Il matrimonio del clandestino e l'espulsione - di Mario Pavone, Presidente ANIMI
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PARTE I


 


IL MATRIMONIO DEL CLANDESTINO E L’ESPULSIONE


di Mario Pavone**


 


Premessa


 


Come ha sostenuto, di recente, l’On.le Gianfranco Fini, presidente della Camera dei Deputati (1), "L'Italia non può essere l'anello debole in Europa altrimenti viene invasa: è allora, come già avvenuto in altri Paesi, che razzismo e xenofobia aumentano".


"Non siamo razzisti - ha proseguito - ma convinti che gli immigrati che vengono in Italia, come i tanti che sono emigrati in passato all'estero, debbano essere integrati nella nostra società. Secondo Fini, "chi non riesce ad essere integrato poi rischia di diventare delinquente. Insomma solidarietà e legalità sono facce della stessa medaglia".


Fondamentale, per il presidente della Camera dei deputati è che "chi viene in Italia accetti oltre che le nostre leggi anche i nostri valori, e perché avvenga questo è necessario che noi sappia mo qual è la nostra identità".


a-Il problema dei clandestini in Europa


Nonostante le lodevoli affermazioni di principio pronunciate dall’illustre parlamentare, la Legislazione varata dal Parlamento in tema di sicurezza non ha registrato alcun contributo alla soluzione del problema che, invero, riguarda non solo il nostro Paese ma tutta l’Europa.


Anzi. La stessa UE è giunta a contraddire sé stessa poiché, dopo avere varato in data 15 Giugno 2006 una fonda mentale risoluzione sull’intensificarsi della violenza razzista ed omofoba in Europa (2) in cui afferma con grande chiarezza che “il razzismo, la xenofobia, l'antisemitismo, l'omofobia e l'avversione ai Rom, sono fenomeni dalle motivazioni irrazionali, a volte legati all'emarginazione, all'esclusione sociale e alla disoccupazione, nonché derivanti dal rifiuto di concepire la diversità presente nelle nostre società come una fonte di ricchezza”ha accelerato il rimpatrio dei clandestini con una Direttiva del 5/6/2008 (3).


La direttiva in questione punta ad armonizzare la normativa europea per quanto riguarda i rimpatri e prevede, tra l'altro, la possibilità di detenere un immigrato clandestino fino a 18 mesi in appositi centri in tre casi: rischio di fuga, mancata collaborazione nel rimpatrio e non disponibilità dei documenti.


La direttiva prevede, inoltre, la possibilità di detenere ed espellere anche i minori, a certe condizioni, il divieto di reingresso nell'Ue per un massimo di cinque anni per chi è stato colpito da un provvedimento di rimpatrio, ma anche il patrocinio pubblico per sostenere le spese di quanti vorranno fare ricorso contro il decreto di espulsione di recente estese anche all’interprete di parte grazie ad un’importante sentenza della Corte Costituzionale (4) che premia gli sforzi sin qui compiuti dall’ANIMI-Associazione Nazionale per l’Immigrazione ed all’impegno personale dell’Avv. Luciano Faraon (5).


La questione dei migranti è andata sempre più affermandosi negli ultimi anni, nel contesto europeo, e ciò ha reso imminente la necessità di strutturazione di una normativa comunitaria e internazionale che possa dare direttive riguardanti la gestione e, soprattutto, la tutela dei diritti del migrante e dell’apolide (6).


In quest’ottica, il 9 maggio 2005 sono state adottate dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa venti linee guida su tutti gli stadi del procedimento di rimpatrio forzato adottate dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 9 maggio 2005.


L’iter per arrivare a delinearle è iniziato con la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo del 1948, nella quale, all’articolo 14, si trova scritto: “Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni”.


 


Le nuove linee guida richiamano i diritti tutelati dalla Convenzione europea per la protezione dei diritti umani e le libertà fondamentali e contengono cinque capitoli (Voluntary return, The removal order, Detention pending removal, Readmission, Forced removals) riguardanti i vari aspetti del rinvio forzato. In particolare un capitolo è dedicato alla detenzione in attesa dell’allontanamento in cui sono indicate, tra l’altro, le circostanze in cui la detenzione può essere ordinata e le condizioni minime di detenzione (7).


 


Lo stato ospite dovrebbe prendere misure di promozione del ritorno volontario più che coattivo; l’ordine di allontanamento dovrebbe essere perseguito solo in accordo con le leggi nazionali e non dovrebbe essere applicato se presente il rischio di violenze, torture o trattamenti inumani e degradanti nel paese di ritorno sia da parte del governo sia da parte di “non-state actors”.


Al fine di verificare l’ assoluta assenza di pericolo nel paese di ritorno, dovrebbero essere valutate e prese in considerazione le informazioni provenienti da tutte le fonti, governative e non, e dall’UNHCR, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati.


 


Non dovrebbe inoltre essere portato a termine un’ordinanza di rimpatrio se lo Stato in cui il migrante deve far ritorno rifiuterà il rientro del migrante stesso.


 


E’ proibita l’espulsione collettiva e la mancata adempienza dell’analisi individuale dei diversi casi.


La quarta linea guida stabilisce norme specifiche riguardo all’ordine di espulsione: dovrebbe essere indirizzato direttamente al destinatario che deve essere messo a conoscenza delle sue effettive possibilità di rimedio affinché possa essere revocato l’ordine di espulsione.


