Mamma che vieni da lontano
“D” di Repubblica, n. 427, del 20 novembre 2004 Articolo di Agnese Bertello, foto di Luana Monte
La stanza, se fosse vuota, sarebbe grigia e anonima, come ogni stanza d’ospedale. Dentro, però, sedute nelle pose più strane, sopra materassi distesi per terra all’ultimo minuto, ci sono una decina di donne. Capelli e occhi scuri, carnagione olivastra e pance: più grandi, più piccole, più alte o più basse, tonde sui fianchi o lanciate in avanti come missili.
Dieci donne incinte. Dieci donne che vengono dal Perù, dall’Equador e da altri paesi del Sud America: sono le donne del Corso di preparazione alla nascita organizzato dal Centro di aiuto e ascolto delle donne e dei bambini immigrati all’ospedale San Paolo di Milano. Ciascuna tiene in mano una moneta che la mediatrice culturale ha dato loro passandogliela fra le dita strette, come fosse un gioco di bambini. Una dopo l’altra, immaginando che quella moneta sia un ricordo importante, raccontano un pezzo della loro storia, un po’ di loro stesse. “Questa moneta per me è un monito”, dice Elisabeth, che ha vent’anni, viene dal Perù e laggiù ha un figlio piccolo che l’aspetta. “Ho sbagliato troppo nella vita e questa moneta mi dice che prima di agire ci devo pensare 50 volte, per non sbagliare più”. “Per me invece è un porta fortuna. L’ho trovata nel mare e dato che non ho mai trovato soldi in vita mia, questo è un buon segno”, aggiunge l’altra Elisabeth, di pochi anni più grande, che sta per diventare madre qui per la prima volta e spera che il marito possa raggiungerla, ma sa già che partorirà senza di lui. “La terrò come amuleto”. “A me questa moneta l’ha regalata il mio fratellino prima di partire”, dice invece Mayra, una ragazza col fisico da ballerina e il sorriso aperto. È all’inizio della sua gravidanza ed ha una pancia piccola, appena visibile. “Mio fratello ha 4 anni e vive a Lima. Me l’ha data prima che partissi perché mi portasse felicità, perché potessi essere felice anche lontana da casa e per farmi tornare ed essere felici tutti insieme.” Mentre parla Mayra si commuove e piange. Sabina, l’ostetrica del Centro, le è accanto e l’abbraccia. Poi Mayra fa vedere a tutte la foto del suo fratellino e tutte le fanno i complimenti, alzandosi con la poca grazia che consentono i loro pancioni, si avvicinano e l’abbracciano. Coraggio Mayra.
Questo corso è così: un’autogestione. Una comune femminile dove chi sa parla e racconta. Ad ogni racconto se ne attacca un altro e il sapere circola, passa dall’una all’altra e diventa patrimonio personale. Nessuna gerarchia; tanto più che vi partecipano donne in momenti diversi della loro maternità: chi è al terzo mese, chi all’ottavo, chi ha già partorito e continua a venire portandosi dietro il neonato - e allatta e culla e fagli fare il ruttino, e piange e perché piange, ma dorme? - e chi scende direttamente dal reparto maternità, ancora con il braccialetto al polso. In questo modo, affrontare i temi classici di un corso di preparazione al parto - allattamento, svezzamento, pannolini, la “vita dopo” - è più facile. E i messaggi fanno presa. Si radicano in un esempio concreto e vicino. “Mio marito pensava fosse colpa del malocchio se non rimanevo incinta, così mi ha passato un uovo su tutto il corpo per farlo andare via ed eravamo tristi perché non sapevamo chi poteva volerci così male. Quando l’abbiamo saputo, non riuscivamo a crederci…”, racconta Evelin. “Da noi si mette una bacinella con un infuso di erbe in mezzo alle gambe perché il bambino ne senta il profumo e abbia più voglia di uscire. Prima però la partara massaggiando la pancia fa mettere il bambino nella posizione giusta”, racconta Maria. “Ho paura di non accorgermi che il momento di partorire è arrivato: a casa, ho lavorato fino all’ultimo minuto e poi mi hanno accompagnato di corsa all’ospedale, ma qui non ho nessuno e se non me ne accorgo in tempo che faccio?”, chiede ansiosa Elvia. “Io con il mio primo bambino non avevo timore che lui si spaventasse, perché lo fasciavo, lo mettevo nell’amaca e al paese non c’era niente che spaventasse un neonato. Qui, invece, c’è un sacco di rumore, i bambini si spaventano di più”, si preoccupa Teresa. “Però mi hanno detto che qui non si fa. Non si fasciano i bambini.” Essere costrette a rinunciare a tutto questo, a questa parte della propria storia