dall'agenzia missionaria MISNA 15/8/2008
DOPPI STANDARD, INTERROGATIVI E VITTIME DI UNA “GUERRA LAMPO”
“Saakashvili sperava in una guerra lampo che consentisse di bloccare l’unico tunnel che collega il Caucaso russo con l’Ossezia meridionale” dice alla MISNA Aleksandr Luk’janov, editorialista del quotidiano ‘Izvestija’ e direttore della rivista ‘La Russia nella politica globale’. “La nota congiunta diffusa dopo l’incontro a Mosca tra Medvedev e il presidente di turno dell’Unione Europea Nicolas Sarkozy – sottolinea l’esperto – prevede ‘negoziati internazionali’ sullo status dell’Abkhazia e dell’Ossezia meridionale, una formula che rende la secessione formale delle due regioni solo una questione di tempo”. Mentre ancora proseguivano i bombardamenti russi e risuonavano i colpi dell’artiglieria georgiana, a Tbilisi l’inviato del dipartimento di stato americano che avrebbe dovuto favorire una soluzione della crisi aveva espresso un punto di vista diverso: “Quest’invasione Mosca l’ha pianificata”, in fondo anticipazione della successiva dura condanna della Casa Bianca e della quanto meno sospetta “massiccia operazione umanitaria, con l’uso degli aerei militari e delle navi Usa” annunciata dal presidente George Bush. Sulle ragioni del conflitto esistono ovviamente versioni contrapposte: i reparti georgiani – sostiene il Cremlino - hanno invaso l’Ossezia del sud in violazione del cessate il fuoco concordato dopo il conflitto civile del 1993, bersagliato i “peacekeeper” russi e ucciso nel solo capoluogo Tskhinvali 1500 civili inermi; con l’appoggio dei separatisti osseti – ribatte da Tbilisi il presidente Mikhajl Saakashvili – Mosca ha occupato buona parte del territorio georgiano e riproposto la dottrina della “sovranità limitata” già messa in atto nel 1956 in Ungheria e nel 1968 in Cecoslovacchia.
Dichiarazioni partigiane e proclami interessati sembrano nascondere dinamiche complesse.
A fornire uno spunto di riflessione sono le parole con le quali il presidente russo Dmitrij Medvedev ha annunciato la conclusione delle azioni militari: “I nostri obiettivi sono stati raggiunti, la sicurezza dei ‘peacekeeper’ e della popolazione civile è stata garantita, l’aggressore è stato punito e ha subito perdite significative”.
Per giorni le principali fonti di stampa internazionali hanno dato conto della schiacciante superiorità bellica della Russia, raccontato di porti e infrastrutture inservibili e, nel complesso, di un apparato militare paralizzato dai bombardamenti; prima che Medvedev ribadisse le condizioni per “una “soluzione definitiva” - il ritiro dell’esercito georgiano fino alle “posizioni iniziali” e la firma di “un documento giuridicamente vincolante sulla rinuncia all’uso della forza” - il conflitto si era esteso all’Abkhazia, l’altra enclave separatista che dal 2004 Saakashvili promette di riportare sotto il controllo di Tbilisi.
In un articolo pubblicato in questi giorni, il corrispondente moscovita del “New York Times” prova ad analizzare i rapporti tra la Casa Bianca e il giovane presidente georgiano: studi universitari ad Harvard, sostenitore dell’ingresso di Tbilisi nella Nato con una certa propensione per la retorica nazionalista, Saakashvili sarebbe stato visto inizialmente come una speranza di “cambiamento” e “democrazia” nel cuore dell’ex-Unione Sovietica, proprio nella repubblica che aveva dato i natali a Stalin; in diversi ambienti dell’amministrazione americana, però, si sarebbe fatta strada l’idea che Saakashvili sia diventato piuttosto l’incarnazione dei “sospetti della Russia sulle intenzioni degli Stati Uniti nel vecchio impero del Cremlino”. Alcuni episodi aiutano a comprendere i timori di Mosca. Dopo l’inizio dell’offensiva di Tbilisi, lanciata mentre gli occhi del mondo erano tutti per l’apertura delle Olimpiadi di Pechino, l’esercito americano ha messo a disposizione i suoi aerei per far tornare in patria i 2000 soldati georgiani impegnati in Iraq; dopo la cosiddetta “rivoluzione delle rose” che nel dicembre 2003 depose Eduard Shevarnadze, l’ex-ministro degli Esteri sovietico presidente della Georgia per buona parte degli anni ’90, gli Stati Uniti hanno offerto a Tbilisi programmi di addestramento e, insieme a Israele e Ucraina, armi di “ultima generazione”. I legami tra la Casa Bianca e la nuova dirigenza georgiana sono stati confermati nel 2006 dall’entrata in funzione del cosiddetto Baku-Tbilisi-Ceyhan (Btc), l’unico grande oleodotto che collega i giacimenti del Caspio ai mercati occidentali senza attraversare il territorio russo. Diverse fonti di stampa indicano nel nodo degli approvvigionamenti energetici una delle cause di fondo del conflitto. Di sicuro, però, sembra esserci solo l’utilizzo del petrolio come strumento di propaganda: Tbilisi ha sostenuto che i russi hanno bombardato almeno due volte il Btc ma dalla British Petroleum, una delle società occidentali che gestisce il condotto, sono arrivate solo smentite. Restano sullo sfondo della “grande politica”, incomprensibili per la maggior parte di lettori e telespettatori occidentali, gli aggrovigliati nodi del Caucaso. E, come suggerisce oggi un’analisi di ‘Izvestija’, resta difficile cancellare del tutto l’impressione di “doppi standard”, singolari somiglianze o almeno curiose parentele: l’Ossezia del sud e l’Abkhazia con il Kosovo, e il Caucaso intero con i vicini Balcani. In questo scenario, chi si occuperà davvero, senza secondi fini o con altri scopi più o meno confessabili, dei 74.000 profughi segnalati oggi dalla Caritas? Don Alexander Pietrzyk, direttore della sezione russa, ha visitato i campi dei rifugiati: “Sono fuggiti dalle case senza portare nulla con sé. Hanno bisogno di tutto, dal cibo alle medicine, ai vestiti. Abbiamo incontrato bambini, donne, anziani. Nei loro occhi si percepisce l'inquietudine e la paura del domani”.
(A cura di Vincenzo Giardina)
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