Alle porte di Gori, fra saccheggi e paura
La città lasciata alle vendette dei miliziani sud-osseti. Colonne russe ovunque, profughi furiosi con Saakashvili
Alberto D'Argenzio
GORI (GEORGIA)
«Questa placca è di un militare georgiano, guarda c'è scritto anche il suo nome ed il suo gruppo sanguigno. Si chiamava Mamuka», racconta Bakar, un soldato dagli inconfondibiliti tratti centroasiatici. Bakar e la sua divisione, che è arrivata dalla Cecenia sabato, controllano tutta la città di Gori. Tre carriarmati sono piazzati di traverso sulla statale E-60, l'arteria più importante della Georgia, quella che collega Tbilisi con il mare passando per Gori, impedendo praticamente la circolazione. Dietro ad un carroarmato si vede arrivare a piedi da lontano un uomo stanco con i due figli per mano. Prosegue lento. E' scappato da Patara Garegvari, un piccolo villaggio nei dintorni di Gori. Passa i militari, li ringrazia in russo e quasi senza fermare la marcia parla. «I paramilitari osseti ci hanno attaccati, bruciano le case, rubano e chi resiste viene ucciso». Continua senza dire il suo nome.
La stessa sorte è toccata agli abitanti di Gori, assicurano i suoi abitanti. «I soldati russi non fanno nulla, ma permettono alle milizie ossete e cecene di fare ciò che vogliono», racconta in maniera concitata Natela Merebashvili. Lei è riuscita a scappare, ma racconta storie di violenze, distruzioni, furti, rapine, incendi, stupri, rapimenti di persone ed in particolare di donne. La nostra interprete si preoccupa. Un camion carico di aiuti umanitari prova a entrare in città, ma poi fa marcia indietro e riprende la strada per Tblisi.
Non si può entrare in Gori, tutti lo sconsigliano. «Uccidono, rubano e rapiscono», ripetono tutti gli scampati. I colleghi che riescono ad uscire dal centro, imbucati tra le vetture degli infermieri e dei dottori del locale ospedale militare, raccontano di spari, esplosioni, raffiche di mitra, incendi. «I miliziani osseti hanno preso posizione nella piazza principale, di fronte alla statua di Stalin, stanno facendo di tutto in città», insiste Natela. Il cessate il fuoco ieri a Gori forse c'era, ma di certo non si vedeva, almeno stando a sentire i racconti di chi è fuggito da lì. E se è vero che a sporcarsi le mani sono essenzialmente gli irregolari osseti e ceceni, su cui da anni pesano accuse di crimini contro l'umanità, è altrettanto vero che i russi non fanno nulla per impedire lo scempio di Gori e dei suoi abitanti. Mosca lascia che i suoi «alleati» si vendichino delle violenze subite dalla popolazione dell'Ossezia del Sud durante la prima, fragile, avanzata georgiana. Oltre a ciò, il Cremlino occupa Gori e una porzione di territorio giorgiano, contrariamente agli impegni di ritirata annunciati appena 24 ore prima dallo stesso presidente Dmitrij Medvedev. I militari che vediamo di fronte a noi assicurano che sono lì perché «i georgiani questa notte hanno attaccato ancora l'Ossezia del Sud». Impossibile capire se sia vero. Quel che è certo è che ancora una volta la risposta russa appare sproporzionata, punitiva. Sicuramente l'obiettivo è erodere la stabilità e la popolarità di Saakashvili. «Fuck Saakashvili», dice chiaramante un militare.
Intanto una colonna di una trentina tra carri e blindati circonda la città. Un soldato nervoso, dal tetto di un carro, spara una raffica di kalashnikov contro un gruppo di fotografi e di giornalisti. Evidentemente non voleva essere immortalato. Passano pochi minuti e interviene il tenente colonnello Mikhail Ivanov, la situazione si calma. Non c'è motivo per essere nervosi: i militari russi sanno di aver in mano la partita, salutano con i giornalisti, parlano, bevono vodka. Sono rilassati. Appaiono stanchi ma tranquilli. Bakar ci racconta i movimenti della sue divisione, Max, testa rapata, viso scuro, fuma una sigaretta tra le dita ferite e chiede della vodka. Il tenente colonnello Ivanov appena vede un italiano, stringe il pugno nel saluto comunista e grida «Viva il Duce». Sono tranquilli: di fronte a loro per chilometri non ci sono soldati georgiani, dietro c'è una città da cui si levano delle fiamme isolate e i racconti di violenze e distruzioni, ma loro non se ne curano. Anzi. «Abbiamo questa fascia perché siamo in pace», assicura Bakar mostrando la garza bianca legata al braccio. Altri ammettono più prosaicamente che serve per differenziarsi dalle truppe georgiane che hanno una divisa poco diversa.
