I racconti del Tigri
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di Robert Fisk



Navigando sulle acque verdi del Tigri, passiamo davanti alla vecchia scuola a suo tempo frequentata da Saddam Hussein, alla Mustansariya University risalente al 13° secolo, al ministero della Difesa semidistrutto dalle bombe. Saleh Mohamed Fawzi spegne il motore del traghetto, e così scivoliamo lentamente sotto un grande ponte ferroviario costruito in passato dagli inglesi. «Ti posso raccontare tutto su Saddam, perché è cresciuto proprio laggiù», mi dice indicando col suo braccio abbronzato il quartiere di al-Khurkh avvolto in una umida caligine. Il cortile della scuola frequentata dall’ex dittatore dà sul fiume: uno spiazzo di cemento giallastro su cui campeggiano due misere reti da calcetto.



Saleh trascorre le sue giornate traghettando per pochi dinari, da una riva all’altra del Tigri, la gente che così si risparmia una lunga camminata per raggiungere un ponte o la disperata ricerca di un taxi lungo le vie di Baghdad. Questo è per lui un giorno speciale, perché l’inviato del quotidiano inglese «The Independent» gli ha chiesto di portarlo per fiume attraverso tutta la città. E, in cambio di un equo compenso, di raccontare la storia della sua vita, null’altro. «Il viaggio te lo metterò in conto, ma per il mio racconto non voglio nulla», tiene a precisare.
Un vero affare. Saleh ha appena 35 anni, ma la sua storia di guerra, di diserzione, di paura ci appare, in piccolo, quasi la storia di tutto l’Iraq. È sciita, Saleh, e ci tiene a parlare di religione, di violenza – e dell’America. Dice di essere stato membro dell’allora elitaria guardia Repubblicana di Saddam Hussein. «Ho frequentato l’istituto tecnico di Baghdad, ed eravamo tutti contrari alla guerra contro l’Iran», ci spiega. «Scoppiato il confitto, hanno vietato la navigazione nel tratto fra il palazzo presidenziale e il ministero della Difesa. A noi giungevano i racconti di quanto accadeva al fronte. Sapevamo che molti dei nostri uomini cadevano negli scontri con gli iraniani. Noi studiavamo con impegno nella speranza di evitare la chiamata alle armi; e in effetti ci siamo riusciti. Il fronte significava morire. Ma la paura era di casa comunque. Solo nel mio quartiere, gli uomini di Saddam hanno ucciso 55 persone soltanto perché pregavano in moschea. In altre parole, perché erano sciiti.»
Saleh alza il tono della voce mentre riaccende il motore per evitare la collisione con un tronco che naviga lentamente verso di noi.
«Lo ha donato l’America a Saddam, all’inizio della guerra Iran-Iraq; è un motore Johnson, americano – e funziona ancora.» Gli faccio presente che suona come un complimento alla tecnologia americana. Mi risponde che «lo sanno tutti che la tecnologia americana è validissima. Ma voi stranieri non ci dovete abbandonare nelle mani degli americani. Vi prego, non ci lasciate con loro, non permettete che ci facciano da padroni. Fate in modo che i vostri paesi instaurino rapporti di affari con il nostro, di paese, in modo che se ne possa trarre vantaggio sia noi che voi». E questo sarà d’ora in poi il tema dominante della storia di Saleh: coloro che hanno rovesciato l’odiato tiranno non debbono beneficiare della sua caduta.
Le rovine del passato regime sono lì, lungo le rive del Tigri. Scorriamo lentamente dinanzi al grosso complesso dell’ex ministero della Difesa: muri sventrati, lo spiazzo già riservato alle parate militari è cosparso di macerie di quelli che erano stati gli edifici del ministero. Le finestre di una delle caserme meno colpite sono tappate da blocchi di calcestruzzo: là dentro, dove nel 1990 i generali di Saddam avevano pianificato l’invasione del Kuwait, hanno trovato rifugio centinaia di profughi iracheni.




