Mediterraneo, la traccia delle reti ''Non saremmo ciò che siamo senza l'Islam e le altre culture''Carla Petrachi incontra Silvio Marconi
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Mediterraneo, la traccia delle reti


"Non saremmo ciò che siamo senza l'Islam e le altre culture"


di Carla Petrachi - 05/08/2005 - da Paese Nuovo



Ingegnere e antropologo, Silvio Marconi è soprattutto un narratore orale. Prima ancora che scrittore, e sì che di libri ne ha pubblicati parecchi, Congo Ji~cumI, Parole e versi tra zagare e rais, Il giardino paradiso, Banditi e banditori, Fichi e frutti del sicomoro, Reti Mediterranee, Dietro la tammurriata nera, lui è un narratore alla maniera degli antichi geografi. Che mettendo insieme paesi conosciuti potevano anche tracciare mappe meravigliose e fantastiche. Così, in Reti Mediterranee (Gamberetti, Roma), e poi anche in Dietro la Tammurriata nera (Edizioni Aramirè), gli universi che descrive sono reali e al contempo nascosti, sotto traccia. Un intreccio di storie sconosciute ai più, nonostante le evidenti documentazioni, che il potere si è il più delle volte impegnato a cancellare e ad occultare, ma che della resistenza ha fatto la sua anima più tenace e dunque riappare in frammenti, forme disancorate (apparentemente) fiabe, leggende, poesie, rotte. commerci, episodi storici ritenuti secondari, lacerti. Una storia che ancora una volta, ma non è mai troppo, Marconi ha rinarrato mercoledì sera ad Alessano, ospite di Vincenzo Santoro e Roberto Raheli nell’ambito del progetto “Mosaico mediterrane”, promosso dai comuni di Corsano e Alessano con il sostegno della Provincia di Lecce. Una fabula dalla protostoria ai giorni nostri, così simile all’albero della vita nella Cattedrale di Otranto (e il riferimento non è certo casuale), per dire di quel modello a rete così di casa nel bacino mediterraneo e anche così misconosciuto, ignorato, dimenticato.


“Da molti anni come antropologo”, dice Marconi, “mi occupo di cooperazione allo sviluppo, di intercultura nel lavoro con gli immigrati a Roma e in altre città. E anche, per non dire sostanzialmente, di ricerche e azione sulle interconnessioni a rete tra le culture, in particolare dell’area afro mediorientale ed europea.


Sinteticamente potrei dire che la linea di base di tutte le mie ricerche è quella di andare a scavare maggiormente sulle relazioni e sugli apporti storicamente determinatisi dal sud e dall’est del mediterraneo verso il nord e sui processi di rimozione operati nel Nord.


Per cui queste relazioni sono volutamente rese sconosciute dai processi formativi. dai media, dai chi ha tatto di tutto per secoli pur di evitare che italiani, spagnoli, balcanici, comprendessero che il mediterraneo è una realtà unitaria e che è gigantesco il debito, culturale, tecnologico, ideologico e perfino religioso. che abbiamo verso le popolazioni dell’est e del sud del mediterraneo”.


Insomma, lei indaga le forme della rimozione. E tutto ciò che è segreto. Che è stato nascosto o si è nascosto.


“Sono molto interessato a tutto ciò che viene nascosto. O come forma resistenziale, penso ai sincretismi, al caso del sincretismo afro cubano, o come attività del potere. La domanda in fin dei conti è semplice: perché il potere nasconde la storia del Mediterraneo? Ci sarà pure un motivo. Se non affrontiamo questo nodo, non possiamo costruire, oggi, una storia del Mediterraneo diversa”.


Lei non crede che, sia pure in parte, segreto e rimozione si incrocino?


“Assolutamente no. Sono due fenomeni radicalmente opposti, come con il coltello si può tagliare della carne per sfamare una persona, o tagliare una persona che aveva fame. Gli stessi strumenti e lo stesso atto con finalità radicalmente opposte. Il nascondere resistenziale non è voluto. Mi nascondo se sono obbligato a farlo. E il musulmano, o l’ebreo, che fa finta di essere cristiano nella Spagna del 1400 o deI 1500, perché non gli viene permesso di essere ebreo o musulmano. Se una persona, o più ancora una comunità. viene lasciata libera di esprimere la propria identità e la propria cultura, non ha nemmeno interesse a nasconderla.


