Lettera a mia figlia che vuole portare il velo di Leila Djitli
Un velo. Scuro, coprente, ingombrante. Un velo contro cui sua nonna e sua madre hanno lottato, una copertura che hanno rifiutato, a cui hanno rinunciato. Quello stesso velo piomba tra Aicha e Nawel, tra una mamma di origine algerina che vive a Parigi, moderna e orgogliosa di esserlo, e una figlia diciassettenne che decide improvvisamente di indossare lo hijab. Il libro si snoda attraverso un lunga lettera-confessione.
La donna racconta la sua storia, quella della madre e della nonna, le vicende di tante donne accanto a lei. Cerca di spiegare alla figlia in un linguaggio semplice e incalzante cosa in fondo il velo voglia dire.
L’uso dell’indumento ‘marchia le donne’, ma non si limita a questo, impone un comportamento sociale: salutare gli uomini senza dare la mano, non rimanere da sola in stanza con l oro, non uscire, usare orari diversi per le piscine. Chi ha fede, e questo credo ha tanto di bello e di puro, non ha bisogno di segni esteriori per praticarla. A diciassette anni, il velo rappresenta solo una fuga.
La lettera è una denuncia intima, che non si ferma ad un dialogo interiore ma abbraccia temi importanti, rapporto tra uomo e donna, l’indipendenza, la solitudine dell’immigrato, l’integralismo, la fede. I ragionamenti si susseguono come le parole, che manifestano rabbia, stupore, impotenza, dolore. Ma soprattutto amore, amore per una figlia, amore per la vita, amore per una ribellione che si crede ancora giusta.
Lettera a mia figlia che vuole portare il velo di Leila Djitli Edizioni Piemme Euro: 12,50
http://www.ilpassaporto.kataweb.it/dettaglio.jsp?id=29730&s=5
Epistolari Lettera a mia figlia che vuole portare il velo - Leila Djitli, Sophie Troubac
* Piemme 2005, pag. 141
Pino Bertelli Il documento e la finzione si mescolano in questo piccolo libro che, con una scrittura diaristica e asciutta, mostra antiche fratture generazionali e nuove ribellioni sociali. Aicha è una giornalista di origine algerina che ha lottato per l'emancipazione delle donne in Francia, non solo di religione musulmana. Nawel è sua figlia, una ragazza di diciassette anni che riconosce nell'integralismo, nella diversità, nella fede, la propria intima rivolta e un giorno dice alla madre: «Voglio portare il velo». La madre, redattrice della «lettera», ricorda allora quando lei ha «strappato» il velo ed è entrata in una nuova visione dell'esistenza. Si sentiva aggredita da quel simulacro imposto dai padri. L'ironia della Djitli, spesso è pungente. La madre si sofferma sull'ignoranza della propria famiglia, dell'ex-marito, su coloro che hanno fatto della religione il solo scopo della vita. Racconta poi storie di donne venute in Francia sperando di trovare un nuovo «Paradiso» e che invece hanno conosciuto soltanto dolore, emarginazione, ghettizzazione. Abbandonate insieme ai figli dai propri mariti, si sono battute per conquistare una vita meno feroce. E queste donne che hanno abbandonato il velo, sostiene l'autrice, sono state trasportate dal coraggio e dalla speranza di rompere la cultura dell'intolleranza non solo musulmana (è la stessa misoginia che ritroviamo, sotto sfumature diverse, anche nelle altre religioni monoteiste), per la quale le donne dovrebbero essere sottomesse a Dio e schiave degli uomini e delle loro leggi. È vero, dice il libro, che il tratto distintivo dell'adolescenza è la rottura con tutto quanto rappresenta l'ordine costituito. Non sono però gli «integralismi» d'ogni sorta a nobilitare le differenze o i dissensi. «Il velo, afferma l'autrice, non ti protegge da niente», men che mai «dagli uomini che vorrebbero umiliarti». La libertà è un bene comune o non è niente.
http://www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/LeMonde-archivio/ultimo/0605lm22.04.html
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