Intervista a Abdelwahab Meddeb
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La malattia dell’Islam







Fonte: http://www.letterainternazionale.it/articoli/meddeb70.htm


Vedi anche: Che cosa ci si può attendere da una guerra?








Lettera Internazionale – Il mondo arabo e islamico appare profondamente diviso sull’aggressione terroristica a Manhattan e al Pentagono. Sembra che quest’azione abbia suscitato qualche simpatia, anche se la maggioranza la rifiuta. In ogni caso si ha l’impressione che il modo con cui gli americani la interpretano non tenga conto dell’origine, del sottofondo storico di questi avvenimenti.


Abdelwahab Meddeb – Il mondo islamico è variegato e complesso. Coloro che hanno reagito alle aggressioni dell’11 settembre, considerandole solo un atto di barbarie e lo hanno condannato senza la minima esitazione, sono quelli che potremmo definire “gli occidentalizzati” del mondo islamico. E sono tanti, molti di più di quanti si creda – in termini quantitativi forse il 10 per cento delle società islamiche – coloro che accettano la modernità occidentale come modo di vivere e di essere. C’è questa parte, e c’è una gran massa di gente che non esprime nessuna condanna. Ma non per questo festeggia, come abbiamo visto fare in certi campi palestinesi o in Libano. Credo che questo genere di festeggiamenti sia stato un fatto molto minoritario perché, anche se risponde a un istinto e a un’emozione, chi ha un minimo di visione politica si rende immediatamente conto della portata catastrofica di quelle immagini. Perché c’è anche una guerra di immagini con cui abbiamo a che fare, e in tutta questa storia la questione dell’immagine è centrale.

Ma anche ascoltando in giro, a Parigi, in Francia o in Europa, le opinioni di tecnici, di colleghi e di intellettuali, credo che in generale tutti – ed è una posizione che non proviene solo dall’ambiente islamico o di origine islamica – si siano anche posti un problema, e cioè che questi attentati sono una risposta, una risposta a una politica, nella fattispecie a una politica americana che può essere percepita come incapace di portare avanti quel che c’era da portare avanti, tenuto conto della forza di cui dispone. Se si vuole essere i leader del mondo bisogna uscire da una visione imperialista. Qui distinguerei ciò che si può definire una politica imperialista da una politica imperiale. C’è una tradizione della politica imperiale. La politica imperiale deve gestire la pace e non la guerra. E il carattere della politica imperiale è di essere arbitro dei conflitti che si manifestano, non giudice e parte in causa nello stesso tempo. Se prendiamo ad esempio il caso, nel quadro dell’Impero ottomano, di una delle ultime grandi manifestazioni di politica imperiale nei suoi momenti migliori, vediamo che alcuni grandi imperatori come Mehmet Fatih IV (1451-1481) o come Solimano II (1520-1566), avevano la profonda coscienza di essere i continuatori di quella struttura imperiale che si era sviluppata sulle coste del Mediterraneo, dopo essere nata ed essersi consolidata sui fondamenti dell’Impero germanico-romano, con la volontà di fare meglio dell’Impero germanico-romano che non era riuscito, da questo punto di vista, ad essere arbitro di conflitti.

È in questo spirito che l’Impero ottomano ha gestito, per esempio, il problema delle minoranze e dei conflitti interni che esistono da sempre in Medio Oriente. Questo è l’aspetto che è stato percepito. La gente ha notato, al di là dell’emozione suscitata, che l’avvenimento dell’11 Settembre è una risposta a un’incapacità nella politica americana, che ha finito per essere più imperialista che imperiale. E, nello stesso tempo, ciò che ha più impressionato è la riuscita tecnica ed estetica dell’avvenimento. Voglio dire che i terroristi hanno utilizzato tutti i mezzi tecnologici con grande padronanza, anche calcolandone accuratamente la diffusione attraverso l’immagine. Qui siamo davvero di fronte all’utilizzo ottimale dei mezzi della nostra epoca, quelli che ci permettono di vivere in contemporanea con l’istantaneità dell’immagine, un’epoca fondata su ciò che potremmo definire “universalizzazione della tecnica”.