Il terzo capitolo riguarda le modalità di detenzione dopo che è stato dato l’ordine di rimpatrio. La persona detenuta dovrebbe, innanzitutto, essere informata in una lingua che conosce e dovrebbe avere la possibilità di contattare giudici e avvocati. La detenzione dovrebbe essere più breve possibile e rispettosa dei diritti umani; il personale presente all’interno dei luoghi detenzione dovrebbe essere altamente qualificato e in grado di affrontare la situazione specifica. I luoghi stessi, inoltre, dovrebbero essere organizzati e gestiti secondo determinate norme.


 


Le persone trattenute dovrebbero ricevere degna assistenza medica e ascolto psicologico e non dovrebbero essere detenute insieme a ordinary prisoners; dovrebbero avere libero accesso ad avvocati, ONG e familiari. I centri di detenzione dovrebbero essere costantemente monitorati da enti esterni e l’accesso dovrebbe essere liberamente consentito a membri dell’UNHCR, del parlamento europeo e altri soggetti qualificati.


 


Lo Stato ospite dovrebbe assicurarsi che, nel caso di richiesta d’asilo rifiutata, il paese d’origine non venga a conoscenza della richiesta fatta dal richiedente.


Non dovrebbe essere previsto l’uso della forza durante il rimpatrio e la scorta dovrebbe essere costituita da personale qualificato e adeguatamente formato.


b. Il pacchetto sicurezza


Le nuove linee guida da poco adottate potrebbero portare a una maggiore tutela dei diritti dei migranti, rifugiati o richiedenti asilo detenuti in CPTA o Centri di Identificazione, ma queste in realtà non hanno funzione coattiva, dovrebbero unicamente orientare le scelte del legislatore nazionale che può però, in sostanza, disattenderle senza incorrere in particolari sanzioni.


Le suddette linee guida finora sono state ampiamente disattese dall’Italia anche in occasione dell’approvazione del c.d. “pacchetto sicurezza” che destina alcune norme al problema dei clandestini (8).


In particolare, viene introdotta dalla nuova normativa, tra l’altro, l’aggravante della clandestinità nel senso che se chi delinque è un clandestino le pene sono aumentate di un terzo. La nuova aggravante vale non solo per gli extracomunitari ma anche per i cittadini europei entrati irregolarmente.


Inoltre è prevista una condanna da sei mesi a tre anni per chi ceda "a titolo oneroso un immobile di cui abbia la disponibilità ad un cittadino straniero irregolarmente soggiornante nel territorio dello Stato" e confisca dell'immobile stesso tranne nel caso che appartenga a persona estranea al reato mentre viene introdotta nuova denominazione del cosiddetto cpt che diventa "centro di identificazione ed espulsione", senza alcuna modifica sostanziale rispetto all’incresciosa situazione precedente alla riforma.


La circostante aggravante comune dello stato di irregolarità dello straniero, introdotta dall’art. 1, del d.l. 92/2008, come coordinato dalla legge di conversione 24 luglio 2008 n.125, all’art. 61, comma 1, c.p. il nuovo n. 11 bis, e che prevede un aggravamento di pena “se il fatto è commesso da un soggetto che si trova illegalmente sul territorio italiano”si presta a diverse critiche, come sottolineato da più parti (9).


In primo luogo del tutto discutibile è il collegamento operato dal Legislatore in base al quale l’aggravamento di pena è dovuto al solo fatto che il reo è uno straniero illegalmente presente in Italia.


In base alla nuova aggravante, l’aggravamento risulta collegato al solo status amministrativo (straniero regolare o irregolare) e prescinde dal nesso esistente tra lo status amministrativo e la condotta penale.


Questo spostamento di attenzione e di rilevanza giuridica dal delitto al delinquente, dal fatto al soggetto arretra il nostro sistema penale all’Ottocento, ed è inoltre contrastante con l’attuale impostazione costituzionale del diritto penale quale diritto penale del fatto (cfr. art. 25 Cost.).


Inoltre, la nuova aggravante risulta lesiva del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. Infatti, una uguale condotta materiale sol perché commessa da uno straniero irregolare sarà punita più gravemente rispetto all’identica condotta commessa da un cittadino italiano o da uno straniero regolare con una evidente lesione del principio di uguaglianza.


Va ancora sottolineato come l’aggravante in questione contenga un elemento normativo giù ridico. Infatti, l’avverbio “illegalmente” rinvia, al fine di stabilire se lo straniero sia regolare o meno, alla normativa di settore (in primis, il Dlgs 286/1998, TU immigrazione), con diverse conseguenti difficoltà (si pensi a straniero privo sì di permesso di soggiorno ma inespellibile in quanto rientrante in una delle condizioni di cui all’art. 19 TU immigrazione).


Si badi, infine, che ai sensi dell’art. 59, comma 2 c.p. “le circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico dell’agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa”. Ora, posto che l’aggravante in esame rinvia, tramite l’elemento normativo, alla normativa di settore (TU immigrazione), nel caso in cui il reo sia uno straniero non in regola con il permesso di soggiorno, ma che erroneamente ritiene di essere regolarmente soggiornante (per ignoranza o erronea conoscenza della normativa di settore, cui l’aggravante in commento rinvia, e qui gli esempi che si potrebbero fare so no molteplici), ebbene in tal caso non opera l’aggravante di cui al nuovo n. 11 bis dell’art. 61, comma 1 c.p.