Per il potere è viceversa una strategia.


“Nessuno obbliga il potere a falsificare la storia, se non la logica stessa del potere. Una strategia di egemonia, direbbe Gramsci. Nell’ambito della costruzione di un consenso di massa si mistifica la realtà e nell’ambito della costruzione di un consenso di massa si mistifica la storia. L’aveva capito bene Orwell quando diceva che bisogna riscrivere il passato perché significa controllare il presente e il futuro. Una strategia di dominio, non di resistenza”.


In Reti Mediterranee lei segue una traccia storica e culturale che è ovviamente anche geografica. E all’interno del Bacino mediterraneo sceglie la linea del mediterraneo protostorico, greco-fenicio-punico e medievale islamico, piuttosto che quella romano, franco-germanico-iberico e neocoloniale.


“C’è un’ipotesi storiografica e antropologica di partenza. Se di scontro si è parlato e si parla nel Meditenaneo non è lo scontro di civiltà a cui siamo abituati dalla propaganda degli ultimi anni, ma è quello tra due modelli di società il modello a rete e il modello monopolare. Non si tratta di dividere in buoni e cattivi, o di una società pacifista contro una società militarista. Assolutamente. Sono due modelli che tendono all’egemonia, con strumenti di vario tipo, politico. militare, aggressivo, economico, coloniale, ma con due risultati molto diversi perché la logica è molto diversa”.


Il modello a rete è quello del primo caso.


“Un modello in cui la potenza egemone non tende ad assimilare a se stessa. annichilendole, tutte le diversità, e ad omologarle. Questo modello, che io rintraccio nelle fasi alte del Mediterraneo, di sviluppo, importanti e positive, che non vuol dire fasi di pace, ovviamente, ma pure in cui i conflitti non sono stati totalmente devastasti, è un modello che si basa sullo scambio. Di merci, di persone, di idee, di leggende, di fiabe, di cibi, di religioni. E’ il modello dei popoli protostorici nella famosa Confederazione dei popoli del mare in lotta contro l’Egitto, e che comprendeva sardi, etruschi, siciliani, messapi, ciprioti, quelli che noi chiamiamo erroneamente fenici. Ulteriormente confermato dalla linea di tendenza fenicio-punica, e ripreso nei Medio Evo dal mondo musulmano, caratterizzato da un discorso a rete”.


Cui si contrappone, per dirla con lei, un modello monopolare, di cui Roma è stata esempio classico.


“Dovunque vada Roma crea il suo Foro, il suo Colosseo, le sue leggi, strumentalizza e rapina i popoli locali, fa affluire tutte le risorse nella capitale. Questo è un modello monopolare, come il modello ibero-cattolico, quello coloniale francese, o l’attuale degli Stati Uniti. Distruttivo delle società, delle identità, delle culture, omologante, di pura rapina, e che per il Mediterraneo è stato assolutamente catastrofico. Ricordi che quello ibero cattolico tendeva a presentarsi come la potenza che Dio aveva eletto a sua spada per la cristianizzazione”.


E noi continuiamo a pensare che il paradigma della barbarie siano i turchi.


“In realtà erano caratterizzati da un modello misto. Assumono il modello islamico, che è a rete, anche se, purtroppo, storicamente gli Ottomani sono una dinastia che si afferma a partire da una concezione militarista, di tipo centrasiatico, molto legata alle tradizioni tartare, mongole, in cui l’elemento fondante dello Stato è il potere militare. Il che resta come elemento di continuità fino ad Ataturk e all’attuale cosiddetta laicità della Turchia dove in realtà le Forze armate sono l’elemento garante della continuità dello Stato e quando gli gira fanno il colpo di stato se il Governo non gli piace. Al di là dei fatti attuali la Turchia si è configurata come una potenza fortemente militarista. E con un connubio tra un modello molto gerarchizzato e monocentrico e uno a rete. Sotto il dominio Ottomano le minoranze etniche e religiose godevano di una libertà assoluta. Il Patriarcato di Costantinopoli, greco ortodosso, ha avuto un potere immenso al tempo dei Sultani ottomani, perché ogni comunità era gestita proprio dalla sua comunità religiosa. Elemento del tutto opposto ad una concezione cristiana, che non si sarebbe mai sognata di dare l’autogovemo ai musulmani e agli ebrei”.


