Il mondo shi’ita: le teorie fondamentali del potere politico e religioso
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Il mondo shi’ita: le teorie fondamentali del potere politico e religioso


Sin dall’intervento statunitense in Iraq le attenzioni verso il mondo islamico shi’ita si vanno via via intensificando. L’ultimo evento di rilievo nella scena internazionale che aveva posto la questione sh’ita nel mirino dell’attenzione globale era stata la rivoluzione iraniana del 1979. Questo evento, infatti, segnò l’inizio di un processo politico che vedeva lo scienziato religioso non più soltanto come un giurista della legge islamica, ma un potenziale leader politico in tutti i sensi.
(Pejman Abdolmohammadi)


Equilibri.net (4 giugno 2004)


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I sunniti e gli shi’iti sono le due più grandi ramificazioni della religione islamica; nel percorso dei tredici secoli della storia musulmana i sunniti sono sempre stati in maggioranza mentre gli shi’iti hanno avuto un ruolo di minoranza sia religiosa sia politica. Oggigiorno nel mondo musulmano circa il novanta per cento dei musulmani sono sunniti mentre gli shi’iti sono circa il dieci per cento e si trovano per la maggior parte in Iran, Iraq e nel sud del Libano.


Sin dall’intervento statunitense in Iraq le attenzioni verso il mondo islamico shi’ita si vanno via via intensificando. L’ultimo evento di rilievo nella scena internazionale che aveva posto la questione sh’ita nel mirino dell’attenzione globale era stata la rivoluzione iraniana del 1979.


In quell’anno si assisteva al trionfo del leader religioso shi’ita l’Ayatollah Khomeini in Iran: per la prima volta, nella storia islamica, uno scienziato religioso shi’ita diventava il capo supremo di uno Stato islamico. Questo evento, infatti, segnò l’inizio di un processo politico che vedeva lo scienziato religioso non più soltanto come un giurista della legge islamica, ma un potenziale leader politico in tutti i sensi.


L’eloquente riprova se ne ha oggi in Iraq: l’intervento statunitense e la caduta del regime di Saddam Hossein hanno provocato l’ingresso in politica di un nuovo Khomeini, anche lui shi’ita, Muqtada al-Sadr, leader spirituale e politico della nuova opposizione shi’ita in Iraq, l’opposizione all’occupazione americana.Un leader che, strumentalizzando il suo ruolo religioso, ricopre la funzione anche di leader politico, presentandosi come il rappresentante della maggior parte degli shi’iti iracheni.


L’ideologia movente del leader radicale iracheno è lo shi’ismo duodecimano o imamita. Per poter conoscere le origini di questa parte del mondo islamico, è opportuno iniziare con una descrizione generica del mondo sunnita per poi introdurci nella visione dell’Islam shi’ita.


I Sunniti e gli Shi’iti


Tutto nacque dalla morte di Mohammad il Profeta avvenuta nell’anno 632 dell’era cristiana. Da un lato, la maggior parte dei credenti riteneva che il profeta non avesse nominato alcun vicario e che fosse compito della comunità islamica eleggere un nuovo successore, dall’altro lato però ci fu una minoranza di musulmani, la quale, sosteneva che Mohammad avesse già designato il suo successore e che questi era Alì, il cugino del profeta. Il primo gruppo seguendo le regole dei costumi tribali affidò l’elezione del vicario ad un’assemblea dei saggi, e l’assemblea, designò Abu Bakr successore del profeta, chiamandolo “il primo califfo” (Khalifa). Mentre questo avveniva, il secondo gruppo, minoritario, continuava a sostenere Ali come il vero successore di Mohammad, ritenendo l’elezione del nuovo Califfo, illegittima e considerando Abu-Bakr come un usurpatore del diritto di Alì.


Questo momento segna l’inizio della scissione nell’Islam, una scissione che persiste fino ai giorni nostri. Coloro che avevano considerato l’elezione del primo califfo una elezione giusta e corretta vennero conosciuti come i Sunniti per la grande importanza da loro attribuita alla Sunna, la Tradizione del profeta.


La Sunnah (letteralmente “modo di fare”, “modo di vita”) è parola araba il cui senso è correttamente reso con “tradizione” e, difatti, le testimonianze e i racconti che la costituiscono sono stati tramandati da una generazione all’altra dei musulmani. Quella che si potrebbe definire come l’unità di misura della Sunnah del profeta è il hadith (plur. ahadith) parola araba che significa propriamente “racconto”, “aneddoto”, “testimonianza” riguardante un’azione compiuta, un discorso o una frase pronunciata o qualsiasi altro episodio si riferisca al profeta.


Gli oppositori dei sunniti, avversi alle elezioni del califfo e seguaci invece del genero del Profeta, Alì furono conosciuti come gli Shi’iti: la parola shi’a significa “fazione”, “partito” e fu assegnata a questo gruppo in quanto coloro che sostenevano e spalleggiavano Alì, infatti, venivano chiamati Shi’atul Alì che significa “il partito di Alì”.


