'America. Il problema dell'altro, Einaudi, 1997.

(3) Citato da Alain Destexhe, L'Humanitaire impossible ou deux siècles d'ambiguïté, Armand Colin, Parigi, 1993.

(4) Jean-Pierre Olivier de Sardan, Anthropologie et développement.
Essai en socio-anthropologie du changement social, Karthala, Parigi, 1997.

(5) Soisick Crochet, «Cet obscur objet du désir», in Rony Brauman (a cura di), Utopies sanitaires, Le Pommier/Médecins sans frontières, Parigi, 2002.

(6) Voir Claude de Ville de Goyet, «Stop propagating disasters myths», The Lancet, vol. 356, agosto 2000, http://pdm.medicine.wisc.edu/degoyet.htm.

(7) Georges Vigarello, Le Propre et le Sale. L'hygiène du corps depuis le Moyen Age, Seuil, Parigi, 1987.

(8) Soisick Crochet, «Cet obscur objet du désir», op. cit.

(9) Conferenza tenuta a Washington, 26 ottobre 2001.

(10) Libération, 26 dicembre 2004.
(Traduzione di E. H.)


http://www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/LeMonde-archivio/ultimo/0509lm03.01.html



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