Narrare il confine. Intervista alla scrittrice Gabriella Ghermandi di Ubax Cristina Ali Farah
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Narrare il confine


Intervista alla scrittrice Gabriella Ghermandi di Ubax Cristina Ali Farah (da MIGRA 31/01/2005)Vivanco


Roma - È uno sguardo all’essenza delle cose quello che ci offre Gabriella Ghermandi, scrittrice italo-etiope nata ad Addis Abeba nel 1965, che dona allo spettatore una visione delle sue due dimore esistenziali, disincantata e poetica. E’ stata protagonista, insieme ad Alessandro Ghebreigziabiher, del primo appuntamento per il ciclo Voci afroitaliane promosso dal Circolo Gianni Bosio, con la collaborazione del Rialto Santambrogio e il patrocinio della Consigliera Delegata del Sindaco di Roma per le Politiche della Multietnicità, Franca Coen. La manifestazione, avviata nel mese di gennaio 2005, oltre al generale intento di promuovere la conoscenza degli scrittori italofoni di origine africana, sarà imperniata sulla centralità dell’autore narrante che proporrà, a seconda della propria esperienza creativa, la sua opera nella chiave prescelta.
Trasferitasi in Italia nel 1979, Gabriella Ghermandi vive da parecchi anni a Bologna, città d’origine del padre. Vincitrice del primo premio nel 1999 e del terzo nel 2001 del concorso per scrittori migranti dell´associazione Eks&Tra, ha pubblicato diversi racconti su collane e riviste e da qualche anno si occupa di narrazione orale.
L’essere ibrido, individuo separato tra due realtà è un privilegio che spesso provoca fratture dolorose con cui è difficile convivere. Quanto della sua storia personale ha inciso nella vocazione alla scrittura?


Mia madre mi ha cresciuta facendomi credere di essere bianca e, in quanto bianca, mi erano concessi dei privilegi che agli altri bambini non erano riconosciuti, come per esempio la possibilità di sedermi a mangiare con gli adulti.
La storia di ognuno è qualcosa di fondamentale, perché nei libri possiamo leggere del colonialismo, delle leggi razziali, del gas nervino, ma la storia delle persone, quella la possono narrare solo i protagonisti. Alla fine degli anni ’50 gli autobus eritrei avevano delle reti divisorie per cui i bianchi stavano davanti e i neri e i mulatti dietro. È per questo motivo che mia madre è scappata da Asmara verso Addis Abeba, perché lì si viveva di meno il razzismo. Ha sofferto durante tutta la sua infanzia il fatto di essere mista. Le suore l’hanno cresciuta come se fosse bianca, quelli della comunità la escludevano per essere bianca e giustamente lei aveva questo modello del bianco, che credeva vincente, da trasmettermi. Nell’ambiente italiano ero vista come meticcia. Solo quando sono arrivata in Italia, ho capito di essere etiope. Vedevo la pioggia cadere di continuo sui tetti e pensavo: cosa ci faccio io qui. Ciò di cui più sentivo la mancanza era la fisicità, il respirare l’odore della terra e sentirne il sapore: qui mi sembrava che ci fosse soltanto acqua. Un’altra cosa che mi creava disagio era la distanza. Da noi, quando una città finisce ci sono chilometri e chilometri di spazio tra un luogo e l’altro mentre qui c’è solo un cartello che indica la fine. E così come gli spazi sono delimitati in modo artificiale, la stessa cosa vale per le persone: la gente ti entra dentro, non ha il senso della dimensione. Nelle società comunitarie, anche se sembra contraddittorio, vi è un grande rispetto per gli spazi dell’essere umano, per i suoi limiti.
Quando una donna partorisce per molti giorni le si prepara la polenta, perché dicono che rinforza la schiena. Si mette la polenta come una ciambella con il burro fuso in mezzo e tutti mangiano insieme alla puerpera. Ho un’amica che da piccola si schifava nel vedere tutto il grasso che colava dal braccio delle persone, così le preparavano un piattino dove poteva mangiare da sola. Ecco vedi, nessuno la obbligava a mangiare insieme agli altri, nella società comunitaria esiste il rispetto delle stranezze altrui, esiste il senso della dimensione dello spazio dell’altro.