Per dimostrare la designazione di Ali da parte del profeta come il suo successore, gli shi’iti fanno ricorso ad alcuni versi coranici e ad alcuni Hadith, tra i quali riveste particolare importanza quello chiamato “hadith di Ghadir Khumm”, in cui si narra che, nell’ultimo pellegrinaggio del Profeta, egli fece una sosta nella località denominata Ghadir Khumm, radunò i musulmani e disse queste parole: “Chi ha me per maestro ha Ali per maestro…”. Questo evento è stato accettato dalla maggioranza dei sunniti come un fatto storico, ma è oggetto di un’interpretazione diversa da quella shi’ita, mentre da una parte minoritaria del mondo sunnita questa narrazione è considerata proprio come un falso storico.


I sunniti vengono conosciuti come “la gente della tradizione e della comunità”, il che indica la grande importanza da loro attribuita alla Sunna (la tradizione) del Profeta, considerata come unica fonte attendibile dopo il Corano per il mondo islamico, mentre “la comunità” ha un ruolo di gran rilievo, in quanto essa è considerata come un bene primario, da conservare ad ogni costo, ed è proprio per questo atteggiamento e questo tipo di pensiero forte comunitario che l’autorità religiosa nell’Islam sunnita non è concentrata in persone ma in un libro (il Corano) e nell’interpretazione “comunitaria” del medesimo attraverso tutto un lavoro di generazioni di dotti e di giuristi.


Gli shi’iti, invece, seguono la famiglia del Profeta come fonte di ispirazione e guida per comprendere la rivelazione coranica, di cui il Profeta fu portatore. I membri della sua famiglia sono il tramite attraverso il quale gli insegnamenti e la grazia della rivelazione raggiungono gli adepti alla Shi’ah. In un certo senso si può dire che la Shi’ah sia l’Islam di Alì (Primo Imam), mentre la sunna si può definire l’Islam di Abu Bakr (primo califfo).
Trattare degli Shi’iti significa fare la storia di una forma di dissenso sia teorico che ideologico, o talvolta di opposizione concreta, all’apparato istituzionalizzato che si era creato subito dopo la morte del Profeta.


Anche gli shi’iti potrebbero chiamarsi “la gente della tradizione” in quanto hanno la loro venerazione per le tradizioni del Profeta e, anzi, tutte le loro dottrine sono basate proprio su tradizioni da loro ritenute autentiche, mentre –a differenza dei sunniti– non potrebbero dirsi fautori dell’interpretazione comunitaria, proprio in quanto è punto centrale della loro dottrina la concentrazione dell’autorità religiosa in centri-persone. La più alta è Dio, cui segue il Profeta e dopo quest’ultimo, come si vedrà, l’Imam. Gli shi’iti non negano la profezia di Mohammad, né la sua definitività nel tempo: sono quindi sostanzialmente degli ortodossi. Ma la loro eterodossia principale (se così si può chiamare) sta nel loro affidamento all’autorità personale di un Imam docente.


Circa il problema della successione del Profeta, si potrebbe dire che, secondo la Sunnah, il “successore” (khalifah, califfo) del Profeta doveva avere soltanto la capacità di guidare una comunità recentemente fondata, mentre gli shi’iti ritenevano che il “successore” (Imam) dovesse essere anche il “legatario” della sua scienza esoterica e l’interprete delle scienze religiose. Ecco perché, nonostante la differenza tra Sunnah e Shi’ah possa sembrare legata solo alla questione della successione del profeta, apparendo quindi un problema eminentemente politico, essa investe in realtà anche un problema teologico, giacché la questione principale, sottesa alla qualifica del successore del profeta, è il significato stesso dell’autorità religiosa nella comunità islamica.



Il Califfo e il Califfato


Secondo l’Islam sunnita il califfo (in arabo khalifah) è il successore del profeta ed il capo della comunità e suo difensore; egli viene considerato come il guardiano della Shari’ah, ma il suo compito non è quello di interpretare la legge divina e le questioni religiose in generale, bensì di amministrare la legge ed esercitare funzioni di giudice. Quindi il califfo non ha uno status di autorità religiosa per la comunità, egli gode soltanto del potere temporale e non di quello spirituale; infatti, egli non è considerato né impeccabile né infallibile e la sua parola non è dogma di fede. “In altre parole la sunnah non condivide che il potere politico si mescoli con il potere divino visto che Dio solo è il detentore di tale potere”.
Le prime autorità sunnite concepirono il califfato come la legittima istituzione politica della comunità islamica. Come vi è soltanto una comunità musulmana (ummah) e una legge divina (Shari’ah), del pari vi è idealmente un califfo che guida la comunità, al quale incombe il dovere di proteggere la comunità e di amministrare la Shari’ah. Più tardi, quando il califfato divenne politicamente debole e potenti sovrani governarono il mondo islamico, questa teoria fu ulteriormente elaborata in modo da includervi il califfato, il sultano e la legge divina.


