Quel che bisogna sapere del dolore di Ingrid De Kok (a cura di Paola Splendore)
L’evento più clamorosamente “simbolico”, quello che più di ogni altro ha segnato un punto di svolta nel nuovo Sudafrica, è stato forse l’istituzione della “Commissione per la verità e la riconciliazione” (Trc), l’organismo di mediazione politica che ha operato dal dicembre 1995 all’estate del 1998. Voluta da Nelson Mandela e dall’arcivescovo Desmond Tutu, la commissione aveva il compito di accertare e rendere pubbliche le gravi violazioni dei diritti umani emerse dai racconti delle vittime dell’apartheid, garantendo l’amnistia a chi avesse reso piena confessione degli abusi compiuti. Al di là dell’importanza dell’operato della commissione, si può affermare che proprio nei suoi obiettivi principali, – assicurare “un futuro fondato sul riconoscimento dei diritti umani, della democrazia e della pacifica coesistenza … per tutti i sudafricani”, e far sì che il risarcimento dovuto fosse in primo luogo ‘simbolico’, cioè contemplasse in primo luogo l’ubuntu, il riconoscimento dell’altro e della sua dignità umana – la Trc ha rappresentato una sorta di pubblico rito di passaggio da un sistema all’altro, dall’apartheid alla democrazia. Un grande rito catartico cui l’intera popolazione si è sottoposta, bianchi neri e coloured, per la prima volta con pari diritto di parola e dignità, riconoscendo la necessità di “interrogare il silenzio”, di fare i conti con le zone d’ombra più nascoste. Su questo evento può leggersi in italiano il volume curato da Marcello Flores Verità senza vendetta. L’esperienza della commissione sudafricana per la verità e la riconciliazione, pubblicato dalla Manifestolibri nel 1999. Fine ultimo della Trc è stato dissotterrare la verità sul passato e renderla pubblica per poter curare le ferite di una nazione traumatizzata, compito che ha svolto con procedimenti inconsueti e controversi, che hanno suscitato polemiche dentro e fuori del paese, ma che ha avuto il merito di portare in primo piano il riconoscimento del dolore sofferto. Il rilievo dato al racconto delle vittime, come emerge ad esempio dal volume Country of My Skull (1998, che ancora attende una traduzione italiana) della poetessa e giornalista Antjie Krog – straordinaria opera di testimonianza in cui l’autrice mette in gioco tutta se stessa, la propria identità di boera e di donna – e il coinvolgimento di un’intera nazione all’ascolto, attraverso i media, hanno trasformato la Trc in teatro di grandi narrazioni e di grande suggestione metaforica. Trasmesse alla radio e in televisione, le “udienze” sono state in un certo senso pubbliche, e nessuno si è sottratto all’ascolto per quanto doloroso e insostenibile potesse essere, come se venisse a soddisfare un bisogno di confessione e di espiazione troppo a lungo soppresso. L’esposizione delle gravi ferite inferte, i sacrifici umani sofferti sono stati così parte essenziale del trauma della nascita del nuovo Sudafrica, ed è da queste ferite, dal bisogno di conoscere e di capire qualcosa di più del dolore, che nasce il ciclo di poesie di Ingrid de Kok.
Ingrid de Kok è nata a Johannesburg nel 1951. Ha studiato in Sud Africa e in Canada, paese in cui ha a lungo soggiornato. Nel 1984 è tornata in Sud Africa dove attualmente dirige il programma di aducazione degli adulti all’Università di Cape Town. Ha pubblicato tre raccolte di poesia: Familiar Ground, nel 1988, Transfer nel 1997 e Terrestrial Things nel 2002. Le poesie qui tradotte sono tratte da Transfer e da Terrestrial Things per cortese concessione dell’autrice.
L’arcivescovo presiede la prima udienza Il primo giorno, dopo poche ore di testimonianze, l’arcivescovo ha pianto. Ha appoggiato il capo grigio sul lungo tavolo di carte e protocolli e ha pianto.
Cameramen nazionali e internazionali hanno ripreso il suo pianto, le lenti appannate, le spalle singhiozzanti, la richiesta di aggiornamento.