E’ fuor di dubbio come la norma verrà sottoposta al Giudizio di costituzionalità della Corte delle Leggi quanto prima in base alle eccezioni sollevate da numerosi difensori.


Va aggiunto che sul problema fortemente critiche sono state le Chiese cristiane europee, soprattutto dopo una lettera congiunta, e la Caritas.


I vescovi cattolici riuniti nella Conferenza degli episcopati della Comunità Ue (Comece) si dicono «molto preoccupati» e chiedono al Parlamento europeo che «sia limitato l'uso della detenzione amministrativa e il divieto di riammissione in circostanze eccezionali».


Suggeriscono inoltre di garantire «un periodo minimo di trenta giorni per il rimpatrio volontario».


Il compromesso attuale, sottolineano i vescovi, «non tiene conto della situazione di molti immigrati» e le Chiese, pur capendo le preoccupazioni dei governi e della società di preservare lo stato di diritto, chiedono che «sia rispettata la dignità di ogni essere umano».


Le preoccupazioni manifestate in varie sedi istituzionali hanno trovato conforto nei gravi episodi di xenofobia manifestatisi dopo l’approvazione della normativa ed ancor prima con l’erezione del cd. Muro di Padova che ne è stato fattore scatenante specie nelle Regioni ad alta densità di presenza straniera.


c. L’individuazione dei clandestini


Le Chiese cattoliche pongono quindi alle Autorità di Governo dell’UE un problema fondamentale per arrivare alla soluzione del problema:


Il rispetto dei diritti fondamentali e l’individuazione dei clandestini da espellere.


Le nuove norme, sul punto, fanno riferimento, quanto alla circostanza aggravante di cui all’art. 61, 1° co., n. 11 bis, c.p., al “soggetto che si trova illegalmente sul territorio italiano” e, quanto alla fattispecie di reato di cui all’art. 12, 5° co. bis, t.u. immigrazione, al “cittadino straniero irregolarmente soggiornante (10).


Si tratta di nuove figure destinate ad alimentare dubbi ed incomprensioni in mancanza di un’adeguata interpretazione dottrinale e giurisprudenziale.


Per ridefinire l’ambito di applicazione dell’art. 12, 5° co. bis, t.u., che punisce chi cede a titolo oneroso un immobile ad uno “straniero irregolarmente soggiornante”, occorre prendere le mosse dai principi generali che regolano la materia dell’immigrazione, ossia dal titolo primo del testo unico (Dlgs 286/98).


 L’art. 1 t.u. fornisce una chiara definizione dell’aggettivo sostantivato “straniero”, indicando con tale termine sia il cittadino di Stato non appartenente all’Unione Europea (extra-comunitario), sia la persona priva di cittadinanza (apolide).


Neppure il significato del participio “soggiornante” presenta grosse difficoltà, intendendosi per tale lo straniero che trascorre od intende trascorrere nel territorio nazionale un apprezzabile periodo di tempo.


 Le vere difficoltà sorgono invece nello stabilire quando il soggiorno dello straniero possa definirsi “irregolare” dacché il testo unico è sul punto impreciso ed addirittura fuorviante.

Stando all’art. 5, 1° co., t.u. imm., infatti, è “regolare” il soggiorno dello straniero che risponde congiuntamente ai seguenti requisiti:


a)     sia entrato in Italia attraverso un valico di frontiera esterna;


b)     sia in possesso di carta di soggiorno o permesso di soggiorno in corso di validità, ovvero di titolo equipollente rilasciato da altro Paese dell’Unione Europea


Conseguentemente, tutti gli stranieri entrati clandestinamente, ossia sottraendosi ai controlli di frontiera, e quelli non in possesso di uno dei detti titoli di soggiorno non scaduti (carta e per messo di soggiorno) sarebbero irregolarmente soggiornanti.


Se la norma fosse interpretabile in tal senso nella classificazione degli “irregolari” rientrerebbe una moltitudine di stranieri della cui permanenza legittima nel territorio nazionale nessuno dubita.


 In base ad una tale interpretazione sarebbero, infatti, “stranieri irregolarmente soggiornanti”:
1.- i titolari di permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo (artt. 9 e 9 bis t.u.);


 2.- coloro che, all’interno del termine di tolleranza di cui all’art. 5, 2° co., t.u. imm., non hanno ancora presentato la prima richiesta di permesso di soggiorno;
3.- coloro che, all’interno del termine di tolleranza di cui all’art. 13, 2° co., lett. b) t.u. imm., non hanno ancora presentato la richiesta di rinnovo permesso di soggiorno;
4.- coloro che hanno tempestivamente richiesto il rilascio od in rinnovo del permesso di soggiorno senza averlo ancora ottenuto dalla competente questura;
5.- coloro che hanno presentato la dichiarazione di presenza ai sensi dell’art. 1 l.28.5.2007, n. 68;


6.- gli stranieri minorenni privi di permesso di soggiorno;


7.- gli stranieri che hanno ottenuto l’autorizzazione ministeriale al reingresso di cui all’art. 13, 13° co., t.u. imm.