Il califfato simboleggiava l’unità della comunità e la supremazia della legge divina, mentre il Sultano deteneva, di fatto, il potere temporale, politico e militare, e si presumeva che avrebbe operato al fine di rafforzare e difendere la legge, proteggendo la comunità. Quindi la teoria politica sunnita è caratterizzata, in entrambe le formulazioni successive, dall’istituzione del califfato, il cui compito non era, come si è già accennato, quello di interpretare la legge divina e le questioni religiose in generale, bensì di amministrare la legge islamica (la Sharia).


La figura dell’Imam e l’Imamato


Il governo fondato sulla religione è tenuto, secondo la tradizione shi’ita, a preservare nell’ambito della comunità il vero ordine islamico, in modo tale che l’uomo non adori altri che Dio, fruisca di libertà individuale e sociale nell’ambito delle sue possibilità e goda della giustizia, sia individuale che sociale. Sempre nella dottrina shi’ita, tali finalità possono essere conseguite solamente da un individuo infallibile e protetto da Dio contro la possibilità di errare; questo individuo è chiamato dagli shi’iti “l’Imam”. Proprio per questo la Shi’ah ritiene che dopo il Profeta la comunità necessitasse della figura impeccabile dell’Imam e che questa figura fosse stata designata dallo stesso Mohammad prima della sua morte, durante il suo ultimo pellegrinaggio.
Generalmente con il termine Imam s’intende la persona che “sta davanti”, ossia chi dirige la preghiera pubblica e collettiva del venerdì, ma il termine viene usato anche per il caposcuola di un indirizzo giuridico. È in questo senso che il vocabolo è normalmente usato nel linguaggio comune della sunnah e anche della shi’ah. Da ultimo, il termine ha anche un significato onorifico, qualificando la persona che è a capo della comunità religiosa.


“Nella Shi’ah, l’Imam assume valori specifici, infatti, per Imam s’intende quella persona che è il vero capo della comunità, e più particolarmente l’erede degli insegnamenti esoterici del Profeta. Egli è il difensore e l’interprete per eccellenza della rivelazione, il suo compito è triplice:
a) deve governare la comunità musulmana come rappresentante del Profeta, b) deve interpretare le scienze religiose e la legge, soprattutto il loro significato interiore, e, infine, c) deve guidare gli uomini nella vita spirituale”.
In altri termini, “l’Imam è colui che guida la comunità islamica negli affari sociali, politici, materiali e spirituali secondo l’ordine divino e tutti i musulmani lo seguono come una guida saggia e suprema”; per questo l’Imam deve godere dell’Isma (in arabo “immunità dall’errore”) che gli viene concessa soltanto per volontà divina.


L’Imamato viene ad essere considerato un’istituzione d’origine divina, in quanto continuazione della missione del profeta. Tale istituzione, dopo la morte di Mohammad, inizia con la figura di Ali (cugino e genero del Profeta) considerato il primo Imam dagli shi’iti. Il suo diritto è comprovato dal fatto di avere lo stesso sangue del Profeta e da quello di avere come sposa la figlia prediletta di Mohammad. Inoltre l’Imamato viene trasmesso per via ereditaria e di padre in figlio e contiene il diritto alla guida non solo temporale ma anche spirituale di tutto l’Islam. Gli Imam si succedono come portatori della luce eterna di Dio (in arabo: al-nur Allah), in una catena ininterrotta che sostiene il mondo, il quale crollerebbe se uno soltanto degli Imam venisse a mancare senza aver trasferito la funzione di guida al suo successore; per questo la terra non può mai restare priva della presenza di un Imam, sia pure nascosto o ignoto; di conseguenza, una volta che il Profeta dell’Islam aveva lasciato il mondo, era l’Imam che, con la sua continua presenza, sosteneva e difendeva la religione da un’epoca all’altra.


Le principali divisioni della Shi’ah

Lo shi’ismo è oggi articolato in tre grandi filoni di pensiero: uno estremista (ismailita), uno medio (duodecimano, o imamita) e uno moderato (zaydita). Il nucleo fondamentale della Shi’ah, sia per numero degli adepti sia per la posizione centrale che occupa nella gamma religiosa tradizionale e sulla scena politica attuale, è quello duodecimano o imamita; vi è poi la Shi’ah dei Sette Imam, o ismailita, e la Shi’ah dei Cinque Imam, o zaydita.
Questo dossier, vista l’ampiezza dell’argomento e vista l’attuale situazione politica, si limiterà a descrivere l’ala principale della shi’ah, la duodecimana.


La Shi’ah duodecimana (o imamita)


La shi’ah duodecimana (in arabo: ithna ashari) detta altresì imamita, costituisce oggigiorno la maggioranza del mondo shi’ita, concentrandosi in Iraq, Iran e in parte anche in Libano. Gli imamiti affermano che la guida del mondo islamico, sia dal punto di vista spirituale che temporale, è prerogativa di Ali e dei suoi discendenti. Essi credono altresì che, in base all’esplicita designazione del Profeta, gli Imam della Casa Mohammadiana sono in numero di dodici. La shi’ah duodecimana ritiene che il dodicesimo Imam, conosciuto come il Mahdi (“l’atteso” o “il ben guidato”) sia entrato in occultamento ossia scomparso nel 940 d.C. e che in un futuro egli comparirà nuovamente sulla terra restaurando la religione e la giustizia, che rigenererà prima della fine del mondo.