Poco dopo le quattro lo scenario cambia. I russi si mettono in moto. Una lunghissima colonna di decine e decine tra blindati, camion con militari e con pezzi di artiglieria lascia Gori ed imbocca la E-60 in direzione Tblisi. E' un serpentone lunghissimo di mezzi, alcuni con la bandiera russa sul tetto. E' impressionante, ma non ci sono i tank e non c'è l'aviazione di appoggio. Ossia non si tratta di una forza destinata, presumibilmente, ad attaccare. Anche così fa il suo bell'effetto dissuasivo e destabilizzante.
La notizia del convoglio si propaga infatti più rapida della lenta avanzata dei mezzi. Viene lanciato l'allarme della marcia su Tbilisi. Il presidente georgiano Mikhail Saakashvili, dalla capitale, annuncia nuovamente di essere sotto assedio. I russi, invece, dopo 17 chilometri sterzano a sinistra, in direzione nord, verso l'Ossezia. «Hanno deviato quando erano a 44 chilometri da Tblisi», assicura Zurab Iremadze consultando uno dei due Gps che ha in mano. Un suo amico controlla con un prismatico i movimenti dei russi. Zurab giura di essere un paesano di Gori, ma lui ed i suoi amici hanno tutti l'aspetto dei funzionari in borghese. Guardano e assicurano ancora che i russi si dirigono a nord. Anche con questa deviazione il danno, quello umanitario, è nuovamente servito.
La popolazione, già allarmata dalle voci delle violenze perpetrate dalla milizie ossete e cecene, inizia una nuova disperata fuga verso est, verso la capitale. Auto, camion, trattori, qualsiasi mezzo di trasporto viene preso di assalto mentre la speranza della pace, balenata solo ieri, lascia nuovamente spazio alla disperazione della fuga. Vediamo passare una vecchissima Volga, la Mercedes sovietica. Si ferma. Ci sono sette persone dentro, sei sul tetto e quattro sedute nel bagagliaio con le gambe fuori a penzoloni. Tra loro tre sono francamente grassi. Tutti uomini, in molti urlano qualcosa di incomprensibile. E' più chiaro un abitante di Kaspi, paesone a metà strada tra Gori e Tblisi. «Ditelo che Saakashvili è un dittatore pazzo, scrivetelo che ci ha lanciati in una guerra senza speranza», sputa rabbia dalla bocca e dagli occhi. La luna di miele del presidente con il suo popolo, durata lo spazio delle manifestazioni di martedì, difficilmente supererà la disperazione delle migliaia di persone che sono state vittime dirette ed indirette di questa guerra.
Proprio dietro a Kaspi si posiziona un gruppo di una quarantina di militari georgiani. Sono del 35mo battaglione, sono loro che dovranno provare a bloccare un'eventuale avanzata russa. In realtà la colonna russa ha già deviato, ed è un bene per questi pochi uomini con ancor meno mezzi. I soldati puliscono due pezzi di artiglieria anticarro, scaricano le munizioni, due blindati si muovono e prendono posizione. Dai pickup scendono le truppe di élite. Proseguendo verso Tbilisi si vedono accorrere altri militari, anche con loro è un magro quadretto. Ma dove sono i vostri carriarmati? «Sono tutti a Tskhinvali», risponde un graduato. Traducendo, sono tutti persi nella battaglia per la capitale dell'Ossezia del Sud. In un sogno di grandezza di un presidente, un sogno che sta facendo pagare una fattura smisurata a tutto il suo paese. E in un futuro prossimo, probabilmente anche a lui.
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