Bisogna insistere molto più sulla tecnica che sulla scienza. Perché il mondo islamico non è creatore di scienza, ma in certe sue frange è riuscito a padroneggiare la tecnica, il che significa padroneggiare il funzionamento della macchina molto di più che non la sua invenzione o la sua produzione.

Qui siamo di fronte a uno dei punti più nevralgici della situazione. Il mondo islamico non si è mai rassegnato alla propria destituzione, dopo un grandissimo periodo di civiltà, un grandissimo periodo di egemonia, prima che la cosiddetta capitale-mondo – riprendo l’espressione di Fernand Braudel sul concetto di capitale-mondo – si spostasse in Occidente. Possiamo ritrovare questa funzione esercitata dalla Baghdad del IX -X secolo, dal Cairo del XIII secolo, e vedere poi come questa capitale-mondo si sposti verso il nord del Mediterraneo, con il fiorire di Genova e Venezia, per poi esiliarsi ulteriormente, allontanandosi ancora di più dal mondo islamico e installandosi ad Amsterdam nel XVII secolo, a Londra nel XIX e infine a New York nel XX. Ormai sembra che si stia muovendo verso la costa americana sul Pacifico, ed è reperibile nella straordinaria attività lavorativa che là collega Asia e America del Nord.

Dunque una capitale-mondo che si allontana geograficamente sempre di più dallo spazio islamico, e a partire dal momento in cui, da parte dei musulmani, alla fine del XVIII secolo c’è stata l’improvvisa e drammatica constatazione del proprio ritardo storico. Un ritardo che ha fatto sì che molti paesi appartenenti alla territorialità islamica, trovandosi deboli e colonizzabili, siano stati in effetti colonizzati. È a partire da qui che a poco a poco, lentamente, nasce nel processo psicologico dell’arabo come del musulmano quello che Nietzsche chiama “risentimento” verso l’Occidente. Nietzsche, parlando dei popoli che ignorano il risentimento, sostiene che il soggetto islamico è molto più vicino alla morale aristocratica, alla morale dell’affermazione, quella di colui che dona senza cercare di ricevere, mentre l’essenza del risentimento sta nella posizione di chi riceve e non ha più i mezzi per poter dare, e che inoltre non è affermativo, non è più l’uomo del “sì”, che risplende di fronte al mondo e si presenta come un essere naturalmente egemonico, sovrano, per così dire. Egli diventa l’uomo del no, quello che rifiuta, quello che non è più attivo ma reattivo. E poco a poco questo sentimento, un tempo ignoto al soggetto islamico, cresce in lui fino a diventare praticamente centrale.

Credo che l’integralismo di queste operazioni che trovano spazio nel soggetto islamico appartenga a questo espandersi al suo interno del risentimento, uno stato che storicamente ignorava, e che non era costitutivo del suo carattere al suo ingresso nella storia come soggetto. Questo è chiaramente dovuto alla fine della creatività e dell’apporto civilizzatore che è stato comune a tutta la civiltà islamica. Il soggetto islamico è diventato inconsolabile di questa destituzione. Quanto agli elementi nuovi, la sola novità rispetto all’epoca coloniale riguarda il consumo e l’utilizzo della tecnica occidentale. Il soggetto islamico non è inventore in campo scientifico né padrone della tecnica, e questo da molti secoli. Ma oggi, dopo circa un secolo e mezzo, si è impadronito della tecnica, cioè della cosa che tutto sommato appartiene allo stadio del consumo e del funzionamento, non certo a quello della produzione e dell’invenzione. Si può essere fuori dal concetto di aeroplano e dall’invenzione effettiva dell’aeroplano, ma ciò non esclude che si possa benissimo pilotare un aeroplano e dirottarlo.




Pensa che questo abbia a che fare con la mancanza di un’esperienza storica come quella dell’illuminismo, che è stata essenziale per l’Europa?