8.- i clandestini attinti da decreto di espulsione nei cui confronti l’autorità giudiziaria non ha ancora rilasciato il nulla osta all’esecuzione dell’espulsione (art. 13, 3° co., t.u.);
9.- i clandestini di cui si è accertata una situazione di violenza o grave sfruttamento in loro danno (art. 18 t.u.);


10.- gli altri soggetti inespellibili ai sensi dell’art. 19 t.u. imm.


11.- gli stranieri che, pur entrati clandestinamente hanno visto riconoscersi lo status di rifugiato;
12.- gli stranieri che, pur entrati clandestinamente, hanno un permesso di soggiorno per motivi di richiesta asilo politico o di protezione internazionale, sussidiaria od umanitaria;
13.- coloro che, pur entrati clandestinamente, hanno ottenuto ovvero possono ancora ottenere un permesso di soggiorno a seguito di sanatoria o procedure straordinarie di regolarizzazione (l. 189/2002).


Su quest’ultimo punto va sottolineato che tali cittadini stranieri, pur in presenza di una richiesta di regolarizzazione regolarmente avanzata dalle Imprese, non hanno potuto ottenere il rilascio del permesso di soggiorno pur continuando a prestare attività lavorativa senza regolari documenti.



 


d. Il trattamento giudiziario per i clandestini


 


La nuova normativa, pur prevedendo una sorta di accelerazione delle espulsioni, nulla ha pre visto con riferimento all’osservanza dei diritti fondamentali stabilita dal Consiglio di Europa.


Nel 2005, come innanzi ricordato.


 


In particolare, pur in presenza di gravi carenze nel sistema giudiziario, carcerario e nei nuovi ex-CPT, alcuna norma sancisce il rispetto del diritto inalienabile ad avvalersi di un interprete e traduttore a carico dello Stato al fine di poter articolare le proprie ragioni che ostano all’espulsione e proporre opposizione.


 


Tanto meno, per quanto innanzi esposto, le varie situazioni dei clandestini risultano ben distinte dalla nuova normativa lasciando aperte a qualunque valutazione le decisioni a cui sono chiamati i Giudici di Pace, investiti, ancora una volta della necessità di giudizi, da una parte sommari e comunque meritevoli di approfondimento anche grazie alla mancanza di una norma di salva guardia che preveda la sospensione del procedimento (11).  


 


In questo quadro accidentato merita di essere menzionata la recente sentenza della Cassazione che abilita all’espulsione del clandestino che contrae o deve contrarre matrimonio con una cittadina italiana e/o straniera regolarmente soggiornante in Italia.


 


La Corte di Cassazione, con sentenza n. 6605/2008 (12) ha, infatti, di recente, precisato che neppure le nozze contratte con un cittadino italiano  salvano l’immigrato clandestino dall’espulsione intimata dal Questore in quanto il matrimonio non rientra tra i motivi di discriminazione razziale che giustificano l’inosservanza dell’ordine di espulsione. Solo in casi di discriminazione si può disobbedire all’ordine di allontanamento del Questore.


 


Lo ha stabilito la Suprema Corte annullando l’assoluzione pronunciata dal Tribunale di Bergamo nei confronti di un immigrato clandestino che, dopo essere stato raggiunto da un ordine di allontanamento del Questore di Rimini, mentre risultava in attesa dei documenti necessari per il matrimonio, poi effettivamente avvenuto il 5 febbraio 2007.


 


Il Tribunale, nonostante l’immigrato non avesse ottemperato all’ordine di allontanamento, lo aveva assolto sulla base del fatto che, quasi a distanza di sei mesi, si era effettivamente sposato.


A tale decisione si era opposto il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Brescia, evidenziando che la causa di giustificazione speciale non poteva essere applicata nel caso in questione, considerato anche il lasso di tempo intercorso tra la notifica dell’ordine di allontanamento e la celebrazione del matrimonio.


 


La Corte, accogliendo il ricorso del Procuratore Generale, dopo aver ricordato che l'istituto dell'espulsione si colloca in un quadro sistematico che, pur nella tendenziale indivisibilità dei diritti fondamentali, vede regolati in modo diverso, anche a livello costituzionale, l'ingresso e la permanenza degli stranieri nel Paese, a seconda che si tratti di richiedenti il diritto di asilo o rifugiati, ovvero di c.d. “migranti economici”, ha affermato che, “mentre il pericolo di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche o di condizioni personali o sociali preclude l'espulsione o il respingimento dello straniero, analoga efficacia “paralizzante” è negata, in linea di principio, alle esigenze che caratterizzano la seconda categoria”. Se non sussistono motivi discriminatori, quindi, non è lecito disobbedire all’ordine del Questore, neanche in caso di matrimonio.


 


Si tratta di una decisione veramente singolare che è destinata a suscitare tutta una serie di ricorsi, stante la diffusione della casistica e che, invero, non appare in linea con la normativa in materia di ricongiungimenti familiari e di diritto alla famiglia (15).


