'La casa e la dignità' parlano i rifugiati sfollati a Milano
di Alen Custovic
Un momento della protesta in piazza Duomo a Milano
MILANO - A tre giorni dallo sgombero hanno finalmente trovato una sistemazione provvisoria, dopo una notte in strada con tanto di nevicata all'alba e un'altra trascorsa nell'aula del consiglio provinciale. Ma una soluzione definitiva al loro problema sembra ancora lontana. Sono i duecento rifugiati politici, provenienti da Sudan, Etiopia, Eritrea, sgomberati a Milano martedì scorso.
Il Comune guidato dal sindaco Albertini, al momento di svuotare il palazzo che avevano occupato in via Lecco, aveva offerto ai duecento sfollati (fra loro anche donne e bambini) una sistemazione in container. Alcuni, una cinquantina, hanno accettato quella che al momento sembrava l’unica alternativa possibile. Ma la maggioranza ha rifiutato, giudicando le condizioni di vita nei container inadeguate e disumane. Così ieri pomeriggio, davanti ai visitatori che affollavano piazza Duomo, si presentava una scena che non poteva passare inosservata: un centinaio di persone di colore sdraiate per terra. Intorno a loro coperte, valigie e sacchi a pelo, ma soprattutto cartelli e striscioni. Uno il messaggio centrale: "Casa".
Elfatih è sudanese, sulla trentina. Avvolto in una coperta, regge un cartello con su scritto: “Vogliamo dignità”. Racconta: “Ho lasciato il Sudan perché con la guerra si fa presto a perdere la testa. Avevo paura e sono scappato. Prima sono andato in Libia per qualche mese, poi sono arrivato in Italia. All’inizio, mentre si svolgeva la pratica per il riconoscimento dell’asilo politico, mi arrangiavo a dormire in qualche vecchia cascina. Poi a metà novembre, assieme ad altri rifugiati, abbiamo occupato il palazzo di via Lecco. Lo abbiamo fatto perché non avevamo scelta, e inoltre quel posto era comunque abbandonato. Ma adesso ci hanno tolto pure quello. Non so davvero cosa ne sarà di noi”.
Un momento della protesta in piazza Duomo a Milano
Isaias è eritreo. Avvolto in una pesante sciarpa e con il volto quasi completamente nascosto da un capellino di lana, racconta la sua esperienza: “Per arrivare in Italia ho attraversato tanti paesi e ho rischiato la vita. Poi il governo italiano mi ha fatto aspettare tanto tempo prima di darmi un permesso di soggiorno e riconoscermi rifugiato politico. Dopo però sono stato completamente abbandonato a me stesso: il governo non mi ha dato un letto dove dormire né mi ha suggerito a chi rivolgermi perché mi aiutasse. Se l’Italia non è in grado o non vuole prendersi cura dei rifugiati politici, sarebbe meglio che non ci desse nemmeno ospitalità formale, così eviteremmo di farci illusioni. Forse è solo colpa mia, ma pensavo che come rifugiato in Italia avrei potuto ricominciare una vita normale”.
Mahmood è fuggito dalla Somalia. Racconta: “Chi scappa dalla propria terra non lo fa mai per scelta. Abbiamo occupato il palazzo abbandonato perché non avevamo dove dormire. Ci avevano proposto di sistemarci provvisoriamente nei dormitori pubblici, finché fosse passato il freddo di questi giorni. Ma poi? Dopo essere sfuggiti a guerre e dittature, non possiamo certo accettare che ci dicano che alle 8 di sera dobbiamo rientrare per dormire e alle 7 di mattina liberare le stanze. Vi chiedo: vivendo in questo modo, uno come fa a sentirsi uomo? Come fa a sperare in una vita normale?”.
Nel tardo pomeriggio del 29 dicembre una soluzione provvisoria è stata trovata, dopo la seconda notte passata al freddo. E in serata la Provincia guidata da Filippo Penati ha annunciato un'intesa con il prefetto, che ha dato garanzie agli sfollati su future soluzioni di lungo periodo.
Per ora solo promesse.
(30 dicembre 2005 - ore 11.45) http://www.ilpassaporto.kataweb.it/dettaglio.jsp?id=44227&s=0
|