Nell’Islam tutto si è svolto molto velocemente. Per esempio, riguardo le forme del razionalismo, ci fu un movimento che all’inizio del IX secolo avrebbe potuto diventare un razionalismo ufficiale ed estremamente importante, forse tanto da far vacillare l’idea stessa di Dio. Il movimento era animato da un gruppo detto dei Motazila, su cui ha lavorato un grande storico tedesco, Josef van Ess, professore all’università di Tubinga. I Motazila posero appunto la ragione al primo posto e cercarono di abbattere due fattori dominanti. Il primo riguarda uno dei dogmi islamici che vuole il Corano opera increata ed eterna discesa dal cielo così com’è, mentre i Motazila, con la loro visione razionale, dicevano che sì, magari l’idea era celeste, ma che ogni concretizzazione delle Scritture in una lingua terrestre non può essere che creata nel momento della sua rivelazione. Forse l’ispirazione è divina, ma l’opera ha a che vedere con un’operazione umana. Questa tesi colpiva appunto, e in modo travolgente, uno dei dogmi teologici dell’Islam.

Il secondo fattore riguardava il tentativo di circoscrivere Dio, di allontanarlo talmente dal mondo da relegarlo nell’inconoscibile, in una trascendenza tale da liberare l’uomo dalla predestinazione e renderlo il solo responsabile dei suoi atti. Fu un movimento teologico che in un certo periodo divenne l’ideologia ufficiale dello stato, e che ebbe anche l’equivalente di quell’inquisizione che si diffuse nell’Islam proprio in nome di quella ideologia razionalista, attaccando con molta violenza la scuola letteralista e purista contemporanea. È molto importante ricordare questo, perché nella genealogia del purismo e nella volontà ricorrente di ritornare alla purezza della religione originaria, si invoca un personaggio famoso del IX secolo, uno dei dottori dell’Islam, Ibn Hanbal (780 – ca. 855), che fu violentemente represso e torturato perché era ritenuto proprio il rappresentante del punto di vista critico rispetto a quella scuola razionalista che diventò ideologia di stato. Ma che storicamente era destinata a fallire.

Bisogna dire che, nello stesso clima culturale, nella Baghdad della prima metà del IX secolo ci furono rivoluzioni poetiche che possono essere in pratica considerate, pesando le parole, l’equivalente della rivoluzione poetica che ha avuto luogo in Francia nell’Ottocento. Ci furono poeti che sono l’equivalente di Baudelaire, di Verlaine, di Rimbaud e di Mallarmé, anche nel far emergere l’individuo profondamente contestatore che invoca con grande forza la trasgressione come motore della poesia. Uno degli esempi più importanti è Abu Nuwas (762-ca. 813), un poeta arabo-persiano ma che scriveva in arabo, che nella raccolta Amori ha cantato in modo molto provocatorio e impetuoso il vino, che nell’Islam è proibito, e gli amori omosessuali. Ne deriva la poesia forse più vitale che si possa leggere ancora ai nostri giorni, in una lingua tuttora così viva che sembra scritta ieri, come se l’inchiostro non si fosse ancora asciugato. Immaginate quali momenti straordinari di creatività e quali centri di attività esistevano a Baghdad già nel IX secolo. Quei centri di attività sono storicamente falliti, ma all’epoca il tentativo c’è stato, e molto in anticipo rispetto all’Europa di quel tempo, dove tutto questo non esisteva.

Un altro elemento da considerare è che probabilmente lo spirito della civiltà islamica ha trovato la sua materializzazione e la sua realizzazione negli oggetti di artigianato e di arte minore, e nell’arte monumentale; l’arte è sempre sostenuta dalle condizioni della scienza e della tecnica. C’è sempre un rapporto fra, per esempio, l’architettura, l’ingegneria e la conoscenza della geometria, dunque fra la scienza speculativa e la sua applicazione pratica. Si può dire che, riguardo alla connessione fra scienza e fede e a livello della tecnica e delle arti, la civiltà islamica è stata idealmente contemporanea a quanto è accaduto in Europa fino all’epoca barocca e neoclassica. Con la differenza che, per l’Islam, tutto questo avveniva nell’XI, XII, e XIII secolo, e dava luogo all’equivalente in spirito del XVII secolo europeo, che avrebbe avuto di lì a poco le tre grandi rivoluzioni di Cartesio, Keplero e Copernico rivoluzioni cominciate nel XVII secolo, che sono alla base dell’Illuminismo del XVIII secolo, quello straordinario movimento che avrebbe staccato l’Europa da tutte le altre civiltà, da quella islamica come da quelle cinese e indiana. È nel XVIII secolo che prende corpo il definitivo primato dell’Occidente.

