Parola di donne irachene Il dramma di un Paese scritto al femminile
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Parola di donne irachene


Il dramma di un Paese scritto al femminile


Lidia Ravera


     


Narrando storie Sherazade procrastinava l'esecuzione della sua condanna a morte. Lei parlava, e il boia restava in attesa. Anche i cattivi hanno bisogno di essere intrattenuti, anche i dittatori si annoiano, la fame di parole non conosce limiti politici, puoi imporla l'ignoranza, perché un popolo colto fa paura, ma per te stesso, anche se sei un mostro sanguinario, desideri la distrazione della cultura.


Inaam Kachachi, nel presentare brani di romanzo, racconti e poesie scritti da donne irachene, ha scelto di risalire alle mitiche Mille e una notte, “Umana Commedia” d'Oriente, e alla Madre di Tutte le Scrittrici: “Le sue nipoti, oggi, usano praticamente la stessa astuzia: ingannano il destino con racconti, che dicono la verità, più di tutti i bollettini del mondo”. E' vero, leggere Parola di donne irachene, sottotitolo Il dramma di un Paese scritto al femminile, Edizioni Baldini & Castoldi (in libreria dal 20 maggio), ti fa provare passione e compassione, ammirazione e orrore. “In Iraq si è abituati a scrivere col sangue. Sicuramente perché è diventato meno caro dell'inchiostro”, dice Inaam, che, come alcune fra le donne che ci presenta in questa antologia, ha ancora voglia e forse, soprattutto, bisogno, di sorridere. Dal 1990 ogni merce è contingentata. La carta è un bene raro, si scrive su tutto, dai vecchi quaderni al retro delle ricette, dalle fatture inevase ai sacchetti di carta spiegazzati. Una matita è un piccolo tesoro. Una giornalista racconta d'aver dato uno schiaffo sulla mano al suo nipotino, perché aveva temperato troppo il prezioso mozzicone che gli serviva per fare i compiti. Dopo aver ceduto a quel momento di rabbia si è chiusa in camera a piangere. Sapeva di essere stata ingiusta. Sapeva anche quanto le era costato quell'umile strumento di rabbia si è chiusa in camera a piangere. Sapeva di essere stata ingiusta. Sapeva anche quanto le era costato quell'umile strumento. “Anche le matite sono sottoposte all'embargo, poiché i Signori delle commissioni Onu sostengono che la grafite potrebbe essere usata per scopi bellici”. Chi scrive una lettera a Baghdad ha l'accortezza di aggiungere un foglio bianco, per poter ricevere una risposta che non costringa il destinatario a sbattersi tre giorni un pezzo di carta.


Ci pensiamo mai alle condizioni materiali della scrittura, mentre battiamo allegre sui tasti lievi dei nostri personal computer, mentre guardiamo distratte la stampante secernere pagine su pagine, obbediente al comando, funzionale, ricca? No, non ci pensiamo. Eppure la parola durevole ha i suoi costi. L'estrema povertà, la reclusione in prigioni inumane, l'embargo, la guerra ti tolgono dalle mani quei due strumenti che consentono ad un pensiero di consolidarsi in parole, alle parole di restare, di poter essere lette, di creare ponti fra realtà distanti, fratellanze per affinità morale. Una matita, un pezzo di carta. Per fortuna, le scrittrici irachene, hanno saputo superare ogni tipo di difficoltà: da quella patetica del pezzo di carta, a quella quasi insormontabile della cultura ginefobica (che le vuole mute e discrete, coperti i capelli come i pensieri), fino a quella, non meno terribile, della censura. Con l'ostinazione dei poeti e la rabbia dei testimoni, hanno saputo continuare a scrivere.


Alle due e mezza del mattino il crimine attraversava la città. La cupola del firmamento s'illuminava dei colori dello spettro solare. I bombardieri hanno regalato il loro carico colpendo la torre delle comunicazioni, dalla quale ci separavano soltanto due strade. Dopo la prima bomba, il quartiere ha sussultato e si è formata una nuvola di polvere. Dopo la seconda bomba, la paura ha perso conoscenza” era il 17 gennaio 1991. Prima guerra cosiddetta del Golfo. Titolo del libro: Linee incrociate della sinfonia della vita e della morte, autrice Thikra Mohammed Nader, giornalista e scrittrice. Per aggirare la censura Thikra provò a presentare il suo intenso romanzo della paura come un tassello della propaganda mediatica cara a Saddam contro le malefatte del nemico. Vinse persino un premio nel concorso “La madre di tutte le battaglie”, sul giornalismo di guerra. Altre sono state costrette a nascondersi nell'inglese, a pubblicare all'estero, altre ancora sono state incarcerate, torturate, costrette all'esilio. Eppure non hanno taciuto. “I cronisti della Mesopotamia raccontano che nel paese dei Sumeri, a sud dell'attuale Iraq, era stata inventata una lingua appositamente per le donne, che la utilizzavano durante le loro riunioni”. Chi faceva parlare un personaggio femminile in un epopea usava questo idioma. Si chiamava “Lisani Saliti”, che vuol dire “lingua sciolta”, e aveva il ritmo “dei litigi e delle baruffe”, forse fu il primo inserto di “parlato” nei cieli astratti dell'alta cultura.