 


Il T.U. sull’immigrazione prevede che è possibile chiedere il ricongiungimento per il solo coniuge, i figli minori, anche del coniuge o nati fuori dal matrimonio, non coniugati (abolita dunque la condizione di figlio "a carico"), figli maggiorenni a carico, qualora permanentemente impossibilitati a provvedere alle proprie indispensabili esigenze di vita per motivi di salute (non è più richiesta l’invalidità totale), nonché genitori a carico che non dispongano di un adeguato sostegno familiare nel paese di origine o di provenienza (eliminata la necessità dell’accertamento dell’esistenza di altri figli nel paese d’origine).


 


I requisiti richiesti al soggiornante per ottenere il ricongiungimento, oltre al possesso della carta di soggiorno o del permesso di soggiorno con le caratteristiche sopra indicate, sono la disponibilità di un alloggio idoneo e una capacità reddituale tale da consentire il mantenimento di sé e dei ricongiunti, utilizzando come parametro di riferimento l’importo annuo dell’assegno sociale.


 


Inoltre, l'art.19 del T.U. prevede espressamente il divieto d'espulsione nei confronti dei cittadini stranieri che siano conviventi con coniuge di nazionalità italiana.


 


L'articolo precisa inoltre che a seguito del matrimonio e perdurando la convivenza tra i coniugi vi è l'obbligo di rilasciare un permesso di soggiorno per motivi di famiglia valido anche per motivi di lavoro.


Inoltre dal combinato disposto dell’art. 16 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo (13) e dellart. 8 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (14)si evince chiaramente una tutela della famiglia con la conseguenza che, anche in base a tali principi, appare discutibile la decisione assunta dalla Suprema Corte.


 


Per fare chiarezza basterebbe integrare la norma dell’art.19 del T.U. inserendo il divieto di espulsione anche per il coniuge straniero in attesa di matrimonio. In occasione dell’emanazione della nuova normativa in materia di ricongiungimenti familiari.


 


Di recente la CGUE (16) ha emesso una importante decisione sancendo il diritto di soggiorno  del coniuge extracomunitario del cittadino europeo, anche se clandestino.


 


Pertanto, se il cittadino europeo contrae matrimonio nello Stato ospitante, al coniuge extracomunitario deve essere riconosciuto il diritto di soggiorno ai sensi della direttiva 2004/38 ed il diritto al ricongiungimento vale sempre e non può essere revocato in alcun caso. Però, se il coniuge straniero soggiorna irregolarmente, nulla vieta allo Stato di applicare nei suoi confronti una sanzione, come un’ammenda proporzionata, senza però disporne l’allontanamento, salvi i casi di pericolosità accertata.


 


A seguito di questa sentenza, si determina di fatto una regolarizzazione permanente in favore dei cittadini extracomunitari che hanno contratto matrimonio con i cittadini europei nello Stato dove costoro si sono trasferiti; regolarizzazione che si estende necessariamente anche agli altri familiari che godono del diritto di soggiorno ai sensi della direttiva 2004/38, quali sono i figli e gli ascendenti del coniuge extracomunitario.


 


Una ulteriore conseguenza riguarda direttamente l’Italia che, come è noto, ha esteso la disciplina della direttiva ai familiari extracomunitari del cittadino italiano: per effetto di tale equiparazione, d’ora in avanti il cittadino extracomunitario irregolare che contrae matrimonio con il cittadino italiano dovrà ricevere il documento di soggiorno previsto dalla direttiva e cioè la carta di soggiorno quinquennale e non più, come ad oggi, un permesso di soggiorno della durata di un anno rilasciato ai sensi dell’articolo 19 del testo unico immigrazione.


Ostuni, settembre 2008                                                              


                                           


                                                                                                          **Presidente ANIMI


 


 


NOTE



  1. V. Fini intervista AP 12/2/2007
  2. V. UE,Risoluzione del Parlamento Europeo sull’intensificarsi della violenza razzista ed omofoba in Europa
  3. V. UE Direttiva del 5/6/2008 per il rimpatrio dei clandestini extracomunitari
  4. V. sentenza Corte Costituzionale n.254/2007 in Altalex.it
  5. V. L.Faraon, diritto di difesa dello straniero dopo la sentenza della Corte Cost. 254/2007 in Altalex.it
  6. V. Volterra, Le direttive europee in materia di immigrazione, in osservatorioantigone.it
  7. V. dello stesso Autore, Le misure alternative sono applicabili anche ai clandestini, in Altalex.it
  8. V. Legge 4/7/2008 n.125 in Altalex.it con nota di A. Ceccobelli
  9. V. Di Pietro, Prime considerazioni sulle norme del pacchetto sicurezza, in Personaedanno.it
  10. V. S.Centonze, Le nuove figure introdotte dal pacchetto sicurezza, in Personaedanno.it
  11. V. Dello stesso Autore, v. La sospensione dell’espulsione del cittadino straniero in Altalex.it
  12. V. Cassazione, Sez. I, sentenza n.6605 del 12/2/2008 in Cittadinolex.it e Cass. Sez. I 6/12/2004 n.22805 in venetoimmigrazione.it

13.  L’art. 16 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo recita:


 


« 1. Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione. Essi hanno eguali diritti riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e all'atto del suo scioglimento.


2. Il matrimonio potrà essere concluso soltanto con il libero e pieno consenso dei futuri coniugi.


3. La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato».


14.L'art. 8 della CEDU dispone:


« 1. Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza.


