“Adelante Giorgio, si puedes. Con juicio” Come il manzoniano governatore di Milano, anche il presidente degli Stati Uniti sta cercando di avanzare in mezzo ad una folla inquieta che rumoreggia e che potrebbe diventare pericolosa da un momento all’altro: non solo la folla degli 11 milioni di immigrati clandestini che hanno manifestato nelle settimane scorse, non solo la folla di parlamentari repubblicani che lo criticano per qualsiasi cosa faccia, dalla guerra alle intercettazioni illegali, ma, soprattutto, la folla degli americani che andranno a votare tra meno di sei mesi e che intanto, per il 70%, gli hanno tolto la fiducia. E così Giorgio Bush cerca di barcamenarsi, dando un colpo al cerchio e uno alla botte, con il risultato però, anche questa volta, di scontentare tutti, sostenitori e oppositori, pro-immigrati e anti-immigrati, nazionalisti gringos e nazionalisti messicani, Chiesa cattolica e associazioni per i diritti civili
Sono molti mesi che nel Congresso va avanti il dibattito su come frenare l’immigrazione clandestina (un milione di latinos all’anno tra messicani e altri sudamericani) e su cosa fare con gli 11-12 milioni di clandestini già presenti sul suolo degli Stati Uniti, dove lavorano come schiavi, spesso in nero e sottopagati, in molti casi da numerosi anni. A dicembre la Camera aveva approvato un provvedimento molto restrittivo, che puntava tutto sulla chiusura delle frontiere e sulla costruzione di un “muro” (fisico ed elettronico) tra Stati Uniti e Messico. Ma il senato non era d’accordo e aveva lanciato un’altra proposta di legge bipartisan del democratico Ted Kennedy e del repubblicano John McCain, che prevedeva una graduale regolarizzazione, un “percorso” lungo fino a sei anni per ottenere la cittadinanza.
Di fronte ai dissensi trasversali nella maggioranza e nell’opposizione, la proposta si era arenata, finché i due capigruppo la scorsa settimana hanno deciso di sbloccarla. Forse entro l’anno – cioè prima delle elezioni – si arriverà a votare un testo, che però poi dovrà essere approvato anche dalla Camera. Insomma la strada è ancora lunga.
Ma nel paese -- nelle piazze, sui giornali e nei talk show – il problema immigrazione ha continuato a crescere. Vari Stati hanno organizzato ronde di vigilantes: i cosiddetti “minutemen” (un termine che si richiama ai volontari della guerra di indipendenza contro l’Inghilterra) hanno incominciato a scorrazzare armati lungo il confine con il Messico, arrestando e malmenando i poveracci che cercano di attraversarlo. I conservatori repubblicani hanno alzato la voce chiedendo interventi pronti e duri per fermare l’invasione barbarica di “alieni” che minacciano i valori della nazione e la lingua inglese. A fronte di tutto ciò, le imponenti manifestazioni di “orgoglio latino”, ad aprile, da parte di milioni di immigrati e della comunità ispanica (forte di 40 milioni di persone) hanno convinto la maggior parte della popolazione “autoctona” che era arrivato il momento di trovare una soluzione equa e condivisa, e soprattutto nella tradizione di un paese fondato e costruito dagli immigrati.
A questo punto Giorgio Bush ha deciso di muoversi e lunedì sera ha convocato le televisioni nello studio ovale per un discorso di politica interna, il primo in sei anni di presidenza. Nel suo discorso di 17 minuti ha cercato di muoversi “con juicio”, un passo avanti e uno indietro, attento a non urtare le diverse suscettibilità. Ha promesso rigore e apertura, regolarizzazione ma non amnistia, dignità e severità. Lui, il presidente decisionista, ha chiesto al Congresso di prendere una decisione (che veramente spetterebbe a lui, ma non ha la forza di imporla). Il piatto forte del discorso è stato l’annuncio che presto invierà un contingente di 6000 uomini della guardia nazionale, che dovrebbero collaborare con i 12.000 della guardia di frontiera (Border Patrol) già schierati al confine con il Messico.
La decisione ha suscitato proteste e perplessità da tutte le parti. Dal Messico, dove tra meno di due mesi si voterà per le elezioni presidenziali, entrambi i principali candidati, Felipe Calderon della destra e Manuel Lopez Obrador della sinistra populista, hanno stigmatizzato la mossa di Bush come un atto aggressivo di “militarizzazione” del confine; a poco sono valse le assicurazioni della Casa bianca che si tratta di una decisione temporanea, fino a quando cioè non sarà pronto e addestrato un ugual numero di guardie di frontiera. Evidentemente il governo americano ha difficoltà ad addestrare i poliziotti, e non solo in Iraq, se si considera che quelle 6000 guardie di frontiera in più non potranno essere pronte prima del 2008 e che nei sei anni precedenti di presidenza Bush sono cresciute di sole 3000 unità. Ma non è solo il Messico a protestare. Sono i governatori degli stati di frontiera, sia democratici che repubblicani. La Costituzione americana affida a loro il comando della guardia nazionale, che dovrebbe avere compiti, in guerra, di difesa della patria dall’aggressione nemica e, in pace, di protezione civile nelle calamità naturali. Ora, gli uomini che saranno dispiegati provengono da turni massacranti in Iraq, sono stanchi e se ne vogliono tornare a casa ai loro lavori civili che avevano lasciato per una ferma di un anno e invece sono stati trattenuti a fare la guerra all’estero per due anni e più.
C’è poi una questione di principio. In tutti i paesi democratici dell’Occidente c’è una netta distinzione di compiti e di status tra forze di polizia e forze armate. La polizia è civile, le forze armate sono militari; la polizia ha il potere di arrestare e di condurre indagini, le forze armate no. Attribuire di fatto alla guardia nazionale, cioè ai militari, compiti di polizia (la Border Patrol è un corpo di polizia federale) vuol dire non solo fargli fare un lavoro per il quale non sono addestrati, ma soprattutto mescolare pericolosamente ordine pubblico e guerra, potere civile e potere militare.
L’unica “consolazione” è che anche questo provvedimento sarà inefficace: 6000 uomini spalmati su un confine di oltre 3000 chilometri sono troppo pochi per fermare gli immigrati che a migliaia ogni mese passano il confine. Ma sono sufficienti ad inquietare un’opinione pubblica già preoccupata dalla deriva militarista e autoritaria del governo, dalle guerre ingiustificate all’estero e dalle restrizioni alle libertà personali in patria. Sempre più la declinante amministrazione Bush si presenta come “eversiva” dell’ordine costituzionale e (come ha scritto il repubblicano conservatore Fred Barnes nel suo recente Rebel-in-Chief) il presidente stesso è sempre più non il comandante in capo, ma il “Sovversivo in capo” della nazione che lo ha eletto.
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