Perché il diavolo abita in periferia
Parigi è cresciuta fallendo la scommessa di trasformarsi in megalopoli organizzata. Lo spiega un architetto che in Francia ha raccolto i suoi primi successi. E che vede molto nero anche il futuro dei sobborghi italiani. A meno che...
di Pasquale Chessa
Per capire le ragioni profonde del disagio che sta incendiando le città delle periferie francesi, forse è più utile ascoltare con attenzione le parole dei rappeur. Disoccupazione diffusa e delinquenza endemica, malessere antropologico e violenza nichilista vanno insieme a Nike, Vuitton, Kawasaki, Rolex: le icone della moda che campeggiano sui manifesti del metro acquistano un nuovo senso come simbolo della frustrazione giovanile cantata dal franco-senegalese Booba nato a Boulogne-Billancourt, dove una volta c’era la Renault e abitava la classe operaia più tosta d’Europa. «Parlerete del nostro quartiere, saremo in tv?» chiedono i ragazzi in rivolta ai giornalisti che li intervistano. Quasi avessero scoperto il passaggio segreto per uscire dalle periferie e installarsi al centro del sistema.
Le Monde ha usato la parola italiana «fiasco» per sottolineare l’insuccesso lampante della politica francese di intervento nelle città. Perché, sebbene dal 1977 le misure per alleviare il disagio urbano si siano moltiplicate con una progressione esponenziale, sono anche aumentate le zone a rischio: nel 2005 si contano in tutta la Francia ben 752 «zus», zone urbane sensibili, i ghetti insomma.
La fiamma partita da Clichy-Sous-Bois potrebbe infatti accendersi anche a Scampia, o al Corviale, o a Secondigliano o allo Zen? Come è potuto accadere che luoghi costruiti per la convivenza umana abbiano prodotto tanta violenza? Partendo da questa domanda Panorama ha cercato una risposta possibile con Massimiliano Fuksas, l’architetto italiano della Fiera di Milano e del nuovo Palazzo dei congressi di Roma, la famosa «nuvola» dell’Eur, che in Francia ha lavorato e raccolto i suoi primi successi. Fuksas viene dal Sessantotto, e ora potrebbe essere uno dei candidati preferiti da Fausto Bertinotti, se dopo le elezioni spettasse a Rifondazione proporre il nuovo ministro della Cultura. La sua Biennale architettura portò in primo piano il dramma della megalopoli nel mondo con un titolo che suonava come uno slogan ora più che mai attuale: «Less aesthetics, more ethics», meno estetica e più etica.
Perché Parigi brucia? Per comprendere il fenomeno che sta travagliando la Francia, ma destinato a contagiare l’intera Europa, bisogna partire dalla definizione stessa di Parigi, per afferrarne le dimensioni, designarne i confini. La capitale della Francia non corrisponde in realtà alla corrente idea comune di una megalopoli abitata da 12 milioni di persone. Si tratta invece di un territorio ben delimitato da un anello stradale chiamato périférique al cui interno vivono poco più di 2 milioni di abitanti. Intorno, senza soluzione di continuità, un tessuto urbano diffuso fa da corona alla città. E in questo reticolo di città abitano ben 10 milioni di cittadini che ogni giorno gravitano sul cuore del sistema urbano centrato sulle Halles, punto cruciale in cui la Rer, il trasporto extraurbano, si connette con il metro legando tutta l’Ile-de-France con un’unica trama.
Per assurdo, una città quasi senza metro, come Roma con tutte le sue difficoltà, costringe a una vita urbana più umana. Dopo l’età augustea, quando era al centro di un impero universale, Roma non è mai stata una megalopoli. Parigi invece ha cominciato a espandersi dal Settecento ed è esplosa con la Rivoluzione, dal momento in cui la popolazione delle campagne conquista la città.
Dove è finito il mito di Parigi, città eternamente moderna, al passo con il futuro del mondo? Parigi ha fallito la scommessa di diventare una megalopoli organizzata. Come New York, che presenta una morfologia sociale più semplice. La realtà francese è complicata dalla sua stessa parcellizzazione amministrativa: ci sono più comuni in Francia che in tutta Europa. Realtà diverse convivono, ricchezza e povertà confinano topograficamente e idealmente. La televisione fa il resto portando dentro la banlieue il mondo intero con tutte le sue contraddizioni.