Quale momento segna, a suo parere, la presa di coscienza di questa ricchezza?


Quando sono arrivata mi sentivo invisibile, mi sembrava di passare inosservata e di dovermi iniformare a come erano gli altri. Iniziai a frequentare le superiori e ricordo che un giorno mi assegnarono un tema dal titolo Le tradizioni di casa vostra.
Io scrissi un tema sui mursi in un contesto in cui tutti avevano scritto un tema sui tortellini e cose di questo genere. I mursi sono un popolo che vive tra l’Etiopia e il Sudan, portano un piattello sul labbro inferiore e sono molto belli e alti. Mio padre lavorò per un paio d’anni nella regione in cui loro vivevano e i mursi erano dei formidabili spaccatori di pietre: usavano una tecnica incredibile e spaccavano la pietra con un solo colpo di martello. Il luogo in cui vivevano e in cui mio padre lavorava si trovava nella foresta e c’erano le scimmie volanti. La distanza con la cittadina dove atterrava l’aereo era di soli 18 Km, ma occorrevano 2 ore per arrivarci. Parlando di questa popolazione che viveva ai limiti della realtà e all’epoca appariva così fantastica, volevo scioccare tutti con la cosa più incredibile che mi veniva in mente. La professoressa rimase sconvolta, mandò il tema da leggere in giro per la scuola e mi disse “Io non avevo mai realizzato …” e da quel momento cominciò a regalarmi dei libri, come Gabriella garofano e cannella del brasiliano Jorge Amado …


Crede sia stata quella la spinta alla scrittura, oppure successivamente è avvenuto qualcosa di più importante?


Vivendo in Italia avevo dimenticato l’amarico. Ma poi è accaduta una di quelle cose che noi reputiamo magiche, per come cambiano il corso della vita. Sono andata a fare un concorso pubblico in cui c’erano dei posti riservati per profughi e ho incontrato due ragazzi italo-etiopi di cui uno era un mio ex compagno di scuola delle elementari. Questo mio ex compagno faceva la comparsa in Strane storie e siccome il regista gli diceva sempre di scrivere la sua storia per poterne fare un film, il mio amico mi chiese di scriverla per lui. Cominciai a lavorarci e venne fuori un qualcosa di completamente diverso dalla sua vicenda. Però, la cosa più importante fu che, frequentandolo, ricominciai a parlare l’amarico. Un giorno scriverò quella storia, ma prima mi devo documentare, perché è molto complessa: il padre del mio amico era un aviatore italiano che viveva con la famiglia in Etiopia. Alla morte del padre, il mio amico venne in Italia a cercare la sorellastra, ma poiché aveva cambiato il suo cognome, come molti facevano, la ricerca richiese più tempo del previsto fino a quando il mio amico ritrovò la sorellastra che però aveva sessanta anni, mentre lui ne aveva 18 … Ecco, queste storie erano comuni all’epoca.


Lei dice spesso di non amare le chiacchiere intellettuali che si fanno intorno alla letteratura, per cui lo scrittore diventa personaggio di se stesso, senza che sia quello il suo vero lavoro. Crede sia stato questo il motore che l’ha spinta a dedicarsi alla narrazione orale?


Il motore della mia scrittura è l’emozione ed è questa che voglio trasmettere attraverso la narrazione. È un qualcosa di magico attraverso cui avviene una sorta di travaso diretto, privo di filtri. Quando scrivo, io sto in una stanza da sola e poi c’è un’altra persona che sta in un’altra stanza a leggere. Narrare nasce dal desiderio di uscire dall’anonimato. Il canto che accompagna il racconto rappresenta per me l’amore che nutro per la cultura etiope, per la sua spiritualità intrinseca e mi piace pensare di portarla qui con le canzoni che non sono mai vuote di significato e che conferiscono un doppio senso ad ogni cosa.


http://www.migranews.it/notizia.php?indice=569



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