Il XVIII secolo è fondato essenzialmente sull’emergere della nozione di libertà, sulla profonda affermazione dell’idea dell’individuo, dei diritti dell’uomo. L’altra idea estremamente importante di questo secolo è la separazione del fattore politico da quello religioso, che fino ad allora erano stati consustanziali. Si può dire che da qui inizi tutta la problematica che si svilupperà, si cristallizzerà e proporrà soluzioni all’Europa del XVIII secolo, dando così inizio alla costruzione del moderno stato occidentale. Eppure gli storici fanno cominciare tutto questo processo da un testo arabo-occidentale, il famoso testo di Averroè dove l’autore tenta appunto una riflessione sul rapporto fra religione e filosofia. Tutto questo per sottolineare come la prospettiva dell’Occidente sia in verità analoga a quella vissuta in passato dall’Islam, ma anche come la prospettiva di quest’ultimo si sia poi arrestata.

La conseguenza di questo arresto è la diffusione dell’integralismo nella dimensione planetaria che è andato assumendo. E d’altra parte, il drammatico avvenimento a cui abbiamo assistito è dovuto alla mutazione del modello occidentale, passato dal modello europeo a quello americano. Quanto al modello europeo in cui sono cresciuto, che deriva dall’Illuminismo francese e che personalmente mi ha formato in entrambe le tradizioni, araba e europea, ha avuto per la prima volta la percezione del suo fallimento a proposito della questione del velo per le donne musulmane. Io stesso provengo da una famiglia tradizionale tunisina di teologi musulmani e di dottori che legata alla tradizione teologica, e ho assistito negli anni ’50, in una delle cittadelle dell’Islam della mia infanzia, all’abolizione del velo per le donne in nome dell’ideologia dell’occidentalizzazione e della modernità. E ho avuto uno choc quando ho visto imporre nuovamente il velo perfino in una delle cittadelle della libertà e della cultura occidentale, come Parigi e la Francia. Mi sono chiesto: che succede, qual è il problema? Perché questo ritorno proprio quando sembrava che stessimo andando verso un processo irreversibile di occidentalizzazione del mondo, dove c’era posto anche per i territori islamici? È un pensiero, questo del limite incontrato dal modello europeo, che mi è venuto dopo, frequentando un po’ di più l’Oriente arabo, dato che la Tunisia è molto occidentalizzata e io stesso faccio parte di un’educazione occidentalizzata. Ecco, ho scoperto con grande stupore come nell’Islam coabitino, a livello di massa, il consumismo all’americana e un pensiero tradizionalista molto semplificato e schematizzato. E la partecipazione al consumismo non implica necessariamente una riforma dell’animo.

Il migliore esempio di questo paradosso, che mi sembra del tutto insensato, è evidente nella maniera più stupefacente in Arabia Saudita, un paese filoccidentale per quanto riguarda le alleanze, profondamente filoamericano per quanto riguarda il suo paesaggio urbano, ma che nello stesso tempo predica una sorta di Islam che non è neppure un Islam tradizionale, ma un Islam così purista, così schematico e semplicistico da diventare un Islam che fonda le sue credenze sull’annichilimento della civiltà islamica stessa, in quanto tutto ciò che è stato fatto di grande e di bello nella civiltà islamica è stato fatto non nell’applicazione della lettera islamica, ma piuttosto nella sua trasgressione, o per lo meno nel suo contenimento. Volendo attenersi alla lettera islamica, bisognerebbe bruciare i Sufi e i teosofi che hanno osato pensare liberamente, come Ibn Arabi, o metterli all’indice e proibirli, o bruciare Le mille e una notte, e via dicendo. Bisognerebbe bruciare il famoso poeta che prima ho citato, il libertino di Baghdad del IX, secolo Abu Nuwas. Si capisce bene come l’imporsi di un Islam così purificato sarebbe già contro l’Islam stesso in quanto civiltà e cultura. La cosa che sorprende particolarmente è la coabitazione fra questa regressione arcaica e l’ingresso nell’era della tecnica e della tecnologia, dove l’Islam attuale è insieme consumatore e utilizzatore in tutti i sensi del termine.