Non importa quello che pensavate – prima o dopo – dell’arcivescovo, dell’accordo, della commissione, o quello che gli antropologi accorsi da crimini e dolori meno studiati, hanno detto del suo discorso, né quante tesi di dottorato, libri, e istallazioni ne siano derivate e neppure se pensate che questa poesia semplifichi, celebri romanticizzi, mistifichi.
C’era il lungo tavolo, abiti porpora inamidati e dopo poche ore di testimonianze l’arcivescovo, presidente della commissione, ha appoggiato il capo sul tavolo e ha pianto.
È così che è cominciato.
Parti del discorso Ci sono storie che non vogliono essere narrate. Se ne vanno, portandosi valige tenute insieme da uno spago grigio. Guarda le loro schiene ricurve che scompaiono. Gobbe. Rovinate. Sacche da viaggio.
Ci sono storie che rifiutano di essere danzate o mimate. Gettano via i bastoni consumati e le rumorose scarpe da tip tap, cancellano le tracce in crudeli filastrocche o vecchi giochi come mosca cieca.
E in questo posto macchiato le parole vengono raschiate via da lingue resinose, strizzate come bucato appeso ai fili della corte e del confessionale, tradotte nel dialetto della registrazione.
Perché ancora credere che le storie possano levarsi in volo, su correnti, come argentei segnali luminosi levitare, alleggerite delle pietre, cominciare nel dolore e tendere alla grazia, ossigenando la storia col fiato ritrovato? Perché ancora immaginare parole intere, mondi interi: lo scoppiettio delle consonanti, vocali come anemoni marini, sintassi di cordone ombelicale, versi che cominciano nel cuore, e verbi, verbi che muovono montagne?
Come si piange in una stanza piena di domande La testimone lo racconta pacata: il respiro di un ragazzo affondato nel sonno come sempre dormono i giovani, anche quelli più all’erta; la finestra in frantumi, le pareti scosse della baracca, il respiro falciato di quel ragazzo, ucciso. La madre che stende la coperta.
Un antico dolore trattiene la rabbia come un tappo. E le domande giuridiche spazzano via cervella e sangue dal pavimento.
Quel che bisogna sapere del dolore “Quel che bisogna sapere del dolore” è per questo che compro la rivista. Tra le virtù dell’aerobica su una pagina e il brivido di Machu Picchu sull’altra anche il dolore ha il suo spazio pubblicitario.
I vivi raccontano cronache di feriti, di morti e dispersi. Ripetono in annunci sincopati “il prezzo della rabbia”, “il conforto della fede”, con parole e cenni del capo commentati da didascalie.
L’articolo offre aiuto: consiglia la parola che rimargina, raccomanda lunghe passeggiate, e terapie d’appoggio, rassicura chi soffre che ce la farà, poi mette in guardia piano: lascia perdere, pensa ad altro. Ma tutti sanno che il dolore non ha cura: ferita slabbrata e illividita nel solco profondo del corpo; shrapnel seminato sotto pelle roghi di guerra fumanti sempre accesi.
E il dolore è una cosa molto personale, lieve incrinatura sul cranio; elegia domestica che intona il suo lamento funebre nel pozzo del cuore ferito; troppo in fondo per raggiungere
la scala di luce gettata dall’alto, dove mani scrivono parole per mettere in moto l’argano e sondare l’abisso.
Davanti alla commissione Nel racconto dei fatti nessuno ricorda se addosso portava una granata o se il suo corpo contratto sia esploso al contatto con gli orrori a venire.
A che serve conoscere quel dettaglio, la verità, se quando scorri veloce il nastro, il finale è lo stesso, sempre lo stesso?
Le domande, al di là delle intenzioni, portano tutte lontano da lui che, solo, corre per mettersi in salvo.
Bende Recisi come fiori, fatti a pezzi come legna arsi in una vampata di fuoco.
Ossa scarnite.
Gola strozzata. Guancia carbonizzata da parte a parte. Orecchio esploso. Occhio strappato.
Ghiaia. Tumulo di sabbia.
Non smettiamo, ti prego, di sentire e vedere il testimone che parla a testa bassa.