2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell'esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, per la pubblica sicurezza, per il benessere economico del paese, per la difesa dell'ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, o per la protezione dei diritti e delle libertà altrui».


 


      15. vedi sul punto il D.Lgs. 2007/5 il Governo italiano ha dato finalmente attuazione alla direttiva 2003/86/CE del 22 settembre 2003 relativa al diritto di ricongiungimento familiare


       16.v Miele,Diritto di soggiorno del coniuge extracomunitario in Immigrazione.it


 


 


 


 


 


 


 


 


 


PARTE II


ESAME DEL PROBLEMA DA PARTE DEL CITTADINO ITALIANO


 Di Luciano Faraon**


 


         Finora il problema dell’espulsione del cittadino straniero che sta per contrarre matrimonio con un cittadino italiano, è stato sempre esaminato dalla parte dello straniero e mai è stato tenuto in considerazione il fatto che, dall’attuazione del decreto di espulsione, vi è la lesione del diritto del cittadino italiano a contrarre matrimonio.


         Se è pur vero che vi sono stati dei matrimoni simulati tra stranieri paganti e cittadini italiani compiacenti, normalmente perché in stato di difficoltà finanziarie, la prevalenza di matrimoni misti nasce da una situazione affettiva reale e dalla reale volontà di contrarre un valido matrimonio.


         Nell’attuazione della legge non può farsi semplicisticamente riferimento alla singola norma, ma la stessa va applicata attraverso l’interpolazione con le norme che regolano la complessiva fattispecie dell’espulsione dello straniero, ed in primis deve farsi riferimento alla Costituzione ed alla “Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” recepita nell’ordinamento italiano con legge 4 agosto 1955 n. 848.


         Per quanto attiene alla Costituzione Italiana, va rilevato che la stessa tutela la famiglia già formata specificatamente all’art. 29, ma all’art 31 la Costituzione tutela anche la formazione della famiglia: “La repubblica agevola con misure economiche e altre previdenze la formazione della famiglia”.


         La Giurisprudenza sulle espulsioni si è sempre pronunciata con riguardo alla posizione dello straniero, ma mai è stato tenuto in considerazione che il provvedimento va ad incidere negativamente anche sui diritti del cittadino italiano che abbia deciso di contrarre matrimonio con una cittadina straniera.


         La tutela del diritto al matrimonio nasce da norme che hanno una validità di riferimento cardine per ogni stato democratico e cioè la Costituzione e la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.


         Norme che se non osservate gravano da un lato la censura della Corte Costituzionale e dall’altra l’intervento della Corte Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo.


          Ma in ogni caso, prima che legge scritta, il diritto a contrarre matrimonio è un diritto naturale.


Da ciò ne consegue che l’impedimento a contrarre  matrimonio è un diritto della persona.


Conseguentemente per la violazione delle norme suddette, mentre per il provvedimento di espulsione vi è la giurisdizione esclusiva del Giudice di Pace, per quanto attiene il diritto di status e cioè il diritto a contrarre matrimonio vi è la competenza del Giudice Ordinario con controparte il Pubblico Ministero.


Infatti si tratta di tutela di diritti personali ai quali  l’A.G. non può sottrarsi atteso che nell’applicazione delle norme va fatto innanzi tutto riferimento ai diritti fondamentali della persona e poi alle norme sull’espulsione, a meno che non si sia di fronte a pericoli sociali derivanti dal comportamento criminale del nubendo straniero.


Criminalità che non può coincidere con una immigrazione clandestina determinata dalla povertà!


         Nel caso seguito dallo scrivente a seguito dell’espletamento della pratica per le pubblicazioni per il matrimonio, in ottemperanza alle circolari esistenti, il Comune di Mogliano Veneto dava comunicazione ai Carabinieri che erano state richieste le pubblicazioni per matrimonio civile tra il cittadino italiano Danesin Vincenzo e la cittadina Moldava Motpan  Valentina, che però risultava priva del permesso di soggiorno.


            La cittadina Motpan Valentina, accompagnata dal futuro marito, si è presentata in buona fede all’Ufficio stranieri della Questura di Treviso ignorando di avere a suo carico un precedente provvedimento di espulsione, dato che all’epoca del primo provvedimento non conosceva l’italiano, né era stata assistita da un interprete.


         Alla Questura di Treviso la Sig.ra Motpan Valentina veniva arrestata per immigrazione clandestina e per non aver ottemperato all’ordinanza di espulsione di cui sopra: come dianzi detto, non ne aveva avuto cognizione, come risulta dalla documentazione del collegato procedimento penale che si dimette in allegato.


         Purtroppo le attuali procedure di espulsione non consentono al difensore di conoscere la documentazione del singolo caso, se non per quanto è possibile vedere, un attimo prima che inizi l’udienza e quindi l’opposizione alla convalida dell’arresto che nella fattispecie si è fondata sulla palese la violazione degli artt. 8 e 12 della L. 848/1955 - “Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”.


         Il Giudice Penale del Tribunale di Treviso, convalidava l’arresto e poneva la ricorrente in libertà, e non concedeva il nulla osta per l’espulsione, come risulta dal verbale che si dimette, concedeva invece termini a difesa e rinviava la causa all’udienza del 17 dicembre 2008 ore 9.00 e seguenti.


