Se si voltano le spalle alla storia David Bidussa 13-05-2008 articolo apparso sul quotidiano Il Secolo XIX del 9 maggio 2008
Un Paese che non racconta a se stesso la sua storia – tutta la sua storia – è un paese incline ad autoassolversi. il mito del bravo italiano ha avuto sempre la meglio. E’ esistita un’Italia delle leggi razziali, non sono esistite solo le leggi razziali, come corpo legislativo. Un corpo coerente che non è caduto all’indomani del 25 luglio 1943, del 25 aprile 1945 o alla Costituente, ma si è trascinato per almeno 40 anni fino al gennaio 1987. Le Leggi razziali non sono state un incidente della storia. Sono un pezzo della storia dell’identità italiana.
Essere razzisti nel corso del XX secolo non significa solo essere nazisti, si può essere razzisti senza teorizzare lo sterminio. L’Italia fascista è stata antisemita e razzista. In forma parziale, contraddittoria, ambigua sono stati fatti i conti con l’antisemitismo, non con il razzismo. Il razzismo dell’Italia fascista non nasce con le leggi contro gli ebrei, nasce prima e riguarda i sudditi neri dopo la guerra italo-etiopica. Dopo il 1945 l’ annullamento delle norme antisemite significava riammettere nel consorzio della società civile chi ne era stato violentemente estromesso; con la questione dei colonizzati neri si trattava invece di prendere in carico chi non era mai stato accolto. Il silenzio su questa seconda questione è stato assordante. Ci sono altri aspetti con cui noi a 70 anni distanza facciamo fatica a confrontarci.
Un primo ordine di problemi allude al fatto che le leggi razziali riguardano cosa si racconta (“i giusti”, il soccorso), ma anche che cosa non si racconta (la delazione, la denuncia, la sottrazione di beni). Non sono le uniche reticenze. Altre riguardano anche il mondo ebraico italiano, non diverso da tutti gli italiani e dunque in gran parte convintamente fascista, aderente al regime, che nell’ottobre 1938 non riesce a capacitarsi di “non essere più italiano”. Anche per questo è parzialmente fuori luogo ragionare dell’antisemitismo fascista paragonandolo a quello nazista. A differenza della realtà tedesca dove il nazismo è un partito e poi un regime dichiaratamente antisemita, il fascismo italiano lo fu dall’inizio – testi di natura antisemita, anche di Benito Mussolini ci sono già nel 1919 – solo in alcune sue componenti culturali e solo in alcune circostanze. L’antisemitismo e il razzismo non erano parte dichiarata del suo programma. Lo erano in forma ambigua. Una parte non indifferente di ebrei fu fascista e nessuno all’interno del Pnf, almeno fino al 1934, ebbe niente da dire sulla presenza ebraica nel partito.
Un secondo ordine di problemi con cui ancora si fa fatica a prendere le misure riguarda l’accoglimento delle leggi razziali da parte degli italiani. Le leggi razziali non erodono il consenso popolare di cui gode il regime se non nella preoccupazione che si renda più probabile lo scoppio della guerra. Nessuno ebbe un sussulto civile sulle leggi razziali. La legislazione razziale fu anzi un’occasione “da non perdere” per regolare conti rimasti aperti nell’ambito delle professioni liberali, ma anche nella proprietà delle imprese, o nelle strutture commerciali. In genere fu un’opportunità per liberarsi facilmente di concorrenti.
Un terzo ordine di problemi riguarda la lunga preistoria dell’Italia delle leggi razziali. Ovvero la solidità del pregiudizio antigiudaico proprio della cultura diffusa del cristianesimo in Italia (la Chiesa non reagì se non tiepidamente alla legislazione antisemita, se non per quanto riguardava le conversioni o i matrimoni misti); l’anticapitalismo – per esser più precisi l’anti.inghilterra e poi l’antiamericanismo diffuso in Italia – non solo nell’universo culturale cattolico, ma presente sia in quello fascista e nazionalista come in quello socialista, sindacalista e operista, già alla fine dell’Ottocento. Un ventaglio di culture spesso tecnofobiche nella storia italiana, con uno sguardo anti-industriale, nostalgico sul passato preindustriale, comunque che vedono la modernità e l’affermazione della società industriale come minaccia al proprio mondo. Una fobia antiamericanista che spesso è anche antieuropeista o che interpreta l’Europa come cristianità da difendere contro l’”infedele” che viene da Oriente, in nome del quale trova come proprio alleato il mondo russo intravisto come uno dei baluardi alla modernizzazione (un altro aspetto che nel secondo dopoguerra avrà una sua continuità anche nell’antiamericanismo a sinistra).
Studiare l’Italia delle leggi razziali significa pensare a una storia “di corta durata”, capace di contenere in un tempo stretto tutti i dati strutturali e congiunturali che esprimono una società e ne individuano i dati profondi: le culture sociali, gli atteggiamenti dei gruppi economici, le culture e gli intellettuali, le periferie e i centri urbani, lo stile culturale dei media, le forme del linguaggio collettivo, gli apparati educativi e scolastici, le culture del tempo libero. In breve quello che in storiografia si chiama le sensibilità. Sono proprio quelle sensibilità a dare solidità a un evento: a radicarlo nel suo tempo e a farlo durare, anche oltre il suo tempo.
Non è vero che se un fenomeno dura poco, poi non pesi nella storia. Pesa. E si ripresenta, in forme nuove, come sempre capita nella storia, mai eguale al passato, ma non totalmente estraneo ad esso. Quando improvvisamente l’omogeneità sociale e culturale di un gruppo si infrange, e quindi quando quel gruppo teme di “perdere se stesso”, tra le risorse culturali che quel gruppo ha, c’è anche quel set di immagini, di parole, di metafore, di simboli che già hanno avuto corso nella propria storia, e a cui inevitabilmente esso ricorre, è proprio perché quel passato esprime un pezzo della propria identità storica che non si è voluta discutere. Ciò non accade né fatalmente, né naturalmente, ma perché con quel passato non si è avuto il coraggio, la forza, e la chiarezza di mettersi in gioco. Era più facile assolversi.
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