Preghiera, apostrofe, maledizione.
Storia avvolta nelle bende di un mondo spezzato, monconi cui appendere la nostra vergogna come inutili mani, per sempre.
Ammutolita “Giura di dire la verità, tutta la verità e niente altro che la verità?”
Le è stato fatto del male. Ma lei non riesce a parlare. Dicono che è ammutolita.
Come strozzata dal cordone ombelicale. Senza sputo, suono, senza ingoiare. Voce imbottigliata.
Ora parla sott’acqua, a se stessa, che affoga, a suo figlio, alla figlia perduta.
La sua lingua è un flusso che scivola su pesci morti, funi e arnesi abbandonati:
“Sono venuti per i ragazzi, hanno preso, poi me, e poi, poi dopo il secchio sanguinava. Le mie orecchie si sono fermate. Sono più vecchia di mia madre quando…”
Il gabbiano trascina l’ala fino ai gradini del faro. “È questa la verità. Perciò aiuto. Tutta. A dire.”
Parla il trascrittore Sono stato il prigioniero della commissione, l’ anonimo scriba fuori orario, tabula rasa professionale. Parola per parola per parola dal nastro che girava al tasto cifrato da segno a segno, ascoltavo e scrivevo. Come mattoni per la fornace o tegole per un tetto o mucchi di foglie spazzate da bruciare: non so quale: parola su parola su parola. Dapprima senza punteggiatura tranne che punti e virgolette. Ma come trascrivere il silenzio del nastro? Il pianto è una pausa o una parola? Quale segno scritto sta per una gola strozzata? E il dito puntato di un testimone? Quello l’ho descritto, quando i funzionari hanno identificato la direzione e il nome. Ma se fissava soltanto? E se il silenzio sembrava allungarsi oltre i poliziotti, nella strada verso una porta, una tomba o un bambino, spettava a me concludere: “La testimone è rimasta in silenzio. Non c’era più niente da dire”?
Il tecnico del suono Sembra che tra i vari professionisti impegnati a riferire della commissione per la verità il numero più alto di sostituzioni si sia verificato tra i tecnici del suono.
Onde sonore di siccità e di piena giungono ritoccate dalla bocca di chi parla attraverso l’orecchio del fonico: dune che filtrano sabbia bruciata del deserto in pozzi contaminati, e colpi e grida non più soffocati nel cavo della conchiglia.
Ascolta, taglia, pausa, taglia, balbettio: taglia, ritocca, dolore; collega, dolore; trasmetti, dolore, ascolta, taglia, pausa, taglia. Incolla la grammatica all’orrore, mentre il sangue riscalda le cuffie, e fa sbattere le ali delle onde sonore.
Per il morso duro della verità, fai sentire i denti, la bocca, la mascella, inserisci l’esitazione, eliminala: forse anche il respiro. Togli le labbra. Anche la lingua. Lascia soltanto la gola del suono. Tieni l’orecchio al suolo, al dolore che affiora, al suo annaspare per l’aria, al suo aspro volo radente sulla topografia della storia. L’orecchio della macchina registra le lesioni della terra erosa mentre il sangue percuote la membrana cerebrale.
Una macchia incombe come una piccola farfalla rossa, sul piano di registrazione dello studio dove il muro ascolta, così l’orecchio si concede una pausa. Poi niente. Solo la scarica statica, insetti che invadono l’aria.
Il tecnico del suono sente che gli si lacera la membrana del timpano.
Ci sono altri “Ci sono quelli che si sono lasciati un nome alle spalle così che si potranno tramandare le loro lodi. E ci sono altri che non hanno neanche una lapide che li ricordi, che sono scomparsi come se non fossero mai esistiti; e sono diventati come se non fossero neanche nati; e i loro figli dopo di loro” (Apocrifi)
Solo il fruscio delle canne fumo sottile di pipa lampada tremolante al kerosene donne ricurve avvolte in coperte i loro volti persi alla luce.
E quel che rimane: cancelli scardinati pietre sparse a semicerchio placente sepolte nel limo. Possono i dimenticati rinascere in una terra di nomi?
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