Le moderne Sherazade, che Inaam Kachachi ha raccolto, non parlano più una lingua diversa, eppure hanno un timbro di inconfondibile femminilità. La lingua delle baruffe e dei litigi è diventata la lingua malinconica dell'armonia mancata, una nostalgia di pace che si esprime con un timbro di accorata semplicità. Violini, non tamburi. Gli uomini fanno la guerra, le donne la subiscono. Certo, anche gli uomini la subiscono e anche le donne la fanno. Ma con parti marginali di sé. Ascoltate la voce di Alia Mamdouh: “Signore, preservami dalla perfezione perché si perpetui il mio bisogno di costruzione e di costruttori/ Signore, mantienimi nello spazio della disperazione perché il mio salvataggio divenga impossibile/ Signore, non venire in mio soccorso quando il mio piede scivola e il male mette radici, quando l'amico mi attende al varco prima del nemico e il medico prima della malattia/ Signore, preservami dall'essere uguale al vincitore, fosse pure dello spessore di una particella di schiuma/ signore, fa che impari a far la guardia alla sventura per rimborsare la pigione alla mia anima”. Coraggiose, sapienti, ben assestate nel dolore, ingrediente quotidiano delle loro vite, tutte con un uomo lontano o perduto, tutte con un figlio in pericolo, come le altre donne irachene, eppure, diversamente da loro, tutte privilegiate dalla scrittura, che consente di padroneggiare qualsiasi realtà, anche la catastrofe iterativa delle invasioni americane, anche l'impotenza e la scarsità, forti della capacità di raccontarle. C'è orgoglio e una sorta di sulfurea allegria nelle poesie di Siham Jabbar: “Una Donna è uomo e polvere/ Si nasconde sotto le zero/ Per liberarsi del sovrappiù”. Oppure. “Non ho soldi né boyfriend/ Non viaggio/ Non mangio quei piatti da gourmet/ che scopro nelle riviste/ Del resto, non compro più riviste/ Non ho appuntamento con nessuno/ ma sono felice/ persino all'acme della gioia/ Ho dato la vita a un pezzo di carta”.


Non tutti sono in grado, in un paese dove gli intellettuali vengono comprati dal regime (Saddam premiò gli scrittori che avevano ottemperato alla sua richiesta di inventare romanzi sull'Embargo con un buono di cinquemila dollari), di godersi le gioie della scrittura in solitudine. Hayat Sharara, scrittrice e docente universitaria, si è uccisa insieme a una delle sue figlie, dopo aver portato a termine un romanzo di quelli che Saddam non avrebbe mai permesso di pubblicare. Ha lasciato il manoscritto lì, vicino alla cucina satura di gas dove la morte ha suggellato una carriera ostacolata, le umiliazioni accademiche e le censure artistiche, in una unica tragica ondata di amarezza. Si intitola, il romanzo, Quando i giorni diventano crepuscolo e tratta, fra l'altro, delle condizioni in cui sono costretti a vivere gli intellettuali a Baghdad: stipendi miserabili, pressioni per promuovere tutti i ragazzi che fanno il soldato anche se non si sono mai presentati a scuola e perfino l'obbligo di non ingrassare. Ogni sei mesi dovevano spogliarsi nudi e farsi pesare: “I corpi dipendenti dallo stato” devono “mantenere un peso compatibile con l'età e la statura”. Ogni chilo di troppo, un po' di soldi di meno a fine mese. Dice uno dei personaggi del romanzo della Sharara: “Se Sharazade fosse tra noi, sarebbe morta di sfinimento nel tentativo di comprare qualcosa per sfamarsi e vestirsi, avrebbe perso la sua eloquenza e la sua immaginazione e sarebbe diventata una donna come tante, che pensa soltanto a provvedere alle necessità quotidiane”.


E' per il terrore di veder spegnersi la sua capacità di raccontare e pensare e studiare che Hayat Sharara si è uccisa? E adesso che Saddam Hussein è scomparso dai suoi palazzi per finire in un mazzo di carte che riunisce la Top Ten dei nemici di George W. Bush, per le donne come lei andrà meglio? Forse tutte avranno carta e matite. Ma chissà se avranno voglia di usarle, sedute sulle macerie della “stanza tutta per sé” bombardata per errore, chissà se avranno ancora, nella loro città divisa in porzioni e assegnata al dominio dell'invasore e dei suoi amici, la dignità, il senso di sé e l'orgoglio, senza i quali è così difficile scrivere, raccontare, far parlare le situazioni e le cose.


Lidia Ravera


www.unita.it



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