E tra questi due modelli, i Balcani dove sono? La sensazione è che siano ancora, e nonostante tutto, una sorta di rimosso. Il nostro Oriente dovrebbe iniziare lì, quella è la dorsale dove Occidente e Oriente si mischiano. Eppure noi pensiamo sempre un est più ad est dei Balcani.


“E’ così. La linea balcanica è rimossa, e male. L’Occidente fa finta che non esista, cerca di rimuoverla, ma non è capace di farlo. Faccio un esempio classico. Noi mutuiamo il termine Medio Oriente dall’inglese e non dal francese. Quando noi parliamo del Medio Oriente stiamo parlando di quel che i francesi chiamano Proche Oriente, e non Moyen Orieni. Lo chiamiamo così perché in inglese quello è il middie east, mentre il near est, il prossimo oriente, sono i Balcani. Per l’Inghilterra l’Oriente cominciava nei Balcani. Mentre per i francesi, con una visione più mediterranea, il prossimo oriente iniziava nel Mediterraneo orientale, il nostro Medio Oriente. Per loro i Balcani facevano già parte dell’Europa. No, non dell’Occidente, non hanno mai avuto la concezione vera dell’Occidente, piuttosto dell’Europa franco-centrica”.


Torniamo al Balcani.


“Sì. Sono un elemento fondamentale e fondamentalmente rimosso”.


Perché?


“Qui si verifica uno scontro che non è solo tra realtà mediterranee, perché c’è la grossa presenza dell’Ortodossia rususa. Ci si scorda sempre che le guerre balcaniche, i conflitti, non riguardano solo quel che noi chiamiamo l’Occidente e il mondo musulmano. C’è un terzo attore, la Russia, molto particolare proprio per quel che dicevo prima sul Patriarcato greco di Costantinopoli. Il Patriarcato ortodosso di Mosca è sempre stato concorrente feroce del Patriarcato greco di Costantinopoli. Gli ortodossi di tipo greco e comunque sottomessi al Patriarcato greco per l’organizzazione dovuta all’impero ottomano, erano moltoo più leali verso i turchi che verso i russi. La slavofilia non è un fenomeno diffuso tra gli ortodossi greci. tutt’altro. Lo scontro, prima ancora che tra Cristianità e Islam, è all’interno della Cristianità ortodossa. Elemento che a me piace ricordare a chi, come il nostro Pontefice o il nostro Presidente del Senato, si ostina a parlare di radici cristiane dell’identità europea, che vorrei capire bene quali sono. In Europa l’80 per cento delle guerre degli ultimi mille anni sono state tra cristiani cristiani. E in nome di visioni cristiane differenti. Basti penare alle guerre tra luterani e calvinisti da una parte e cattolici dall’altro, tra inglesi anglicani e spagnoli cattolici, a cosa è stato tra i cristiani cattolici e i cristiani ortodossi. Bisanzio non è stata distrutta dai turchi, che sono arrivati molto dopo, ma da Crociati veneziani che l’hanno presa e saccheggiata. I Cavalli di San Marco,. e tutte le altre cose che adornano la bellissima città di Venezia, sono frutto del saccheggio da parte dei crociati di Bisanzio. San Nicola di Bari altro non è se non il furto delle reliquie di un santo cristiano in Turchia compiuto da marinai cristiani. In realtà lo scontro è stato minimo più interno al cristianesimo, che verso i mussulmani. Tutto sommato profondamente alleati dei cristiani ortodossi greci, in certe fasi, come sono stati ottimi alleati della Francia. Basti ricordare come la Francia, per due anni, in funzione antispagnola abbia addirittura ceduto la base navale e la città di Tolone alla flotta dell’impero ottomano, svuotandola dai cittadini francesi, perché potessero operare contro le navi spagnole”.


Fuori luogo dunque, per lei, parlare di scontro tra Cristianesimo e Islam nei Balcani.


