da "il manifesto" del 19 Luglio 2005 POLITICA O QUASI Banlieue e sobborghi d'Europa
IDA DOMINIJANNI Dopo l'avvento dei kamikaze britannici (ma non è più certo che fossero davvero attentatori suicidi) scopriamo improvvisamente fette di umanità prima ignote o rimosse, ai margini e al centro delle nostre città e metropoli europee. Banlieue parigine come Auberville dove i giovani musulmani parlano un francese di 400 parole, come ha raccontato Anna Maria Merlo sul manifesto di domenica. Sobborghi inglesi come Beeston Hill dove vivevano i terroristi del 7 luglio, con metà abitanti asiatici e un quarto africani, scontri fra bande ogni sera e ristori a base di pizza, kebab e moussaka mescolati (Marco Imarisio, Corsera di mercoledì). Pub di Nantes in cui i maschi occidentali non fanno che bere e mettere le mani addosso alle ragazze, e la giovane barista francese, stufa, decide di convertirsi all'Islam (Gabriele Romagnoli, Repubblica di domenica). Quartieri bolognesi di ordinaria normalità in cui gli immigrati musulmani di seconda e terza generazione, non jihadisti ma moderati, che cercano di «costruire un ponte» fra fede islamica e cittadinanza italiana, vivono stretti fra l'offensiva dei loro fratelli radicali e la campagna sulla sicurezza del nostro governo (Paolo Rumiz, sempre su Repubblica di domenica). Realizziamo improvvisamente che quello della società multiculturale era un obiettivo, o un ideale, astratto dalle biografie reali e dalle narrazioni soggettive, e che un'idea per così dire «ludica» delle differenze ha fatto velo sui conflitti ruvidi che esse scatenano e sul lavoro della relazione che esse comportano se le si vuole mettere davvero a contatto e non semplicemente affiancare, o ghettizzare, o tollerare. Di crisi del multiculturalismo americano e europeo si era già parlato (anche su questa colonna) dopo le reazioni della società americana all'11 settembre, poi in occasione degli assassini di Pym Fortuyn e Theo Van Ghog in Olanda, e a proposito della legge sul velo in Francia: tre segnali di inadeguatezza sia del modello pluralistico angloamericano e olandese, sia del modello assimilazionista francese. Dopo i fatti di Londra l'argomento ritorna: ad esempio nell'intervista rilasciata a Stefano Liberti da Oliver Roy, studioso francese del radicalismo islamico, sul manifesto di mercoledì scorso, e nel testo di Robert Leiken, studioso di immigrazione e sicurezza nazionale dell'establishment americano, tratto da Foreign Affairs e pubblicato fra i «Documenti» del Corsera giovedì con il titolo Come l'Europa fa crescere i terroristi. Ma ovviamente la diagnosi della crisi si presta a piegature molto diverse. Roy auspica una convergenza fra i paesi europei su un nuovo modo di impostare il rapporto con le nuove generazioni di ex-immigrati, oltre i limiti dei due modelli precedenti. Leiken traccia invece una linea di demarcazione fra gli Stati uniti, paese di antiche tradizioni dove il modello multiculturale dimostrerebbe di tenere, e l'Europa, dove al contrario starebbe franando. Secondo Leiken la demarcazione ha origini storiche e politiche: negli Stati uniti, paese tutto costruito su una lunga immigrazione, gli islamici si sono integrati spargendosi e diasporandosi sul territorio, mentre in Europa, terra di immigrazione solo dopo la seconda guerra mondiale, sono stati poco accettati e ridotti in enclave omogenee e chiuse; negli Stati uniti il «metodo misto» di «separare la religione dalla politica senza porre un muro tra di esse» fa sì che gli immigrati si integrino via via mantenendo una relativa autonomia culturale, mentre in Europa il multiculturalismo, un tempo bandiera del liberalismo, sta diventando una copertura del terrorismo, il laicismo e l'islamismo radicale crescono come due opposti estremismi (e il cristianesimo declina). Morale: mentre la marea migratoria monta, l'Europa, incapace altresì di pensare la lotta al terrorismo nei termini di una guerra, non sa far fronte alla radicalizzazione delle comunità di ex immigrati, che diventano il luogo di incubazione e reclutamento di jihadisti muniti di regolare passaporto e pronti a salire sugli aerei diretti nei cieli americani. Anche per questa via dunque l'Atlantic divide si approfondisce.
O viene artatamente approfondito, con un'analisi disposta a fare molti sconti al melting-pot americano, in realtà non meno attraversato delle società europee da linee di frattura identitarie e neocomunitariste. Meglio Slavoj Zizek, che nella sua critica al multiculturalismo tiene unite le due sponde dell'Atlantico. Di qua e di là, sotto la bandiera progressista multiculturale è cresciuta una tolleranza indifferente, in cui tutti siamo disposti ad accettare l'altro finché la sua alterità non ci interroga e non ci domanda di cambiare qualche cosa di noi. Oltre questo limite scattano a catena ghetti, kamikaze e dispositivi di sicurezza illiberali.
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