“L’atteso” è inoltre considerato dall’ortodossia shi’ita non semplicemente “presente in spirito”, ma vivo e vegeto, solo nascosto, sulla terra, miracolosamente longevo e si ritiene che tornerà ad apparire, senza esser mai morto, alla fine dei tempi. L’Imam occulto viene definito “l’Imam del Tempo” o il “signore dell’èra presente” È concetto shi’ita che la comunità musulmana e il mondo stesso non potrebbero sussistere senza un sempre vivo e attivo Imam. Solo che, in occultazione (salvo, a volte, per qualche misteriosa manifestazione dei suoi voleri), l’Imam fa conoscere la sua volontà con altri mezzi e, di fatto, la direzione spirituale e temporale della comunità è in mano ai dotti mugtahid (scienziati religiosi) e alle autorità politiche


Dal punto di vista della shi’ah, un profeta porta in una religione la legge del cielo per guidare la vita degli uomini. Dopo di lui la rivelazione cessa e agli uomini rimane una legge che corrisponde all’aspetto essoterico della rivelazione. A questo punto devono intervenire coloro che abbiano la funzione di interpretare i più riposti significati della legge e il contenuto esoterico della rivelazione: nella shi’ah tale funzione è affidata alla figura degli Imam che intervengono dopo Mohammad.


Gli ampi poteri spirituali, religiosi e politici vengono attributi soltanto ai dodici Imam per guidare la comunità islamica verso la perfezione. Questi poteri sono riconosciuti come una responsabilità e come un diritto divino dell’Imam e si articolano in diversi campi, politici, giuridici, sociali e spirituali. Il primo Imam, ‘Ali, chiamato dagli shi’iti: “amico di Dio” è la persona che ha iniziato il ciclo dei dodici Imam, mentre il Mahdi o ‘l’atteso’ (il dodicesimo Imam) è l’ultima persona del ciclo. Egli, secondo la tradizione imamita cui si è già avuta occasione di accennare, è andato in occultamento nel 940 d.C. e con il suo ritorno (in un futuro sconosciuto) stabilirà la pace e la giustizia formando lo stato islamico perfetto.


Un accenno alla storia della shi’ah


Com’è stato, in parte già rilevato, fin dalla morte del Profeta gli shi’iti hanno iniziato la loro storia in una condizione di minoranza rispetto ai sunniti. La loro ideologia poté trovare attuazione soltanto dopo i primi tre Califfi, con il califfato di Alì, (il primo Imam), che riuscì a governare, malgrado numerose difficoltà causate dalle guerre civili, per circa quattro anni e nove mesi. La forma di stato realizzata da Alì ed il suo modo di amministrare sono tutt’ora percepiti come grandi ideali da realizzare per i credenti shi’iti.


“Ali” il primo Imam degli shi’iti e il quarto Califfo per i sunniti


Erano passati ben venticinque anni dalla morte del Profeta e l’Islam, con tutte le conquiste che aveva realizzato, si trovava confrontato a due correnti di pensiero completamente opposte: la prima era quella seguita dai compagni del profeta, e si basava sulla trasmissione del messaggio divino alle popolazioni vinte, secondo la logica di un movimento messianico rivoluzionario, mentre la seconda corrente si preoccupava di più dell’appropriazione e della gestione dei beni conquistati, concentrandosi sull’accumulazione di vantaggi politici; in poche parole, questo gruppo compì un salto decisivo dalla vocazione spirituale ad una politica temporale.


Fu proprio in tale situazione politica che nel 656 d.C. Alì, godendo del sostegno dei Medinesi e dei nomadi iracheni, fu eletto come quarto Califfo. Il suo califfato rappresentò una svolta ed una cesura decisiva nella storia islamica. Da un lato, infatti, arrivava alla guida della comunità islamica colui che fin dall’inizio era sembrato agli Shi’iti il più degno successore del Profeta, dall’altro, la sua elezione non venne accettata di buon grado da una parte del mondo islamico di allora, anche per gli eventi sanguinosi da cui era stata accompagnata: l’assassinio del terzo califfo, in cui peraltro Ali non ebbe alcuna responsabilità diretta.


Fin dall’inizio del suo califfato Alì si attenne alla tradizione del Profeta portando i precetti allo stato originario e costrinse alle dimissioni gli elementi politici che erano stati eletti da Uthman (terzo califfo) mettendo in atto una trasformazione rivoluzionaria che causò numerose traversie.
Nello stesso tempo la famiglia del terzo Califfo che si raccoglieva intorno alla persona di Muawiya, Governatore della Siria, chiedeva giustizia e la punizione dei colpevoli dell’assassinio e fu proprio questa scusa a precipitare la comunità islamica in una guerra civile che durò quasi tutto il periodo del califfato di Ali e che causò in seguito il suo assassinio nel 661 d.C. La politica seguita da Alì era basata sull’adesione alla giustizia, senza concessioni all’opportunismo politico che, come è stato già rilevato, in quel momento stava crescendo in continuazione nella comunità islamica e veniva soprattutto simboleggiato dal Governatore della Siria, Muawiya.