Ho parlato più sopra del XII secolo. Ho parlato anche di Ibn Hanbal, uno dei protagonisti di quanto accadeva a Baghdad nel IX secolo, ma non bisogna dimenticare che l’Arabia Saudita, con la sua ideologia, ha avuto grande importanza storica. Basti pensare allo stesso Ibn Hanbal, che creò una delle quattro scuole giuridiche dell’Islam sunnita, e che più di tutti invocò il ritorno alla purezza della lettera e il ritorno a coloro che sono chiamati gli antichi di Medina, propugnando l’applicazione, costante nei secoli, del modello idealizzato di Medina. Si dimentica però una cosa fondamentale, e cioè che il modello di Medina, che vide nel VII secolo la nascita politica del Profeta, è appunto un modello idealizzato. Tant’è vero che ben presto, appena qualche anno dopo la morte di Maometto, fu una sanguinosa e violenta guerra civile ad avviare il motore della storia islamica. Tutta la storia dell’Islam ha avuto luogo nella violenza della guerra civile e della contestazione della legittimità del potere, oltre che nel grande contrasto fra i letteralisti e coloro che si chiamavano fuori dalla dominazione e dalla violenza della lettera, o che almeno cercavano di mantenere una certa distanza da essa. C’è dunque un collegamento diretto fra quest’uomo del IX secolo, che predicava il ritorno a Medina e la dottrina fondante dell’ideologia saudita del XVIII secolo, cioè il wahabismo.

C’è un altro collegamento estremamente importante precedente al wahabismo, ed è il pensiero del teologo Ibn Taymiya (morto nel 1328), un siriano vissuto fra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, in un momento estremamente difficile e pericoloso per l’Islam. Come sempre, questo genere di radicalismo emerge solo quando il proprio gruppo di appartenenza è minacciata da un grande pericolo. Qui il contesto è quello successivo all’invasione mongola e al saccheggio di Baghdad, cioè alla fine del califfato: un contesto apocalittico per l’Islam che, appena superato il problema dei crociati, si era trovato di fronte all’ondata dell’invasione mongola. Ibn Taymiya, uomo di grande intelligenza e di eccezionale capacità lavorativa, passò la vita ad analizzare tutto ciò che percepiva, nell’Islam stesso, come un’intrusione nella purezza originaria della lettera, assumendosi il compito di restaurarne l’integrità, di liberarla dalla contaminazione della logica filosofica greca. Considerava il Sufismo circolante all’interno dell’Islam come un elemento cristico e incarnazionista, e molto più pericoloso del Cristianesimo stesso dove l’incarnazione è limitata a un unico avvenimento, quello della passione del Cristo, mentre nel Sufismo il concetto di incarnazione, considerato dall’Islam un attentato contro l’unicità di Dio, diventa universale e praticamente aperto a tutte le energie in grado di confondersi in Dio.

Nel XVIII secolo appare Mohamed bin Abdel Wahab (1703-1792), che dà origine a quello che sarà chiamato wahabismo. Egli predica, nella penisola araba, una teoria che mette insieme le idee di Ibn Hanbal, il teologo di Baghdad del IX secolo, con quelle di Ibn Taymiya, il teologo siriano della fine del XIII . Wahab si lega alla tribù dei Saud e cerca di prendere il potere, senza riuscirci. Comunnque, in pieno XVIII secolo, proprio in contemporanea con l’Illuminismo, nasce questo movimento purista che sarà alle origini dell’Arabia Saudita.