personale, del proprio vissuto specifico femminile, a bollare magari come “poco scientifico” o “folcloristico” un’idea di sé, un modello di femminilità e maternità che è proprio del mondo cui si appartiene, può avere conseguenze molto negative per la donna. E per il bambino. “Io considero questi incontri momenti di vera prevenzione, rispetto a future difficoltà relazionali e psicologiche dei bambini,” sostiene Sabina Dal Verme. “Tutto il lavoro del Centro, ed in particolare il lavoro che facciamo in questi corsi, mira proprio a far recuperare fiducia e sicurezza a queste mamme.” E continua: “L’obiettivo non è tanto insegnare come si fa qui, far percepire il nostro modello come quello giusto; al contrario: il messaggio che vogliamo fare arrivare è che ci sono modi diversi di affrontare i disturbi della gravidanza, il parto, il dopo parto, le rappresentazioni del parto e della maternità, che ci sono diversi modi di accogliere, di accudire il bambino e vanno tutti bene.” In fatto di maternità , poi, spesso queste donne ne sanno più delle italiane, che magari arrivano alla prima gravidanza senza aver mai avuto occasione di accudire un fratellino,un cuginetto, o di vedere una parente all’opera. Loro invece hanno ricevuto informazioni, custodiscono un sapere pratico, tradizionale, importante, spesso non privo di verità e validità, per quanto scetticamente lo si possa considerare.
Perché possano serenamente accettare il nostro modello, bisogna che prima qualcuno riconosca alla loro identità culturale pregnanza e spessore. Per questo, parole come giusto e sbagliato sono bandite. Lo sforzo dell’ostetrica e della mediatrice è costantemente teso ad accogliere ed ascoltare saperi e pratiche, esigenze, dubbi e desideri, a esplicitare e sottolineare ogni volta il valore e il senso di quello che si sta raccontando. Tutto è legittimo. Tutto ha una sua intrinseca ragione. “Migrare è un po’ come nascere. Ognuno di noi è avvolto in un involucro culturale. Quando si emigra, inserirsi in una società radicalmente diversa rende difficile conservare la nostra identità profonda. Conservare un’immagine positiva della propria storia e della propria cultura è fondamentale, a maggior ragione lo è quando si è in una condizione di fragilità come quella della gravidanza, quando in gioco c’è la riuscita della relazione madre-figlio.”
Le donne arabe, cui l’anno scorso era stato destinato un corso analogo, si erano scelte perfino un nome. Erano le Faraone, loro, e gli incontri erano veri e propri scambi multiculturali: ninne nanne, ricette, tè, consigli estetici, massaggi reciproci, discorsi sulla sessualità. Come se la cultura dell’hammam, della chiacchiera initima e della cura reciproca, si fosse magicamente trasferita in questa stanzetta mesta. “Organizziamo corsi in base a culture e lingue di provenienza essenzialmente per ragioni pratiche, per l’impossibilità di avere due o più mediatrici linguistiche a disposizione, ma nell’approccio alla maternità di queste donne le differenze si sentono” aggiunge ancora la Dal Verme. “Per esempio, con le donne egiziane è molto difficile fare un discorso sul bambino immaginario, cosa che invece si fa comunemente con le donne italiane ed anche con le donne latinoamericane. Per loro sembra non abbia senso, poi ho capito che è un modo di proteggere il bambino: prima che nasca ne parlano poco, lo nascondono, la gravidanza non viene sbandierata in giro, come facciamo noi qui che mostriamo le ecografie a chiunque. Però parlano molto volentieri, e liberamente, dei loro disturbi o di sessualità, cosa che non mi aspettavo.”
Sul materassone adesso sono distesi una decina di bambini paffuti e pieni di capelli: siamo alla festa finale di benvenuto ai bimbi. Le neo mamme ci sono tutte e così anche quelle che ancora devono partorire. Per ricordare a questi bambini che non vengono dal nulla, per aiutare le mamme a raccontare la strada che hanno percorso, è stato donato a ciascuno il quaderno in cui nel corso degli incontri sono state inseriti oggetti simbolici: una cartina del mondo su cui la mamma ha tracciato il percorso per raggiungere l’Italia, cartoline del paese d’origine, fotografie di nonni e parenti, alcune parole italiane… Il resto della storia lo scriveranno loro.
http://www.intandem.it/art/24.htm
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