Francia, perché protestano

di Paolo Papi
La goffa reazione di Sarkozy. La propaganda delle moschee. La morte dei due giovani, fulminati in un una cabina elettrica. Ma si dimentica spesso che gli immigrati delle banlieu protagonisti degli scontri sono cittadini francesi a tutti gli effetti. Tuttora esclusi dalla società per ragioni razziali
Saccheggi contro centri commerciali e negozi, 519 auto e 27 autobus in fiamme, spari contro la polizia, persino assalti ai viaggiatori di un convoglio del treno, atti di teppismo contro una équipe della televisione, bottiglie molotov lanciate contro le persone sui mezzi pubblici. La jacquerie dei giovani delle banlieu a nord-ovest di Parigi dura da sette giorni.
Quella parte di Francia, che ancora si cullava nell'illusione integrazionista offerta dalla propria «diversità» rivoluzionaria e progressista, si è svegliata bruscamente con i barbari sotto casa, cittadini francesi di origine maghrebina nati e cresciuti nel Paese della Rivoluzione. All'indomani della prima notte di scontri a Clichy-sous-Bois, il ministro dell'Interno Nicholas Sarkozy ha avuto la malaugurata idea di chiamarli «teppaglia». Infiammata dalla benzina verbale di una classe politica miope e arrogante, la «teppaglia» ha risposto senza mediazioni, né richieste negoziabili, solo con tutta la rabbia che aveva in corpo. Gli obiettivi della rivolta: i simboli di una società francese che continua a promettere «egalité, fraternité, liberté» e che in realtà, a larghe fasce della sua popolazione, non riesce a offrire altro che un'esistenza di precarietà e discriminazione che sfocia, secondo molti, in un regime segregazionista soft.
LE RAGIONI DELLE BANLIEU I protagonisti della sollevazione parigina non sono solo immigrati di primo pelo o sans papiers, come pure è stato detto. Né integralisti infiammati dalla propaganda paleoreligiosa dei mullah delle moschee o delinquenti ingrassati dalle mafie cresciute nella pancia della società parigina.
No, i protagonisti di questa jacquerie sono, con buon pace di Jean Marie Le Pen e dei bourgois parigini, soprattutto cittadini francesi, nati da genitori immigrati in Francia anche negli anni 60, cresciuti in quartieri ghetto a contatto, come nel film L'Odio di Mathieu Kassowitz (1995), con identità radicate basate sul destino comune, sull'appartenenza etnica, sulla religione. Identità che si sono sviluppate - quasi a insaputa di gollisti e sinistre - nel cuore e nelle viscere dello Stato dell'egalité e dei citoyennes.
La rabbia dei giovani maghrebini e nordafricani, dice su Le Monde il sociologo Michel Wiviorka, «non nasce dallo sfruttamento del lavoro, ma dall'esclusione e dalla precarietà». Non è nemmeno un problema di povertà materiale, perché nelle periferie parigine una vasta rete di economia informale e clandestina consente a tutti, bene o male, di tirare a campare, di mangiare tutti i giorni, di vestirsi anche con marche alle moda, anche quando non c'è lavoro.
La rabbia delle banlieu è la rabbia di chi si sente escluso, che subisce ogni giorno le angherie di una polizia (i «keufs») ai cui vertici, a oltre trent'anni dalle prime ondate migratorie proveniente dalle colonie, continuano a esserci solo ed esclusivamente i bianchi, per altro favoriti, a dispetto dell'«egalité» promessa, in tutti i concorsi pubblici.
«Vivere nelle periferie significa scuole peggiori, difficoltà di accesso al mondo del lavoro e alle università, essere discriminati nelle relazioni sociali per il proprio cognome o per il colore della pelle», sintetizza stamani sul Corsera Massimo Nava. E se il tasso di disoccupazione nelle periferie è cinque volte la media nazionale, se per prendere in affitto una casa continua a essere quasi impossibile, se per ottenere un lavoro regolare o a contratto bisogna che caschi qualcosa dal cielo, il ghetto diventa una condizione cronica, una condanna sociale perpetua. Una prigione dalla quale è difficile, quando non impossibile, evadere. Se non a costi troppo alti, come dimostra la sollevazione di questi giorni.
RABBIA PREPOLITICA, RISCHI RELIGIOSI Il vero problema è l'assenza di prospettive che vivono gli immigrati di seconda e di terza generazione in Francia. Ma non solo: il vero problema, al di là delle risposte militari di Sarkozy, è l'incapacità della politica francese di farsi carico del disagio di questi giovani, di incanalare la loro rabbia in un progetto politico nazionale minimamente spendibile. Persino quelle che un tempo erano le banlieu rosse, dove i comunisti e i socialisti riuscivano a ottenere una maggioranza bulgara, sono ora diventate un deserto politico, dove attecchiscono solo l'economia illegale, un comune senso di appartenenza etnica e religiosa, una propaganda di facile presa dei predicatori islamici. I francesi bianchi e poveri di queste periferie, spesso ex operai di sinistra ormai pensionati, si rifugiano in un lepenismo difensivo, mentre gli immigrati di terza generazione, cittadini francesi come loro, si danno a ogni genere di traffico.
Così, la loro rabbia si fa pre-politica, spontaneistica, disperata: mancano appunto le organizzazioni capaci di mediare tra le richieste sociali diffuse e lo Stato. E il rischio, quando al disagio sociale non si dà uno sbocco, è quello che ha profetizzato il ministro degli Esteri francese, lo chiracchiano di ferro Philippe Douste-Blazy: «Demolita l'integrazione, in questi quartieri si diffonderà per disperazione un radicalismo basato sulla religione». Un'ipotesi che metterebbe la parola fine, una volta per tutte, sul mito della cittadinanza e dell'appartenenza nazionale.
http://www.panorama.it/europa/capitali/articolo/ix1-A020001033476
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