Povertà: le diverse forme di esclusione sociale
DOSSIER ESCLUSIONE SOCIALE
Misurare la povertà e l'esclusione sociale: problemi e proposte
Relazione di Giancarlo Rovati
Prezzi e inflazione, in Italia e in Europa
Relazione di Luigi Campiglio
Famiglie più povere,soprattutto a Milano
La povertà multiforme
Essere poveri, sentirsi poveri, ritrovarsi poveri
Intervento del ministro del Welfare
Roberto Maroni
Il problema della povertà si presenta oggi come un fenomeno molto articolato. Durante il convegno sul tema “Misure della povertà e politiche per l’inclusione sociale” tenutosi il 19 e 20 novembre scorso alla Cattolica di Milano, sono state analizzati:
Le differenze regionali delle politiche sociali
La povertà degli immigrati
Il “peso economico” dei figli
Le ragioni della persistenza della povertà
Confronto europeo nell’esclusione sociale
Multidimensionalità della povertà
Luca Pesenti dell’Università di Bologna ha prodotto un’analisi comparata delle politiche sociali territoriali, incentrata sul ruolo delle Regioni. Chiave di lettura: la progressiva localizzazione avvenuta negli ultimi decenni, soprattutto dei servizi alla persona, dal Comune alla Regione. Alla Regione ora, spettano dunque compiti di definizione degli ambiti territoriali e dei livelli essenziali, di ripartizione delle finanze, di affidamento dei servizi ai privati e al privato sociale.In questo processo di modifica dell’assetto istituzionale del welfare italiano emerge il ruolo della sussidiarietà orizzontale. Ovvero del nuovo ruolo assunto dal privato sociale, non più in qualità di meri esecutori delle politiche pubbliche ma di veri e proprio soggetti attivi delle policies. Questa situazione ha dunque comportato una crescente valorizzazione del territorio grazie ad una maggiore autonomia locale e ad un coordinamento tra gli attori. In breve passando dalla regolazione generale (governement) alla valorizzazione attiva del territorio (governance). Questa tendenza è stata analizzata sulla base del confronto tra tre Regioni, Lombardia, Toscana e Campania dal quale emergono delle peculiarità piuttosto marcate: - la Lombardia ha le caratteristiche di un welfare plurale promozionale, a causa di uno spiccato mix di tipologie di prestazione, di una debole applicazione della sussidiarietà verticale, del metodo collaborativo nei rapporti con il terzo settore, e di una spiccata promozionalità della famiglia interpretata come soggetto attivo di scelta; - la Toscana è invece più vicina a un modello di mercato sociale regolato, in quanto si caratterizza per la centralità di servizi erogati direttamente con forme di cash residuali, assai accentuata sussidiarietà in senso verticale, dualità nel rapporto con il privato sociale e residualità della famiglia come soggetto di policies; - il modello della Campania si presta ad identificare un modello di tipo erogatorio, con una netta prevalenza di servizi direttamente erogati (fatto salvo per il “reddito di cittadinanza”), una spiccata sussidiarietà in senso verticale cui fa da contraltare una scarsa realizzazione di sussidiarietà orizzontale, tanto verso il privato sociale, quanto verso le famiglie.
Sul problema della povertà per gli immigrati è intervenuto, per quanto riguarda un’analisi della situazione in Lombardia, Giancarlo Blangiardo dell’Università di Milano Bicocca. Blangiardo ha presentato i risultati di un monitoraggio effettuato dalla Fondazione ISMU nell’ambito delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’Integrazione e la Multietnicità, si stima che circa 4 famiglie immigrate su 10 vivano al di sotto della cosiddetta “soglia di povertà relativa” (Un valore che la Fonte Istat indicano in €869,50 al mese per una famiglia di due componenti). Elaborando questi dati, si può calcolare che sono circa 300mila gli immigrati che potrebbero essere definiti come “poveri” in relazione ai parametri nazionali di povertà. Significativo è inoltre osservare che, in una regione ove le stime Istat accreditano la presenza di solo il 4,5% delle unità familiari sotto la soglia di povertà, quando tuttavia ci si limita al sottoinsieme delle famiglie immigrate la corrispondente quota risulta - a parità di procedure e di parametri di riferimento - quasi 10 volte più grande.Sullo stesso tema è intervenuto anche Walter Nanni, dell’Ufficio Studi della Caritas Italiana. L’osservatorio privilegiato è quello dei centri di ascolto e accoglienza, secondo i dati elaborati dal rilevamento effettuato nel corso del 2003 in 17 centri su 10.614 immigrati. Dallo studio sulle dinamiche migratorie è emerso che all’arrivo in Italia gli immigrati si presentano con “soldi contati”, “nessuna disponibilità” o un “minimo vitale”. Risulta anche che le condizioni di salute al momento dell’arrivo siano generalmente “buone”. Si conferma dunque che le malattie provocate da “povertà” e indigenza siano contratte solo dopo l’arrivo nel nostro Paese. Nanni ha presentato poi un panorama dei contesti e degli ambiti del flusso migratorio: guerra, conflitto politico e crisi sono i principali motori dell’immigrazione, mentre aumentano i casi di clandestinità rinviata: molti giungono in territorio italiano con permessi di soggiorno, di turismo o di pellegrinaggio e, una volta scaduti, la persona rimane nel territorio in una situazione di clandestinità. I dati, infine, rilevano che il flusso migratorio Sud-Nord sia in calo, e si registra una certa tendenza a radicarsi anche in alcune zone del mezzogiorno.