Muawiya appare come il rappresentante della nuova generazione musulmana che le conquiste hanno posto all’apice della gerarchia sociale. Egli è più realista e pragmatico e quindi più idoneo a preservare le acquisizioni materiali ottenute e ad assicurare la gestione del nuovo impero. Nel 657 d.C., Muawiya con il pretesto di vendicare la morte del terzo califfo, dichiarò guerra ad Alì. Un primo scontro tra le parti avvenne a Siffin, sul corso dell’Eufrate, ma non portò ad alcun epilogo concreto.
A quel punto Muawiya aveva ormai consolidato indiscutibilmente il ruolo di capo dei ribelli e l’anno dopo, le due parti in lotta si sottomisero all’arbitrato di una commissione di saggi musulmani neutrali, la quale stabilì l’infondatezza delle posizioni di Ali, concedendo così il potere a Muawiya.


La storia racconta che Muawiya a capo dei ribelli durante lo scontro che si stava volgendo a sicura sconfitta ebbe un’intuizione destinata a capovolgere le sorti della battaglia: decise di apporre sulle punte delle spade e delle lance un’arma ancora più temibile, il Corano.


L’esercito di Alì trovandosi sguainati contro la punta della spada i fogli del libro di Dio arretrarono rifiutandosi di andarvi contro.
Questo si può senz’altro chiamare come il primo esempio di strumentalizzazione dell’Islam e del Corano a fini militari e politici.
La battaglia ebbe quindi un momento di stallo e le due fazioni decisero di risolvere la loro controversia in maniera incruenta: ciascun schieramento delegò un ambasciatore ed entrambi i rappresentanti si incontrarono per esporsi le ragioni di ognuno.
La storia vuole che il rappresentante di Muawiya, riuscì subdolamente a convincere il delegato di Alì ad esprimersi in favore della causa di Muawiya, blandendolo con la promessa che lui avrebbe fatto altrettanto a vantaggio di quella di Alì. L’ambasciatore di Alì, convinto che la proposta di reciproca benevolenza tra i due schieramenti fosse utile alla concordia e all’intesa tra gli stessi, al momento del voto, mantenne la parola data e si espresse a favore di Muawiya. Venuto il suo turno, il delegato che fece la proposta, altrettanto non fece, sconfessandola pubblicamente e pronunciandosi per la sua parte. Vinse così, con questo astuto espediente, la fazione di Muawiya.


La vittoria di Muawiya su Ali in realtà costituiva una vittoria del politico sulla comunità religiosa e sul califfato stesso. All’idea del califfato che intende elevare l’uomo al di sopra della sua condizione umana, attraverso i mezzi sovraumani della profezia, il regno politico creato da Muawiya oppone l’idea prosaica di una semplice gestione degli affari di questo mondo attraverso i mezzi temporali. Quindi con la fondazione del califfato ommiade (la dinastia di Muawiya), l’istituzione del califfato continuò nominalmente ad esistere ma in realtà il califfato islamico era stato trasformato in un regno arabo. Questo è il motivo per cui in epoca posteriore, i giuristi sunniti accettarono solamente i primi quattro califfi come coloro che incarnarono completamente l’ideale del califfato.


La sconfitta di Alì contro Muwavia rappresenta la sconfitta dell’Islam di Mohammad contro il nuovo islamismo degli ommiadi. In altri termini, non passavano più di vent’anni dalla morte del profeta è si era causata una deviazione evidente nell’Islam. Gli Ommiadi originarono un islamismo che in sostanza era molto diverso dall’islam di Mohammad. I Principi fondamentali islamici come l’uguaglianza sociale e la giustizia vennero dimenticati originando un sistema tirannico.


Le origini del martirio e il culto del sacrificio nella shi’ah imamita


In tale situazione Il nipote del Profeta e figlio di Alì, Hossein, aprì il conflitto con il potere ommiade. Egli risiedeva a Medina ma la base della sua shi’ah era situata a Kufa. E proprio da Kufa provenivano sollecitazioni e offerte di appoggio perché l’Imam scendesse in armi e si ribellasse contro il califfato di Yazid (figlio di Muawiya) ritenuto usurpatore e addirittura traditore della sharia da parte degli shi’iti. Ciò avverrà ma, nel momento dell’azione, i kufioti non saranno a fianco del loro paladino, nel timore di compromettersi senza garanzia di risultati. Di conseguenza a Karbala si svolgerà lo scontro fra l’Imam Hossein e Yazid, che porterà alla definitiva vittoria ommiade e al massacro di Hossein con la sua famiglia e i suoi compagni.


Il significato assunto da questa tragedia sul piano simbolico e culturale va oltre il mero fatto e le sue immediate conseguenze storiche: lo scontro fu considerato come un atto eroico dell’Imam che, essendo stato tradito dai suoi sostenitori, si era battuto contro l’ingiustizia di Yazid con un esercito ridotto a sole settantadue persone tra cui la sua stessa famiglia, e proprio per questa dimensione sacrificale alcuni autori considerano che lo shi’ismo trovi nel caso di Hossein un momento paragonabile per certi aspetti alla Via Crucis.