Purtroppo, quella è stata una guerra che Saleh non ha potuto scampare. «I miei erano qui, a Baghdad; io invece sono stato spedito nel deserto, a sud, sul confine proprio di fronte a hafr el-Batn. Lì siamo stati bombardati più volte sia dagli americani che dagli inglesi. La mia famiglia viveva nei pressi del bunker di Ameriyah, dove centinaia di altre famiglie furono uccise dai missili americani. Poi sono venute le malattie. Mia figlia Hoda è stata colpita da una specie di cancro: la pelle le si screpolava e si spaccava tutta, sembrava una vecchia. Continuo a portarla dai medici, ma pare non ci sia cura. Mi dicono che cancro non è, ma lei soffre, anche psicologicamente».
Racconta Saleh che quando si trovava laggiù, trecentocinquanta chilometri più a sud, ha fatto di tutto per salvare la pelle. «Eravamo in una zona desertica assai isolata, non ci cresceva nulla. L’esercito vi aveva ammassato migliaia di bombe, munizioni, fucili, perché pensavano che la guerra sarebbe durata a lungo. In un deposito c’erano tonnellate di zucchero e biscotti che avevano saccheggiato in Kuwait. Ma non c’era altro da mangiare, non arrivavano rifornimenti. Avevamo fame e ci sentivamo abbandonati. Così ho disertato».
Il traghetto scivola sotto le cupe arcate di un massiccio ponte in cemento precompresso, risultato del lavoro di ripristino voluto da Saddam di un ponte andato distrutto durante la guerra del ’91. Saleh lancia un’occhiata in alto mentre ci troviamo nella fascia d’ombra, e sembra quasi che subisca ancora il peso del passato regime.
Saleh era tornato a casa, a Baghdad, proprio mentre le forze irachene cedevano sotto i raid aerei anglo-americani. Per evitare di trovarsi coinvolto nella dilagante ribellione che stava scoppiando nel Sud sciita, si era nascosto con tutta la famiglia. «Per grazia di Allah, la guerra è stata breve e Saddam è stato umiliato con i suoi uomini di punta. Avendo concesso l’amnistia ai disertori, mi sono consegnato.» Saleh, però, è stato rispedito sotto le armi, e mandato questa volta al nord, ad Ibril.
«Ero furibondo, non volevo più combattere. Così sono scappato di nuovo. Si sa che la diserzione comporta la pena di morte, ma proprio non volevo combattere. Per un musulmano, uccidere è peccato. Me ne sono tornato a casa, e a un certo punto sono riuscito a corrompere degli ufficiali perché togliessero il mio nome dall’elenco dei disertori. Mi è venuto a costare qualcosa come 12 mila dinari, più o meno 400 sterline, tant’è che mia moglie ha venduto tutto l’oro di famiglia per racimolare quella somma».
Siamo nuovamente in pieno sole, e Saleh riavvia il motore militare dai colori mimetici di prammatica. La semplicità con cui Saleh ci racconta la sua storia ci fa quasi dimenticare il suo coraggio. E la sua religiosità.
«Il nostro Imam Ali ci ha detto che il nostro prossimo è nostro fratello nella fede; e se non nella fede, lo è come essere umano. E noi crediamo in questo principio. Bisogna vivere in perfetta pace con tutti, senza fare guerra, senza uccidere.
Sa una cosa, l’Islam è una religione molto semplice, sono purtroppo i fondamentalisti a renderla complicata. Noi siamo contro chiunque uccida o rapisca stranieri. Non è questo il modo di agire del vero musulmano. Così ci hanno detto i Grandi Marja, i nostri maestri».
Tuffo la mano nelle calde acque del Tigri. Cosa prova Saleh nei confronti del Tigri – Dichle, in arabo –, il fiume su cui naviga da quando ha 11 anni? «Sono pescatore e traghettatore, ma partecipo anche gare di nuoto e di canottaggio. Il Dichle è parte di me, perché è il fiume che collega l’intero mio Paese, bagna i luoghi santi, e si unisce all’Eufrate che passa accanto a tutti i santuari. Purtroppo sono gli scarichi dei cementifici e le fogne a sporcarlo così. Andrebbe pulito».
Saleh si trovava sul suo battello quando sono iniziati i bombardamenti americani nel 2003. «Mi sono imbattuto in un corpo che galleggiava proprio là, a faccia ingiù; così l’ho raccolto e portato a riva. Era giovane, ma non lo si è potuto identificare. Lo abbiamo sepolto nel giardino dell’ambasciata britannica che si trovava lì. Quando dopo l’invasione sono arrivati i britannici, hanno disseppellito il corpo e lo hanno spedito all’obitorio. Non abbiamo mai saputo chi fosse».
Stiamo navigando attraverso una zona di campagna, gli alberi e i prati scendono fino a riva. Ai bordi del fiume siedono ragazzi dallo sguardo pungente che indicando il battello urlano «ajenab!», straniero. Non fa piacere sentirselo dire, questi giorni, in Iraq. Proprio per questo ho chiesto al tassista di venirmi a prendere ai margini di Baghdad, a parecchi chilometri dal pontile sconciato dal quale ero salito a bordo. Prima regola per gli stranieri, qui a Baghdad: mai tornare al punto da cui si è partiti.
Saleh non riesce ancora a liberarsi dall’ossessivo ricordo di Saddam. «Da ragazzo, era costretto a prendere a prestito gli abiti da suo cugino, Adnan Khairallah. Pensiamo che non avesse un padre, perché nessuno sa dove sia sepolto. Saddam aveva dei problemi di natura psicologica. Continuava a dire che proteggeva le donne irachene, ma nel contempo uccideva i loro mariti e le riduceva in miseria. Basti guardare cos’è successo a Halabja».
Quando aveva saputo per la prima volta di Halabja, gli ho chiesto. «Anche mio fratello era nella Guardia Repubblicana. Era sul fronte del Kurdistan, e sapeva dei gas. Ce lo aveva raccontato. Ma c’è una cosa che dovete sapere: Saddam e l’America andavano a braccetto. È stata l’America a mettere su Saddam. Con quest’ultima guerra hanno distrutto l’allievo, e i maestri si sono insediati al suo posto. Vi prego, non ci lasciate soli con gli americani».
Ci salutiamo a un piccolo approdo, dove il sole cocente ha sbiancato l’erba. «La avverto, faccia molta attenzione, sia prudente, perché è uno straniero,» mi mette in guardia Saleh. «Speriamo che questo nuovo governo funzioni, voglio essere ottimista. Le cose, però, vanno male».
Rimette in moto il vecchio motore grigioverde, e si allontana sulle acque verdi e limacciose del grande fiume Tigri. È vero, vede di mal’occhio gli americani; ma è bello di questi giorni incontrare un iracheno onesto e coraggioso. Possano tutti i Saleh di questo mondo sopravvivere a tutto.


Fonte: The Independent
Traduzione di
Maria Luisa Tommasi Russo


http://www.unita.it/index.asp?SEZIONE_COD=EDITO&TOPIC_TIPO=E&TOPIC_ID=36071



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