Federico Perali dell’Università di Verona pone invece il problema della stima della povertà nelle famiglie con bambini. Fulcro dell’approccio di Perali è la scala di equivalenza (un numero che converte le famiglie di diversa composizione in individui identici e consente di effettuare confronti di benessere tra individui e famiglie basati sulle necessità e di misurare correttamente povertà ed ineguaglianza tenendo conto delle differenze tra famiglie) che risponde a un fondamentale quesito: “qual è il livello di reddito aggiuntivo di cui una famiglia composta da due adulti ed un bambino ha bisogno rispetto ad una famiglia senza bambini, al fine di godere dello stesso livello di benessere economico”.I calcoli della scala di equivalenza tradizionale, che consente di misurare povertà ed ineguaglianza tenendo conto delle differenze tra famiglie, evidenziano una certa iniquità di costo di mantenimento di un bambino tra famiglie povere e ricche, o tra quelle del nord, del centro e del sud Italia.. Ma questo calcolo ha il limite di considerare una divisione equa di risorse familiari monetarie e di tempo tra i membri. Di fatto possono verificarsi situazioni in cui esistono bambini poveri in famiglie ricche o, al contrario, bambini ricche in famiglie povere. Bisogna dunque tener conto, ha sottolineato Perali, della condivisione di risorse all’interno della famiglia, o si corre il rischio di escludere da forme di aiuto bambini che dovrebbero di fatto essere aiutati.
La persistenza delle persone in condizione di povertà è il lavoro innovativo di Francesco Devicenti dell’Università di Trento. La sua analisi “longitudinale” della povertà si è concentrata non solo sull’incidenza complessiva del fenomeno, ma sulla sua stessa evoluzione dinamica, ovvero sul carattere transitorio o persistente della povertà individuale e familiare. Un’analisi preliminare dei dati mostra che per circa il 46% della popolazione il reddito è al di sotto della soglia di povertà in almeno uno degli 8 anni. Le stime forniscono un quadro di alto turnover in povertà per la maggior parte della popolazione: circa 48% di quelli che cadono in povertà riescono ad uscirne dopo solo un anno e tra il 19 e il 25% di coloro che escono vi rientrano dopo il primo anno. Questo elevato “turn over” suggerirebbe l’introduzione di strumenti assicurativi che, assieme ad un adeguato sviluppo di mercati finanziari, dovrebbero alleviare i disagi che la povertà stessa comporta. A questi bisognerebbe poi aggiungere un altro tipo di interventi nei casi in cui il fenomeno colpisca determinate tipologie di individui in modo ricorrente e persistente.
Raimondo Cagiano De Azevedo, dell’Università di Roma “La Sapienza”, ha sottolineato il rischio di eslusione sociale nell’Europa allargata. Partendo dall’impegno dell’Unione Europea per l’integrazione sociale che da anni ha come obbiettivo la valorizzazione di alcuni settori come la protezione sociale, l’occupazione, la sanità, l’alloggio, l’istruzione. Lo studio compiuto si è proposto di analizzare il rischio di esclusione sociale in Europa attraverso un approccio più ampio, in primo luogo sono stati analizzati alcuni aspetti demografici del processo che porta all’emarginazione e all’esclusione sociale; vengono poi individuate quelle aree del disagio responsabili, più di altre, dell’emergere di situazioni di esclusione (disoccupazione, mancanza di istruzione, condizioni di salute e condizioni abitative); vengono infine fornite le analisi comparate del rischio di esclusione sociale nelle regioni rispettivamente dell’Europa dei quindici e dell’Italia.
Sul concetto della multidimensionalità della povertà è intervenuta Enrica Chiappero Martinetti dell’Università di Pavia. Martinetti si è soffermata sulla necessità di una misurazione empirica della povertà, che superi le misurazioni odierne quasi totalmente incentrate sulla valutazione di reddito e consumi. Un approccio nuovo dunque, che si scontra con la carenza di rilevazioni statistiche, con l’assenza di strumenti di misura adeguati a rappresentare la natura multidimensionale della povertà, che ad esempio dovrebbe prendere in considerazione alcuni indicatori relativi alle condizioni di vita o di istruzione, oltre al più delicato problema del diffuso grado di “conservatorismo metodologico”. Lo studio della Martinetti affronta in primo luogo le dicotomie presenti in letteratura (povertà assoluta e relativa, oggettiva e soggettiva, statica e dinamica) che suggeriscono una pluralità di idee di povertà ed esclusione sociale, per proporre poi una sorta di griglia guida per l’analisi multidimensionale di quelle che sono le differenti povertà.
Leonardo Giammarioli