Le parole lasciano impronte: una campagna ed uno spazio forum
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Immigrazione, parte la campagna per il giusto uso delle parole

di Francesca Pacifici

 

ROMA - Parole che fanno male, e che se usate a sproposito possono provocare danni e conseguenze inimmaginabili. Tanto più in un fenomeno come quello dell’immigrazione dove la comunicazione è fondamentale. Le parole sono importanti, evocano immagini, costruiscono idee, «lasciano impronte». Così si chiama la campagna di sensibilizzazione per promuovere il giusto uso delle parole nell’informazione.

L’iniziativa, annunciata pubblicamente nella sala della Federazione nazionale della stampa italiana, nasce dall’esigenza di riflettere sul linguaggio utilizzato dai professionisti dell’informazione per descrivere e raccontare la realtà dell’immigrazione. Con un piccolo dizionario delle parole corrette distribuito ai partecipanti all’incontro, si è aperta la prima discussione della campagna. Una battaglia, che a detta degli organizzatori, si preannuncia lunga e difficile. Ma che verrà affrontata a piccoli passi.

Clandestini, irregolari: chi si nasconde dietro le parole?
Clandestini, irregolari, delinquenti, extracomunitari. Ma chi si nasconde dietro queste parole? «Le persone sono messe in ombra da tali categorie – afferma uno dei promotori della campagna, Stefano Galieni, membro del dipartimento nazionale immigrazione di Rifondazione Comunista -. Spariscono dietro a espressioni come flussi, sbarchi, sicurezza, irregolari. Non si conoscono mai, attraverso gli organi di informazione, le storie di uomini e donne migranti. Né le loro vite, le loro prospettive, il loro progetto migratorio. La loro ricchezza».

Cambiare strada, un percorso di cultura
Il problema dell’uso scorretto e talvolta razzista del linguaggio che si riferisce agli stranieri, ha toccato per ora solo la sensibilità delle università, dei centri di ricerca e delle associazioni. La campagna lanciata questa mattina non si limita a denunciare il linguaggio inappropriato con cui si parla di immigrazione nei giornali o in televisione, ma si propone di intervenire attraverso iniziative graduali nella costruzione dei circuiti dell’informazione.

In principio fu la questura
Da dove nasce l’uso scorretto dei termini? «Il problema sta anche nelle fonti utilizzate dagli organi di informazione, afferma Anna Meli, responsabile del settore media e immigrazione della ong fiorentina Cospe -. Il linguaggio inappropriato di cui stiamo discutendo è un linguaggio da questura. E le questure sono state per molto tempo l’unica fonte disponibile per chi avesse voluto occuparsi di immigrazione. È arrivato il momento di usare fonti diverse, perché i tempi sono maturi. I consigli degli stranieri o i consiglieri aggiunti nelle amministrazioni comunali sono ormai fonti autorevoli».

La stampa, specchio del paese
Per Franco Siddi, padrone di casa stamattina, in quanto presidente della Fnsi, la cultura che sta dietro al linguaggio degli organi di informazione riflette la cultura della gente, dell’Italia: «Prima debbono crescere le persone, e poi la stampa seguirà questa crescita. Il problema che ponete qui oggi esiste. E noi della federazione della stampa stiamo riflettendo sull’inserimento di incontri o seminari nelle scuole di giornalismo tenuti da coloro che si occupano di immigrazione. Perché le nuove generazioni di professionisti dell’informazione siano preparate a queste nuove realtà».

I giornalisti stranieri
Gli stranieri stessi tuttavia non chiedono solo di essere rappresentati in modo diverso, ma si propongono come soluzione al problema dell’informazione scorretta: «L’immigrazione è una realtà in Italia perché noi siamo qui e ci rimaniamo – dichiara Paula Baudet Vivanco, giornalista dell’agenzia Migranews -. Una rappresentazione più corretta ci è dovuta. Se nei giornali o nelle televisioni saranno presenti più giornalisti stranieri, la situazione potrebbe migliorare. I professionisti immigrati potrebbero lavorare insieme agli italiani, creando momenti di confronto utili per restituire al paese un’informazione migliore».

Una strada difficile
Della stessa opinione è Ribka Sibhatu, scrittrice e ricercatrice di origine etiope: «È necessario che gli stranieri siano protagonisti attivi. Se gli italiani vedessero più migranti negli organi di informazione, si farebbero un’altra idea di noi». Cristina Ali Farah, scrittrice e collaboratrice di El-Ghibli, sottolinea la ricchezza che potrebbero portare agli organi di informazione i professionisti di origine straniera: «Essi potrebbero rappresentare un ponte tra gli italiani e i migranti, offrendo spunti e prospettive diverse per raccontare storie e testimonianze». Ma la strada del giornalismo non è così accessibile per gli immigrati, poiché è regolata da una legislazione nebulosa risalente al 1947. Esistono elenchi speciali per gli stranieri, anche se essi hanno lavorato in Italia. Per non parlare del fatto che, se un giornalista non appartiene all’Unione Europea, non ha la possibilità di diventare direttore responsabile di una testata. La campagna «Le parole lasciano impronte» si batterà anche per la semplificazione delle procedure per la professione del giornalismo. Nella consapevolezza della necessità di avere professionisti che possano raccontare meglio ai lettori e ai telespettatori questa nuova Italia più ricca di storie, di culture e di esperienze.
(24 marzo 2005 - ore 14.53)


http://www.ilpassaporto.kataweb.it/dettaglio.jsp?id=25806&s=0



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