“Fa ridere. Basti vedere cosa è stata la guerra tra Croati e Serbi. Che sono semplicemente due entità religiose diverse dello stesso popolo. Chiunque ha studiato lingue sa perfettamente che non esistono la lingua serba o croata, ma un lingua che si chiama serbo croato. Scritta con lettere dell’alfabeto cirillico dai serbi, perché sono ortodossi, e latine dai croati perché sono stati sotto l’influsso dell’Austria e quindi sono cattolici. L’unica differenza è religiosa. Non c’è differenza etnica né di altro tipo. E se ricordiamo la ferocia della guerra balcanica tra serbi e croati capiamo come il conflitto balcanico sia innanzitutto un conflitto interno al cristianesimo. Dove poi si è assestata la struttura dell’Impero ottomano come struttura aggiunta. Ma esisteva molto prima che i primi turchi sbarcassero nei Balcani”.



Altro discorso per le radici arabe. Molto presenti nella cultura europea, a partire dalle stesse parole.


“Ci vorrebbero giorni per fare l’elenco di quali sono le radici arabe. Evito un discorso generale sull’Europa perché sarebbe troppo ampio, anche se alcuni cenni vanno fatti. Noi non ci rendiamo conto. Ma sarebbe impossibile parlare di identità italiana. e definirla, prescindendo dall’apporto islamico in generale, arabo-berbero in particolare e anche di altri popoli, come i persiani. Non potremmo parlare dell’identità così come noi la conosciamo”.


Immagino si riferisca a Dante.


“Il padre della letteratura e della lingua italiana scrive la Commedia, quella che noi chiamiamo la Divina Commedia, a partire da un libro, il Kitab al Miraj. Tradotto Libro della Scala mentre in realtà è il Libro dell’Ascensione, racconta la leggenda dell’Ascensione del profeta Mohammed dalla Mecca in volo a Gerusalemme e l’ascensione al Paradiso con relativa descrizione. Dante conosceva questo libro tradotto a Toledo sia in latino che in francese, lingue che lui conosceva perfettamente, tra l’altro mentre a Toledo era ambasciatore di Firenze Brunetto Latini, il maestro, oltre che molto altro, di Dante. Non solo. Tutta la poetica di Dante, la Vita Nova, è collegata all’elaborazione sufica. Non avremmo avuto semplicemente Dante e la Divina Commedia se non fosse stato per l’Islam. Non avremmo il rosario. Le donne e gli uomini italiani che vanno in chiesa devono sapere che il rosario è stato inventato dall’islam ed è arrivato in Europa due secoli dopo che i musulmani già lo usavano. Non avremmo non dico la matematica, ma gli scacchi, la tecnologia di moltissime cose, le arance, i carciofi, parte di quello che consideriamo il pensiero occidentale. La scolastica di San Tommaso è basata sul pensiero musulmano. Pico della Mirandola. il rinascimento italiano”.


Ad Alessano ha mostrato alcune immagini di Botticelli come esempio.


“La Primavera altro non è che una ripresa delle miniature persiane. L’elenco potrebbe continuare. Il Boccaccio riprende i temi delle Mille e una Notte. La nostra cultura, quella che studiamo nei Licei, è per oltre la metà o di diretta derivazione musulmana-medievale o influenzata dalla cultura musulmana medievale. Il che non ci deve stupire. In una logica a rete, appunto, noi per la nostra posizione geografica, al centro del Mediterraneo, eravamo crocevia di scambi materiali e immateriali. I commercianti toscani, pugliesi, lombardi, erano in rapporto diretto con i commercianti del Medioriente, del Levante, dei porti del Mar d’Africa. Non importavano solo merci. Importavano idee, racconti, leggende, ideologie, modi di pensiero. Che ovviamente hanno influito profondamente sullo stile italiano e che noi continuiamo a rimuovere”.


Influenze e segni che per esempio qui da noi in Salento sono evidentissimi.