Vorrei offrirvi una curiosità, una citazione di Sade tratta dai suoi diari, per mostrarvi come il marchese reagì, da contemporaneo del movimento wahabita: “Ecco di nuovo delle guerre di religione pronte a devastare l’Europa. Boheman, capo e agente di una nuova setta chiamata Christianisme épuré, è stato arrestato in Svezia e tra le sue carte sono stati trovati progetti fra i più disastrosi. La setta a cui appartiene, a quanto si dice, aveva come scopo niente di meno che il dominio su tutti i potentati d’Europa e sui loro sudditi”. Questo Boheman sembra un po’ la versione occidentale di tre secoli fa di bin Laden. “In Arabia – continua Sade – sorgono nuove sette che vogliono epurare la religione di Maometto. In Cina, altri disordini spaventosi e sempre motivati dalla religione lacerano quel vasto impero al suo interno. Come sempre gli dèi sono la causa di tutti i mali.” Questo scriveva il divino marchese, che aveva colto il pericolo di quel movimento al suo primo apparire. Avrete notato con quale discernimento Sade non attribuisca il problema al solo Islam, ma ne faccia un problema universale, mettendo in guardia sul pericolo che, in nome della lettera pura di una qualunque religione, si possa creare un movimento estremista.

Tornando all’Arabia Saudita, il movimento wahabita fallì nel suo tentativo di prendere il potere, ma intanto l’ideologia aveva attecchito. Fu necessario per la tribù di Ibn Saud, quando alla fine del XIX secolo riattivò il suo progetto di presa del potere, ricollegarsi a quella stessa ideologia purista perché il movimento si mettesse in moto e, trent’anni dopo, arrivasse al potere, pacificasse l’integralismo delle tribù e creasse lo stato saudita in nome dell’ideologia wahabita.

Con il potere dei petrodollari e un’ideologia che predica un Islam schematico, i sauditi (non so se lo rimpiangano o no) hanno fatto il peggior male all’Islam stesso, diffondendo quell’ideologia purista che è negatrice della civiltà islamica in tutte le sue dimensioni creatrici, tanto nel campo antropologico, etnologico e popolare, quanto nella sua dimensione di civiltà sapiente e raffinata.

Non è facile capire, riguardo alla società dell’Arabia Saudita, la combinazione fra questo purismo religioso e i petrodollari, dato che la struttura economica del Kuwait e della società saudita è quasi del tutto integrata col mondo capitalista.

È qui che si è passati in qualche modo dall’europeizzazione all’americanizzazione, dal colonialismo tradizionale europeo, che oggi è totalmente sparito, a questo fenomeno di protettorato moderno dove una gran parte della ricchezza viene divisa con coloro che sono protetti. In Arabia Saudita o negli Emirati si resta impressionati dalla ricchezza materiale che si vede nelle città, che sono un puro prodotto dell’americanizzazione dello spazio urbano. Lo spazio urbano appare già profondamente americanizzato anche quando la modernizzazione della tradizione islamica si avvicina al modello europeo. È il caso della Turchia di Ataturk, dove furono introdotti il diritto francese, quello svizzero e, principalmente, quello tedesco. Stessa cosa per la Tunisia di Burghiba, una generazione dopo, negli anni ’50, dove appunto emerge uno spirito profondamente francese da Terza repubblica, uno stato secolare, la volontà di creare una società laica. Anche questa è una tradizione nella storia islamica. Con l’indebolimento del califfato e la sua fine come sistema politico, sono le forze militari che a un certo punto si rendono conto della loro forza, della loro capacità di impadronirsi dell’apparato statale, e che decidono di impadronirsene per governare in prima persona.

I fatti materiali che costituiscono la storia dell’Islam smentiscono quanto è invece indicato come appartenente all’ordine del dogma. Si ripete in ogni occasione che l’Islam è essenzialmente articolato alla struttura di un’autorità fondata sulla consustanzialità del fattore religioso e di quello politico. Su quest’idea molti integralisti concordano con gli islamologi europei, ed è un’idea che circola anche sulla stampa e nei mass media. Io dico: è falso! Storicamente non si è mai verificato questo legame organico. Recentemente il potere politico è stato esercitato dai militari, che sono dovuti scendere a patti con chi rappresentava la religione, l’alim, il sapiente teologo che portava avanti l’istanza giuridico-teologica.