C’è però un tratto nichilista nella rivolta giovanile delle banlieue, inedito anche per la Francia. È una storia che affonda nelle scelte politiche degli anni Cinquanta. La Francia aveva bisogno di essere ricostruita da capo a piedi, dopo le distruzioni totali dell’occupazione nazista. Fu scelto un modello moderno, razionale: grandi scatole di scarpe, grandi torri, palazzi quartiere. Fu su quel tessuto che si pensò di ospitare le grandi masse di immigrati necessari per garantire uno sviluppo capitalistico industriale della Francia postcoloniale.
Ma a questo punto qualcosa non ha funzionato. Quando per esempio vent’anni fa il Departement Senne Saint- Denis, che si trova nell’asse fra Parigi e l’aeroporto, regione storicamente di sinistra, piuttosto comunista, comincia a travasare i voti nel Front national di Jean-Marie Le Pen, è ormai troppo tardi. Il popolo francese, la classe operaia e la piccola borghesia, insieme agli strati più poveri, ma assistiti, non riescono a convivere con i nuovi arrivati. Scappano. La vita in comune si rivela impossibile.
Ai francesi non resta che traslocare. Sognano una casa monofamiliare, un pavillon, in quella zona grigia né campagna né città che sta al di là delle periferie stesse. Così le banlieue assumono un colore monoculturale. Una criminalità diffusa si installa stabilmente in territori privi di qualsiasi radicamento storico, in assenza di qualsiasi controllo sociale. Un’identità urbana distorta crea un tessuto antropologico aberrante. E i giovani soprattutto finiscono per identificarsi col proprio quartiere malfamato.
Quando negli anni Ottanta si pensò di abbattere le grandi torri quartiere e le scatole di scarpe, furono gli abitanti a opporsi. Anche quelle brutte case avevano prodotto un’identità urbana. Non è vero che la bruttezza annulla l’identità. Se osserviamo la mappa territoriale della crisi nei dintorni di Parigi, scopriamo che zone di benessere diffuso si alternano a situazioni di degrado. Lo scontro non è solo fra periferia e centro, ma fra periferia e periferia.
Per esempio? La Francia ha investito molto nelle sue periferie. A Clichy, se si rompe una panchina o un lampione, viene subito sostituito. Non c’è quel segno di totale abbandono che ti colpisce se vai a Scampia o al Corviale. Ma soprattutto molte di queste città sono diventate centro di prestigiose attività culturali: penso a Nanterre e alla sua università, a Bobigny e al suo teatro diventato famoso nel mondo con Bob Wilson.
Perché è fallito il progetto di una Francia multietnica postcoloniale? A Roma, a Milano, o a Napoli, persino chi abita le realtà degradate ha un rapporto di identità con la città. Al Laurentino si sentono romani, come al Corviale o a Tor Bella Monaca. Così a Scampia o a Secondigliano sono napoletani, allo Zen palermitani…
Fino a che punto l’architettura può essere considerata responsabile del malessere che attraversa le banlieue? Compito primario dell’architettura è scegliere come far vivere le persone. Rispetto a questo obiettivo l’architettura contemporanea, l’urbanistica multiculturale, la città democratica ha fallito. Per esempio il volume delle case sociali in Francia è inadeguato. La vivibilità, il piacere di abitare è determinato dallo spazio. Certo l’architetto da solo può ben poco. Sono le scelte della cultura politica a segnare lo stile del tempo.
C’è una soluzione? No, su due piedi, almeno. È molto difficile governare la complessità nel futuro che stiamo attraversando. Integrare tutte queste grandi aree in un progetto metropolitano mi sembra una delle scelte possibili. Pensare in grande la realtà del mondo nuovo che abbiamo creato. Serve ragionare non intorno all’oggetto architettonico ma a un’idea di megastruttura, che io chiamo «gentile», al di là della città stessa.
Nel ‘68 Fuksas fu uno dei protagonisti della rivolta studentesca. Anche a Valle Giulia furono incendiate le macchine delle polizia, ricorda? Quegli studenti si opponevano al sistema, rifiutavano i valori borghesi, contestavano il consumismo… Nella rivolta dei ragazzi delle banlieue leggo al contrario la richiesta di accedere a stili di vita da cui si sentono esclusi senza ragione, pretendono il pieno diritto a partecipare alla società dei consumi che hanno imparato a conoscere in tivù e che possono osservare dal vivo nel centro di Parigi. C’è al fondo una disperata richiesta di ricchezza.
http://www.panorama.it/europa/capitali/articolo/ix1-A020001033620
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