Il ricordo della tragedia di Karbala è rimasto nella letteratura e nelle feste popolari celebrate in terra shi’ita. Sul piano religioso, l’impatto della morte di Hossein è superiore a quello della morte di suo padre Alì. La tragedia viene rivissuta da tutto il corpo shi’ita e l’anniversario celebrato per dieci giorni (la prima decade di muharram); con differenziazioni secondo i paesi, durante queste celebrazioni si danno vere e proprie rappresentazioni sacre (sembra potersi far risalire alla fine del XVIII secolo l’introduzione dei drammi sacri), letture di commemorazione e un complesso di cerimonie di lutto e di pianto funebre. La riflessione e l’elaborazione dei fatti di Karbala ha così dato origine a un filone di pensiero che rivaluta il dolore, la sofferenza e la sconfitta, considerati come elementi religiosamente positivi.
La vicenda di Hossein introdusse due importanti dimensioni etiche nel mondo shi’ita:

1) Il dovere di opporsi al tiranno e all’ingiustizia, non per interesse personale ma per il bene della collettività.
2) Il culto del martirio (in arabo shahadat) e la disponibilità al sacrificio della propria vita per il bene collettivo.


Sono proprio questi due principi del pensiero shi’ita che oggi vengono in modo strumentale utilizzati dai mullah religiosi shi’iti come Muqtada- al Sadr. Il sacrificio diventa la parte forte dell’ideologia, portando il vero credente ad una completa alienazione psicologica fino al punto di identificarsi con l’antico eroe Hossein, e perciò, come lui, pronto al sacrificio.


Sono questi credenti, in realtà, le vere armi del fondamentalismo islamico e persone come al-Sadr e Bin Laden usufruiscono di queste senza peraltro un loro sacrificio diretto e personale. Da quanto affermato in questa sezione, possiamo comprendere l’importanza religiosa di Karbala e Kufa per gli shi’iti e con questo potremmo anche riflettere su cosa possa suscitare un’eventuale attacco a questi luoghi sacri da parte statunitense.


Il periodo dell’Impero Safavide


Questo periodo è considerato fondamentale nella storia della shi’ah duodecimana e oggigiorno se ne può osservare la grande influenza nella Repubblica Islamica dell’Iran e i movimenti attuali delle milizie shi’ite di al-Mahdi. Il Cinquecento segna un mutamento sostanziale per l’Iran. Si impone nei primi anni del secolo una dinastia turca dell’Azarbaigian (una regione persiana) i cui capi appartengono a una confraternita sufi da loro stessi creata e animata, la “Safawiyya”, la cui ideologia religiosa deve molto a una forma di shi’ismo estremizzante diffuso nelle regioni al confine con la Siria e intorno al lago di Van. Nel 1501 uno dei capi safawidi, turco ma di probabile origine curda, Ismail (sedicenne) prende il potere in Persia, fondando la dinastia Safavide. La presa del potere da parte di Ismail (il primo Scià safavide) segna una data storica sia per la shi’ah che per l’Iran.


I safavidi proclamarono la shi’ah come religione ufficiale della Persia, obbligando i numerosi sunniti persiani a farla propria: questi vennero, infatti, costretti a maledire i nomi dei primi tre Califfi e ad accettare Ali come unica e vera guida dell’Islam dopo il Profeta. La loro intransigenza religiosa fu coronata da un tale successo che in Persia la corrente sunnita passò dal costituire la maggioranza ad una condizione di ristrettissima minoranza.


Tutto ciò rappresentava una grande novità nella storia dell’Islam e particolarmente nella storia della shi’ah visto che, prima della dinastia safavide, la shi’ah era stata portatrice di un messaggio mistico e sofisticato e a lungo in contraddizione con l’idea di uno stato islamico, in quanto nessuna autorità poteva essere legittima per tale carica se non quella del dodicesimo Imam, il Mahdi, che andava semplicemente atteso fino al momento in cui sarebbe tornato a portare pace e giustizia su tutta la terra.


Le innovazioni religiose shi’ite


Con Ismail nasceva un regno in cui lo shi’ismo veniva utilizzato come ideologia politica in contrapposizione all’impero ottomano sunnita. In altri termini lo shi’ismo, che era sempre stato un movimento di opposizione, si era trasformato in un’istituzione politica, e questo fu l’inizio di una nuova shi’ah, talmente diversa dalla precedente che viene a volte anche denominata “la Shi’ah safavide”, differenziandola dalla fase anteriore, denominata “Shi’ah alavide”.


Al vertice dello stato si verificò un processo di centralizzazione nella figura del capo dello stato (lo Scià), considerato al tempo stesso sia un discendente dei primi Imam sia “l’ombra di Dio sulla terra”. Lo Scià acquisiva una posizione di gran rilievo e, attraverso la teologia shi’ah, si giunse a giustificarne l’onnipotenza e l’infallibilità, fino al punto che Ismail, che era autore di poesie religiose, si proclamava a tutte lettere “Dio”.