“Penso alla Chiesa di San Nicolò e Cataldo e all’Abbazia di santa Maria di Cerrate. Due chiese normanne, costruite effettivamente dai Normanni, dove gli elementi di architettura araba, come il rosone, sono chiarissimi, perfino la guida del Touring club lo ammette. Addirittura nella Chiesa di San Nicolò sono presenti delle scritte in lingua araba con lettere cufiche che ovviamente a Lecce nessuno si è mai dato la pena di tradurre, tanto meno l’Università. Stanno lì e non sappiamo cosa c’è scritto, mentre qualunque immigrato maghrebino con una cultura da diploma secondario, in grado di leggere il cufico, davanti a quella scritta saprebbe tradurla perfettamente. Invece sono passati 900 anni da quando quella Chiesa è stata costruita e non sappiamo più né cosa dice né perché in una chiesa cattolica si è scritto in arabo. Non sappiamo se sono lodi a Dio cristiane o di altro tipo. Peraltro non è caso isolato. In Toscana c’è Masaccio che dipinge il Trittico di San Giovenale e nell’aureola della Madonna inserisce la shahadah, la professione di fede islamica. Lui la scrive al contrario, che non se ne accorga nessuno, neanche chi conosceva l’arabo. Perché un pittore protorinascimentale, innovativo come Masaccio, che viene poi ammazzato probabilmente dagli sgherri del Papa a 37 anni, in un trittico destinato alla famiglia guarda caso di un commerciante di stoffe, inscrive la proclamazione di fede musulmana nell’aureola della Madonna? Ci sarà un motivo. Episodio su cui ha riflettuto anche Cardini. Sono talmente tanti gli elementi della nostra cultura materiale e immateriale impregnati di cultura nord africana e mediorientale attraverso l’Islam. Non solo cultura islamica ma anche culture veicolate dall’islam. Gli scacchi, i numeri che noi diciamo arabi ma che sono indiani, il giardino, il concetto di Paradiso che viene dal persiano antico e vuol dire giardino chiuso, il liuto e tutti gli strumenti a corde, quelli a percussione. esclusi quelli arrivati dai greci peraltro di origine africana, sono elementi che arrivano con i berberi, gli arabi e i turchi. Non avremmo la chitarra, il mandolino, il liuto, la poesia provenzale, perfino il dolce stilnovo. Che certo è un movimento toscano però esistito a Baghdad due secoli prima di Dante. Tutto lo stilnovismo si rifà al movimento dei poeti nuovi come venivano chiamati a Baghdad. A questo punto pensare di rimuovere, estirpare, dalla nostra memoria e dalla nostra coscienza questi e altri mille elementi che ci derivano dalla cultura africana e mediorientale non solo, io credo, è una castrazione culturale, ma anche un modo per essere condannati al declino storico, all’emarginazione storica”.


Tutto questo dice che identitàè concetto fragilissimo, fluido, inopportuno, a volte.


“L’identità è un flusso. Qualcosa che si modifica nel tempo. Non è mai se stessa e non è mai autoctona. L’autoctonia è una delle più grandi menzogne che ci si possa inventare. Nulla è autoctono. Non c’è leccese, romano, milanese, che non abbia nella sua gastronomia tradizionale elementi altrui. D’altronde quando diciamo cucina mediterranea parliamo di una cucina basata sul pomodoro, che arriva dall’America. Prima di Colombo la cucina mediterranea non esisteva. La pizza non si poteva fare. Nel Nord non si poteva fare la polenta. Piatti mediterranei sì, ma dal 1500, dal l600 in poi. Al terno di Dante la cucina mediterranea era tutt’altra cosa. Non c’erano la patata, il pomodoro, il fagiolo, il mais. L’identità apparentemente mediterranea della nostra gastronomia in realtà è dovuta agli apporti americani. Dunque è vero quello che dici. L’identità è qualcosa di assolutamente molto labile anche se è qualcosa per cui si muore. Nel cui nome si può ammazzare e morire, più spesso ammazzare che morire. Però è anche qualcosa di molto importante nel momento in cui riconosco la pluralità che esiste dentro di me. Quando lavoro nell’intercultura - il termine multiculturalismo per me è un abominio - il nodo non è mai quello di rapportarsi alla cultura dell’altro. Se a Lecce arriva un immigrato albanese o marocchino il problema non è di come il leccese si deve riferire all’albanese. Ma di come si deve riferire all’albanese che esiste dentro di lui. Alle basiliche basiliane, al rapporto coi Balcani al tempo dei bizantini, al fatto che decine di comuni pugliesi hanno come Santo patrono qualcuno che è nata in Serbia, in Bosnia, o in Albania. Sono questi i Santi patroni in Puglia. Allora ci sarà pure qualcosa che ci lega ai Balcani, ben oltre l’afflusso degli immigrati. Quell’immigrato è portatore di una cultura che è la mia. Non è altra dalla mia. Pezzi della mia, senza la pretesta di esaustività, come la sua non è tutta uguale alla mia, ma è dentro di me. Devo riconoscere l’immigrato che è in me prima ancora di riconoscerlo come immigrato. Portatore di una cultura altra verso cui mi apro più o meno entusiastico o più o meno attento. No, devo aprirmi alla sua cultura che è radicata dentro di me. E nella astronomia, nella musica, nel dialetto, nella toponomastica, nell’onomastica di Lecce, andare a parlare di quello elementi che non sono messapici, perché non c’è una continuità diretta tra i messapi e i leccesi attuali. Ci sono elementi arrivati con i greci, con i cartaginesi, con i romani, con gli arabi, i turchi, gli spagnoli, gli albanesi, i bizantini. Il pugliese, il salentino di oggi, è la conformazione di tutti questi elementi insieme. Questa è la sua vera identità attuale. Che cambia ancora, con i nuovi migranti e continuerà a cambiare”.