Quando si ha una visione essenzialista delle cose si invoca il profeta dell’Islam, che è stato un profeta guerriero, fondatore di una società politica. Si dice che nella genesi stessa dell’Islam, nei suoi fondamenti, si rivela la consustanzialità fra politica e religione, che certo è esistita è che ha avuto continuità con la creazione della figura del califfo, il successore del Profeta. Ma il califfato ha fallito molto presto, fin dal periodo omayyade (640-750), nel suo compito di risolvere il problema attraverso la separazione fra la funzione temporale e la funzione spirituale (assunta dall’imam, discendente del Profeta). D’altra parte la nozione stessa del califfato fu svuotata di significato fin dall’inizio del X secolo. Quella funzione sarà restaurata dagli Ottomani in modo del tutto simbolico, per significare appunto che la funzione religiosa è solo supplementare alla figura del sultano, la cui funzione primaria è quella imperiale. Si vede bene allora come, nei fatti storici, il preteso dogma della consustanzialità del politico e del religioso nell’Islam storicamente non esista.

È solo con l’integralismo e il wahabismo, che quest’idea della consustanzialità fra i due poteri viene restaurata e diventa il mitico modello di Medina, un modello che la storia reale ha sempre smentito. Ed è chiaro che ogni volta che una politica è gestita in nome della religione, il risultato è disastroso. Perché quando la politica, che è affare umano, diventa affare di Dio, acquista dogmatismo e intolleranza. Dio pretende di non sbagliare mai.





Lei ha parlato prima di risentimento. Come ha potuto questo risentimento rafforzarsi così tanto negli ultimi venti o trent’anni?



È un fenomeno che mi ha fatto molta impressione. L’ho constatato per le strade del Cairo, ad esempio, ma anche negli Emirati è un’idea che circola, che diventa uno stereotipo: siamo due civiltà diverse, inconciliabili. Da una parte c’è la civiltà occidentale senza Dio, dissoluta, che vive in una sorta di libertà totale, nell’amore, nel sesso, e invece noi siamo una società governata da Dio. Quindi sono due società che non possono incontrarsi. È impressionante. Questo stereotipo è largamente diffuso e la sua diffusione è recente, come mi ha raccontato il mio amico Christian Jambet, allievo di Henry Corbin e uno dei rari esperti di tradizione filosofica occidentale e islamica, araba e persiana, specialista del neoplatonismo persiano. Jambet è anche professore alla Hautes Études Commerciales di Parigi, la grande scuola di economia che crea i quadri delle maggiori gestioni d’affari, e ha molti allievi provenienti da paesi francofoni come il Marocco e il Libano. Quando presenta loro certe linee medievali di pensiero, in particolare la tradizione ermeneutica dell’Islam, quei futuri gestori del grande capitale e partecipanti del mercato globale spesso lo interrompono sconvolti, sostenendo che quelle dottrine non possono essere islamiche. Vivono nell’amnesia della loro stessa cultura e si credono i depositari del vero Islam. Perfino questi futuri quadri della finanza internazionale d’origine musulmana si ritrovano segnati da quell’Islam semplificato e tagliato fuori dalla sua stessa civiltà. E la diffusione di questo Islam elementare proviene dall’Arabia Saudita e dai suoi petrodollari. È questo l’Islam che minaccia il mondo e la stessa civiltà islamica.





Perché questo Islam semplificato, aggiunto all’antioccidentalismo, ha catturato le masse negli ultimi venti o trent’anni? Ci sono stati elementi scatenanti?