I safavidi si trovarono però agli inizi in difficoltà per quanto riguardava la scienza della religione e il modo di amministrarla, dato che in Persia – paese fino ad allora di tradizione sunnita – non esistevano ulama shi’iti in possesso della preparazione e della competenza necessarie a consolidare il loro nuovo sistema cioè la “Shi’ah Safavide”. Fu per questo che Ismail ordinò l’importazione di ulama arabi e fece venire soprattutto dalla Siria meridionale e da Bahrein i predicatori e i propagandisti necessari alla sua opera di shi’itizzazione del paese, dando così origine ad una categoria di specialisti shi’iti del Corano che nelle loro madrasa (scuole religiose) divennero l’elemento essenziale dell’insegnamento e dell’amministrazione della giustizia in tutto l’Iran. Anche se tale categoria non si fece coinvolgere direttamente nell’azione di governo, la posizione di questi specialisti era di assoluto rilievo, anche perché, secondo l’ideologia shi’ita imamita, sono gli ulama e non lo scià i legittimi eredi dell’autorità religiosa.
Con il passare del tempo, questa posizione rese gli ulama iraniani sempre più autorevoli e quando, all’inizio del Settecento, la dinastia safavide iniziò a declinare, furono proprio gli ulama a diventare l’autorità religiosa più importante del paese, approfittando del vuoto del potere. I nuovi ulama shi’iti imposero una nuova ideologia che da un lato svalutava l’importanza del ragionamento indipendente e dell’innovazione nel campo dell’interpretazione della shari’a, e da un altro lato introduceva nuovi riti e dogmi religiosi, dando luogo ad una religione basata sul rispetto dell’autorità degli specialisti del Corano, considerati come un autentico clero, quindi come persone fornite di un’aura di sacralità, da rispettare e addirittura imitare.


La teoria della Shi’ah safavide e della Shi’ah alavide


A metà del ventesimo secolo, un islamista e sociologo iraniano, considerato come uno dei promotori più importanti della rivoluzione islamica iraniana del 1979, il dott. Ali Shariati, scrisse un volume intitolato “La Shi’ah Safavide e la Shi’ah Alavide”. In questo libro egli considera la shi’ah imamita articolata in due momenti storici, corrispondenti a due filoni di pensiero, non soltanto diversi, bensì opposti. Il primo filone (la Shi’ah Alavide) avrebbe avuto inizio con la figura di Ali e sarebbe continuato per sette secoli fino all’apparizione dell’Impero Safavide, mentre il secondo filone (la Shi’ah Safavide), sarebbe cominciato con i safavidi nel 1501 e continuato fino ai giorni nostri.


Secondo Shariati, la shi’ah alavide sarebbe consistita in un movimento puro e autentico, basato su uno spirito rivoluzionario e liberale accompagnato all’obbiettivo della giustizia e di una continua lotta contro la tirannia, l’ignoranza e la povertà. Proprio per questo essa viene definita come la shi’ah rossa, la shi’ah basata sul martirio, sulla conoscenza e la riflessione sul Corano e sulla Sunna e sull’esempio e l’opera degli Imam.
D’altro lato Shariati considera l’avvento della dinastia safavide come la fine della vita della shi’ah da lui considerata autentica e pura e l’inizio di un sistema del tutto divergente dai principi islamici shi’iti espressi da Ali e dai suoi discendenti. Secondo l’autore, la Shi’ah safavide è la shi’ah dell’innovazione, dell’opportunismo sia teologico che politico, in altri termini avrebbe perso il carattere di movimento rivoluzionario per divenire un’istituzione del tutto conservatrice che, abusando della dottrina shi’ita, avrebbe cercato solo di consolidare il proprio potere. Per questo tale dottrina viene presentata come la shi’ah nera, la shi’ah basata sul lutto (in quanto valorizzava in forme estreme le commemorazioni funebri, in modo tale da far divenire il pianto e la tristezza valori positivi nella comunità) e su una cultura di adorazione cieca degli Imam senza permettere ai credenti di conoscere il loro pensiero e i loro veri insegnamenti.


Sempre secondo Shariati, gli ulama della shi’ah safavide sarebbero stati personaggi che per opportunismo e per brama di potere sarebbero riusciti a manipolare addirittura la legge islamica, giustificandosi sempre con qualche cavillo di legge; fu proprio in tale periodo che per la prima volta gli ulama safavidi diedero origine ad una sorta di clero nel mondo islamico, istituendo così nella struttura sociale iraniana una nuova classe di potere.
Negli ultimi tre secoli, la shi’ah ha continuato a crescere soprattutto in Iran, Iraq e Yemen, aree dove ancora oggi giorno si trova la maggior parte degli shi’iti. Il culmine della sua influenza nel mondo musulmano si è manifestato con la rivoluzione iraniana del 1979, sotto la guida dell’Ayatollah Khomeini che ha creato in Iran la prima cosiddetta Repubblica Islamica, la cui Costituzione è basata sulla sharia islamica secondo la scuola giuridica duodecimana