A fare un paragone, questo tempo ci consegna un’idea di commercio ristretta. Abbiamo sancito la libera circolazione delle merci, ma è un commercio asfittico, senza scambio.


“Li c’è un altro grande equivoco. Parliamo di globalizzazione senza considerare due elementi di equivoco e di falsificazione ideologica. La globalizzazione si presenta come un incremento reale dei flussi di scambio. E’ totalmente falso. Gli unici flussi di scambio aumentati negli ultimi 20 anni sono quegli finanziari. I 4 quinti degli scambi nel mondo in questo momento di capitali, non di merci. Che non sono per niente lievitati con la globalizzazione, almeno nella quantità così esplosiva che si dichiara. Sono aumentati, certo, è dal ‘700 che aumentano, dalla Rivoluzione industriale, semplicemente perché cresce la disponibilità delle merci, e non solo. Dopo di che il 50 e oltre per cento degli scambi registrati come tali sono solo trasferimenti di merci dalle filiali delle multinazionali alla casa madre. Per cui sarebbe meglio parlare di delocalizzazione”.


Il secondo imbroglio?


“E’ falso dire che la globalizzazione è figlia della civiltà dell’elettronica e del capitalismo maturo. La storia antica vanta una serie di globalizzazioni, molto più esplosive ed espansive di quella attuale”.


Torniamo al dato iniziale, alle società a reti?


“Che hanno fatto opere di globalizzazione. Anche le grandi società imperialiste come Roma hanno fatto la globalizzazione. Ci sono elementi di globalizzazione nel momento dell’apogeo musulmano. Nel decimo e undicesimo secolo era normale scambiarsi corrispondenze culturali tra parenti della stessa famiglia di stanza chi a Marrakesh, chi a Baghdad, chi ai confini con la Cina. Una rete dallo Zhejiang all’Atlantico. Se non era globalizzazione questa... Si è modificato radicalmente il modo di pensare di intere popolazioni. Siamo entrati in contatto con le filosofie indiane, con gli scacchi, l’algebra indiana e contemporaneamente abbiamo avvertito gli influssi delle percussioni e dei riti possessivi dell’Africa nera attraverso il Sahara nel giro di un secolo, secolo e mezzo, i cambiamenti epocali sono stati enormemente superiori a quelli odierni. Oggi la differenza è nella tecnologia del trasferimento dell’informazione e dei capitali. Con dei paradossi francamente ridicoli. Ci pensi. Il sistema postale italiano, a parte la posta celere, ha gli stessi livelli di efficienza del sistema postale al tempo delle Repubbliche marinare. Da Lecce a Milano un pacchetto impiega esattamente lo stesso tempo che nel Medio Evo. Un container dal Porto di Cagliari al Porto di Tunisi, praticamente di fronte, mancando una linea marittima diretta, deve andare a Rotterdam e da lì tornare in Tunisia. Nel Medio Evo il trasbordo era diretto. La Puglia era collegata con la Turchia molto meglio al tempo dell’impero ottomano che oggi. I sistemi navali oggi nel Mediterraneo sono ridicoli. Mentre un tempo erano migliori. Eppure in un mondo mediterraneo tutto dovrebbe essere tutto basato sul sistema navale. Il più ecologico, il più compatibile, il meno costoso, e con migliaia di chilometri di coste”.


http://www.vincenzosantoro.it/news/dettagli.asp?ID=234



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