         Il nulla osta all’espulsione veniva però rilasciato successivamente dal Pubblico Ministero su richiesta della Questura di Treviso, in contrasto con il provvedimento del Giudice penale che di riscontro nel rinviare la causa al 17 dicembre 2008 non aveva dato il nulla osta all’espulsione.


         Ciò, però, non consentiva alla Motpan Valentina di ritornare presso l’abitazione del convivente e futuro sposo, ma veniva portata nuovamente in Questura a Treviso e, da qui, trasferita a Bologna presso il Centro di Identificazione ed espulsione sito in via Mattei n. 60.


         In data 21 agosto 2008 l’espellenda veniva tratta avanti al Giudice di Pace di Bologna operante all’interno del Centro di identificazione ed espulsione per la convalida del provvedimento di accompagnamento alla frontiera e di trattenimento presso il C.P.T. ex art. 14 D.L.vo 286/1998.


Il Giudice di Pace, accertata la mancata regolarità della notifica al difensore rinviava la causa al giorno successivo per gli stessi incombenti, ma la convalida avveniva dopo le 48 ore previste dall’art. 14 n. 3 del D.L.vo 286/1998 che statuisce: “Il questore del luogo in cui si trova il centro trasmette copia degli atti al giudice di pace territorialmente competente, per la convalida, senza ritardo e comunque entro le quarantotto ore dall'adozione del provvedimento”.


La realtà cui deve farsi riferimento si appalesa complessa e con implicanze umanitarie che non possono essere disattese dalla fredda interpretazione letterale delle sole norme riguardanti la normativa sull’immigrazione, ma anche e soprattutto considerando i diritti soggettivi sia del cittadino straniero e non ultimo di quelli del cittadino italiano a poter realizzare la famiglia la cui tutela è garantita dagli artt. 29 e 31 della Costituzione.


         In questi casi il provvedimento di espulsione viene notificato al cittadino straniero che non conosce l’italiano, in lingua italiana ed inglese, lingue che nel caso di specie non erano conosciute e ciò in evidente violazione dell’art. 6 della L. 844/1955 che obbliga lo stato che agisce nei confronti del cittadino straniero a garantire un interprete di parte.


         Si richiama sul punto la sentenza N. 254/2007 della Corte Costituzione in materia di diritto di difesa dello straniero ed interprete e lo studio relativo “Diritto di difesa dello straniero ed interprete dopo sentenza n. 254/2007 della Corte Costituzionale” reperibile in Internet sul sito dell’ANIMI e sugli atri siti.


         Va rilevato che il cittadino straniero che non conosce la lingua in cui è scritto il provvedimento di espulsione si trova, di fatto, a commettere un reato in realtà non perseguibile cosi come statuito dall’art. 5 c.p. a seguito della sentenza n. 364/1988 della Corte Costituzionale.


Infatti il cittadino straniero non è posto nella conoscenza della reale esistenza di un pregresso provvedimento di espulsione in suo danno e della valenza dello stesso, ciò comportando la definitività di detto provvedimento, senza che lo straniero sia posto nelle condizioni di impugnarlo.


Va rilevato che l’art. 2 n. 5 del D.L.vo 286/1998 sancisce che “Allo straniero è riconosciuta parità di trattamento con il cittadino relativamente alla tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi, nei rapporti con la pubblica amministrazione e nell'accesso ai pubblici servizi, nei limiti e nei modi previsti dalla legge.”


         Nella fattispecie, il diritto a costruire una famiglia fondata sul matrimonio è tutelato dagli art. 29 e 31 della Costituzione e dagli artt. 8 e 12 della L. 844/1955, e quindi l’espulsione dello straniero che sta per contrarre legittimo matrimonio con il cittadino straniero costituisce violazione sia del diritto dello straniero che di quello contestuale del cittadino italiano.


         Ci si chiede, per altro, come possa sussistere la fattispecie di clandestinità quando l’esistenza in Italia del cittadino straniero proviene da un atto pubblico come le pubblicazioni del matrimonio e non da una indagine di P.G.


         Non è conciliabile con l’art. 31 della Costituzione che sancisce che: “La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia… e quindi impone all’ordinamento italiano la tutela non solo alla famiglia già costituita, ma anche la famiglia in formazione come nella fattispecie.


E’ ben noto che la disciplina dell'immigrazione, ai sensi degli artt. 19 e 30, comma 1-bis, del d.lgs. 25 luglio 1989, n. 286, statuisce che il matrimonio con un cittadino italiano conferisce allo straniero il diritto al soggiorno in Italia, sia ai fini del rilascio del relativo permesso che ai fini del divieto di espulsione, in quanto a ciò faccia riscontro l'effettiva convivenza.


L’espulsione non può essere uno strumento rivolto ad impedire l’esercizio del diritto al matrimonio garantito in primis dal diritto naturale e quindi dalle norme scritte: Costituzione e Convenzione dei diritti dell’uomo.


Il divieto all’espulsione del cittadino straniero sposato con un italiano è la conseguenza del matrimonio.


Ben diverso è il caso ove il matrimonio sia solo apparente e rivolto ad eludere la legislazione sull’immigrazione.


         Nella fattispecie non solo vi era e vi è la convivenza effettiva ormai da tempo, ma i nubendi avevano deciso di contrarre matrimonio ai fini di formare una famiglia reale.