Due teorie fondamentali per la formazione di uno stato islamico shi’ita


Fino all’apparizione dei Safavidi, la shi’ah non si interessava in modo sostanziale alla questione dei possibili caratteri di uno stato islamico, visto che il suo pensiero era rivolto verso l’attesa del dodicesimo Imam, che solo avrebbe creato il vero stato islamico. Invece con l’avvento dei Safavidi, come è stato già sottolineato, i giuristi islamici shi’iti iniziarono ad acquistare sempre maggior potere e parallelamente anche il fiqh shi’ita (diritto islamico shi’ita) si sviluppò in una direzione più politica che religiosa. Questo processo è continuato fino ai primi del ventesimo secolo, quando, particolarmente in Iran con il periodo della Mashrute (il periodo della stipulazione della prima costituzione in Iran) si sono aperte nuove domande ed un acceso dibattito sul tipo di influenza e di funzione che gli ulama religiosi sh’iti potevano avere su questioni come i diritti del popolo, la libertà, la giustizia, l’amministrazione pubblica e la divisione dei poteri.
Questo tipo di approccio diede origine ad una nuova teoria politica shi’ita, elaborata da uno degli ulama più significativi del ventesimo secolo, Allame Mohammad Naini. Secondo questo scienziato religioso, lo stato parlamentare laico iraniano, che si andava delineando nei lavori preparatori della Costituzione del 1906, poteva avere anche qualifica divina e religiosa, se il Potere legislativo (il Parlamento) si fosse mantenuto nei limiti tracciati dai mujtahed religiosi, conformandosi alla loro opinione giuridico-religiosa. In altri termini, Naini cercava di combinare uno stato di forma laica con elementi religiosi che potessero controllare il grado di laicità dello stato affinché non oltrepassasse i limiti della shariah islamica. Furono proprio queste riflessioni e altre teorie simili a preparare l’ambiente teologico shi’ita all’accettazione della necessità di uno stato interamente islamico, in cui la Costituzione avrebbe dovuto conformarsi alla legge islamica, con l’obbiettivo di preparare una società quasi perfetta, che possa meritare il ritorno del dodicesimo Imam.


Ciò poneva il problema di chi potesse ricoprire la funzione di guida di tale istituzione, dato che l’unica persona qualificata nella dottrina shi’ita è l’Imam, che si trova ancora in occultazione. Il problema trovò una soluzione molto pratica nella teorizzazione dell’Ayatollah Khomeini: nel mondo shi’ita duodecimano, egli fu il primo scienziato religioso ad usare il termine specifico di “Stato Islamico”, in un suo volume di contenuto religioso intitolato “Ketab al bai”. La sua teoria politica si basava su quattro principi fondamentali:


a) per poter applicare la parte principale dei suoi precetti e dei suoi ordini, l’Islam necessita dell’istituzione di uno stato islamico.
b) Lo stabilimento dello stato islamico e il lavoro di preparazione per la sua realizzazione, che comprende l’opposizione attiva contro la tirannia, è indispensabile (in arabo: vajib) sia per gli studiosi religiosi (foqaha) sia per il popolo musulmano.
c) Lo stato islamico deve essere guidato da una figura religiosa, chiamata “wilayate Faqih” che sarebbe un giurisperito islamico shi’ita dotato di una serie di requisiti specifici. Egli godrebbe della stessa wilayah di cui hanno goduto il profeta e gli Imam.
d) Lo stato islamico è un passaggio fondamentale per la realizzazione dell’Islam e la sua tutela è un dovere religioso per i musulmani.
Così nel periodo del grande occultamento del Mahdi la shi’iah imamita è giunta a ritenere che la figura dell’Imam possa venir rappresentata da un suo vice o luogotenente, che possiederebbe la stessa autorità e le stesse responsabilità divine, sia temporali che spirituali dell’Imam. Tale figura è conosciuta oggi come “wilayate Faqih”, espressione tradotta generalmente in italiano, con terminologia più strettamente politica, “guida suprema” o “luogotenente del dodicesimo Imam”.


Questo principio, infatti, metterebbe uno scienziato religioso sullo stesso piano dei dodici Imam che a loro volta sono considerati allo stesso livello del Profeta. Si può ben immaginare l’ampiezza del potere politico e spirituale che un leader shi’ita potrebbe così acquisire in una comunità islamica.


Tale ideologia,oggi, è fortemente presente anche in Iraq, soprattutto nelle città sante di Kufa e Najaf. Gli ulama religiosi come Ayatollah Hakim (ucciso in un attentato), e il giovane Muqtada al-Sadr derivano dalla stessa scuola di pensiero e chissà se l’ambizione di al-Sadr non lo porti a diventare il nuovo luogotenente dell’Iraq Shi’ita!


Conclusioni


In questo Dossier si è cercato di avere,una visione globale sulle origini storiche e politiche, della cruciale scissione nel mondo islamico con un particolare riferimento alle diversità del modello politico del Califfato da quello dell’Imamato.
Nel contempo si sono posti in luce i temi del martirio e del culto del sacrificio, e le origini del potere politico e religioso degli ulama shi’iti nella scena politica contemporanea.


Equilibri.net

http://www.equilibri.net/dossiers/sx6.htm

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