Sì, prima di tutto il fallimento dello stato nazione e dei nazionalismi. Un fallimento terribile perché le indipendenze e il nazionalismo non hanno fornito soluzioni alle richieste della società, non hanno sradicato la miseria di una parte di essa. Non hanno prodotto una scuola sana, non hanno portato ospedali, salute, anzi si sono esercitati nella violenza, nell’autoritarismo, non hanno proposto un nuovo modello di autorità, non hanno insegnato la democrazia. Erano coercitivi, violenti e, cosa più grave, c’era uno scarto fra i discorsi e la realtà, a cui si aggiungeva la corruzione degli uomini politici. Si è assimilato il modello alla perversione che lo ha fatto fallire. C’è inoltre la volontà di dire a se stessi: perché non cercare di raggiungere una modernità con i propri mezzi, seguendo il proprio corso e secondo i propri principi? Senza rendersi conto che c’è una contraddizione in termini fra società tradizionale e progetto di una società moderna se non si fanno certe rotture, se non si esercita un pensiero critico sulla propria tradizione.

Si pensi al successo di Khomeini, dopo la caduta dello scià di Persia. Ma l’Iran è una nazione grande e complessa, non è una nuova nazione nata dal deserto come è il caso dell’Arabia Saudita o degli Emirati. Ciò che succede oggi in Iran fa pensare che stia nascendo una cultura moderna con mezzi e ritmi propri. Basta vedere il cinema iraniano, la fotografia iraniana. Questa nuova cultura può appoggiarsi su organismi sociali e su una legittimazione popolare maggiore di quella esistente ai tempi dello scià. L’Iran sta sfuggendo allo stesso integralismo che ha rifondato. Ma l’effetto Khomeini è stato uno stimolo per l’islamismo militante o combattente.

Un altro effetto di estrema gravità è la responsabilità degli USA, in alleanza con l’Arabia Saudita e il Pakistan, e il modo in cui è stata organizzata la lotta contro l’invasione sovietica in Afghanistan e allevando un’internazionale di combattenti d’origine islamica gestiti dalla Cia, addestrati dalla Cia con il denaro saudita. Alla fine della guerra c’erano migliaia di combattenti segnati dall’ideologia wahabita a disposizione. Non dimentichiamo che la tragedia algerina è stata attizzata dall’afflusso degli “afghani”, gli algerini che sono passati dalla guerriglia in Hindukush o nel Pamir alla guerriglia nelle montagne algerine dell’Aurès. Vederli tornare in Algeria dopo la fine della guerra in Afghanistan ha sconvolto tutti, anche perché hanno portato dei costumi che l’Algeria non conosceva, quegli abiti larghi e quelle barbe lunghe e incolte, che non appartenevano alla tradizione algerina. Sono ritornati nel loro paese come portatori di un nuovo habitus, che simboleggia una violenza sconosciuta. E non bisogna dimenticare che questi cosiddetti “afghani” sono gli stessi creati dal GIA, il Gruppo Islamico Armato. E bin Laden è il prodotto di questa stessa sequenza.





Qual è l’importanza dell’esperienza palestinese?



L’esperienza palestinese è rivelatrice di quella che definisco la malattia occidentale, contrapposta alla malattia dell’Islam. Riguardo alla Palestina si perpetua lo scandalo che si può definire di “due pesi e due misure”. Quando l’Iraq non applica una risoluzione dell’Onu è immediatamente punito e colpito, mentre Israele, che di tutte le risoluzioni dell’Onu ha fatto carta straccia, resta impunito perché è protetto dagli Stati Uniti. Inoltre gli ultimissimi accadimenti in Palestina, si sono trovati in sincronia con il massacro di New York; la ritirata di Bush dalla scena mediorientale, l’impressione che abbia dato assoluta via libera a Sharon, ha alimentato ancor più la rabbia antiamericana dell’opinione pubblica araba e musulmana. È evidente che la soluzione su basi giuste di questo problema, con due veri stati, con la sicurezza per l’uno e per l’altro, e il ritiro degli israeliani dal 100% dei territori occupati costituirebbe l’inizio della soluzione. Un’America che portasse avanti una politica imperiale e non imperialista, una politica da arbitro e non da giudice e parte in causa insieme, potrebbe disinnescare se non eliminare una quantità di argomentazioni che alimentano l’antiamericanismo attuale.

Traduzione di Emanuele Vacchetto



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