         La tutela del diritto a contrarre matrimonio per il cittadino italiano, in primis viene lesa dal procedimento di espulsione.


         Non c’è chi non veda come l’applicazione dell’art. 18 del D.L.vo 286/1998 non può prevedere la tutela sociale solo nei confronti di situazioni di criminalità atteso che i principi fondamentali della solidarietà statuiti dagli artt., 2 e 3 della costituzione vengono palesemente violati.


         Non può dirisi che dette norme costituzionali in caso di impedimento a contrarre matrimonio siano applicate quando è evidente che ciò costituisce lesione dei diritti sanciti dall’art. 8 e 12 della L. 848 del 1955 e contestualmente violazione degli artt. 29 e 31 della stessa Costruzione in danno non solo alla cittadina straniera, ma anche al diritto del cittadino italiano che vuole contrarre matrimonio con la sua convivente.


Il cittadino italiano viene privato dall’esercizio del diritto a formarsi una famiglia con disparità di trattamento con gli altri italiani per solo fatto di avere scelto una donna straniera.


         Ciò determina una evidente discriminazione razziale che non può essere tollerata nel nostro ordinamento!


         Non si tratta di espulsioni ex art. 15 della normativa sull’immigrazione.


Il principio posto ai fini del divieto di espulsione dello straniero convivente con il coniuge di cittadinanza italiana, di cui all'art. 19 comma 2 lett. c del D.L.vo 25 luglio 1998 n. 286, è ricondotto al fatto che al vincolo contratto deve accompagnarsi la effettiva convivenza, cioè una situazione di fatto di effettiva famiglia, che nella fattispecie già sussisteva e che viene alla luce solo ed unicamente per la buona fede dei ricorrenti di volere regolarizzare detta convivenza con il matrimonio.


         Nella fattispecie si vuole rilevare che stante le previsioni dell’art. 31 della Costituzione la tutela del matrimonio da parte dell’ordinamento giuridico italiano deve essere attuata non solo per il matrimonio già celebrato, ma anche per quello in itinere.


         Nella fattispecie si rileva, ulteriormente, che la volontà di contrarre matrimonio è documentalmente comprovata dalle avvenute pubblicazioni e che l’effettiva convivenza è comprovabile per testi oltre che apparire ictu oculi dall’atto pubblico di pubblicazioni matrimonio cui è seguito il ricorso congiunto rivolto a bloccare il procedimento di espulsione che ha a privato i ricorrenti dal diritto di contrarre matrimonio con violazione del contestuale diritto al rispetto della vita familiare che è stata così calpestata.


Appare evidente, ad avviso dello scrivente, la incostituzionalità dell’art. 19 D.L.vo 286/1998 laddove non è prevista la tutela della famiglia e del diritto di contrarre matrimonio e ciò in violazione degli artt. 2, 3, 10, 24, 29 e 31 della Costituzione.


         La normativa suindicata non tiene in assoluta considerazione il diritto del cittadino italiano a contrarre matrimonio secondo le tutele previste dagli artt, 29 e 31 della Costituzione anche in riferimento agli artt., 8 e 12 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali acquisite nel nostro ordinamento con L. 848/1955.


         Tale mancata previsione viene a violare i principi costituzionali di tutela della persona di cui all’art. 2 della costituzione, di eguaglianza con disparità di trattamento, in violazione dell’art. 3 della Costituzione del diritto del ricorrente cittadino italiano per il solo fatto che il medesimo, dopo avere espletato tutte le previsioni di legge con le pubblicazioni e la fissazione del matrimonio civile avanti al Sindaco del Comune od ad un suo delegato, viene privato di tale diritto per il solo fatto che la futura moglie, già da tempo con lui convivente e costituente la famiglia di fatto dei ricorrenti è cittadina straniera.


         In violazione dell’art. 10 della Costituzione i nubendi vengono privati dal diritto al rispetto della vita privata sancito dall’art. 8 L. 848/1955 e dal diritto a contrarre il matrimonio ex art. 12 della stessa legge.


         In tale contesto risulta evidente altresì la violazione dell’art. 24 della Costituzione laddove l’attuazione della espulsione rende di per sé inattuabile il diritto di difesa atteso che non è risarcibile la vita familiare perduta per il lungo periodo che sarà necessario per uscire da questa difficile situazione che comporta conflitti tra burocrazie di Stati diversi e ciò in danno alla persona dei ricorrenti.


         Ne consegue che l’impedimento a contrarre matrimonio, dopo avere effettuato regolarmente le pubblicazioni, costituisce violazione del diritto soggettivo alla famiglia ed a contrarre matrimonio.


         La normativa sull’immigrazione, che ben deve essere applicata a tutela della sicurezza dello Stato italiano e dei suoi cittadini, deve essere applicata secondo i criteri che devono reggere la P.A. e sanciti oltre che dalle norme succitate anche dall’art. 97 della Costituzione.


         L’espulsione di un cittadino straniero non è essere uno strumento di discriminazione etnica in danno al cittadino italiano e di qualsiasi persona la cui tutela di riferimento è in primis la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo.


 


                                                                      **Avvocato in Spinea/VE


                                                                         Responsabile Regionale


                                                                    ANIMI Veneto


 


MARIO PAVONE
email:Presidenza@animi.org



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