Il problema della tolleranza percorre l'intera parabola del pensiero politico moderno. Un volume di Slavoij Zizek e due saggi di Maria Laura Lanzillo dedicati alla storia di un concetto controverso
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Tolleranza di tutti contro tutti
Il problema della tolleranza percorre l'intera parabola del pensiero politico moderno. Un volume di Slavoij Zizek e due saggi di Maria Laura Lanzillo dedicati alla storia di un concetto controverso


SANDRO CHIGNOLA

E'attorno a un unico concetto che si affannano gli sforzi normativi della filosofia politica contemporanea. All'elaborazione di una teoria della tolleranza lavorano tanto coloro che vi rintracciano lo strumento per incrementare i diritti e ampliare lo spettro di inclusività universale dello spazio politico democratico, quanto coloro che, da un punto di vista per molti versi opposto al primo, vi identificano la risorsa utile a «governare» quello che la crisi degli assetti universalistici della politica libera in termini di rivendicazioni identitarie concorrenti: appartenenze, stili di vita, culture. Sottratto all'area semantica originaria - nella quale tolerare rimanda al sopportare, al rassegnarsi a, ad uno sforzo di conservazione, come nell'espressione latina silentium tolerare, mantenere il silenzio - il concetto di tolleranza viene abilitato all'espressione di una valenza progressiva, positivamente connotato, attrezzato a definire il punto di congiunzione possibile tra liberalismo politico e multiculturalismo e con ciò ad assicurare il raggio di massima estensione al circuito di compatibilità e di riconoscimento del sistema politico postmoderno. Elevata a compimento della storia, la tolleranza occidentale viene presentata come il discrimine che separa la civiltà dalla barbarie e, nelle retoriche del clash tra civilizzazioni, come l'elemento di valore che oppone la democrazia ai fondamentalismi, l'inclusività di principio dell'universalismo cristiano al jihad con cui viene, senza resto, identificato l'Islam. Tra liberalismo politico (Rawls) e multiculturalismo (Taylor, Walzer), lo spettro di impiego del concetto di tolleranza (alla cui storia sono di recente stati dedicati due lavori di Maria Laura Lanzillo, Tolleranza, il Mulino, collana «Lessico della politica», pp. 180, € 9,30; La questione della tolleranza. Gli autori, i dibattiti, le dichiarazioni, Clueb, € 21,50) si distende tra i due estremi - paradossalmente complementari, come vedremo, nel definire il baricentro dell'esorcismo postmoderno nei confronti della politica come conflitto - di una strategia di ricomposizione dell'universale basata sulla «tolleranza» delle differenze (Rawls) e su una rivendicazione di diritti che per poter essere agita deve essere integrata dal riconoscimento e dall'accettazione della pari legittimità di altre rivendicazioni e di altri diritti - e quindi da una sorta di definitivo affondamento dell'universale (Taylor, Walzer).

Nel primo caso, la tolleranza viene presentata come complemento necessario all'espressione di un consenso «per sovrapposizione», ricavato, cioè, per progressiva convergenza su alcune proposizioni comuni, che lasciano impregiudicate le differenti convinzioni di fondo dei soggetti. Nel secondo caso, lungo una direttrice apparentemente opposta, come perno sul quale far ruotare l'attivo riconoscimento della diversità, per abilitare le differenti identità che abitano lo spazio politico postmoderno al libero perseguimento delle proprie preferenze e del proprio stile di vita.

Nel dibattito contemporaneo torna ad emergere così il valore eminentemente sintomatico assunto dal concetto di tolleranza, il suo proporsi come concetto di crisi. Lanzillo ben sottolinea come, nel corso della sua elaborazione, il concetto di tolleranza abbia sempre definito l'altra faccia del potente dispositivo di neutralizzazione sul quale la modernità ha eretto la propria ragione politica.

Il problema della tolleranza percorre l'intera parabola del pensiero politico moderno. Da un lato è un ingrediente del dibattito attorno al vero cristianesimo (proponendo, come in Erasmo e negli anabattisti la distinzione tra quanto della dottrina cristiana pertiene all'irrinuciabile - i fundamenta - e quanto invece rileva da interpretazioni della Scrittura che possono anche divergere o presentarsi come opposte, per incardinare su questa distinzione la possibilità di un'intesa di fondo tra i cristiani, che li metta in grado di recepire gli aspetti universali della rivelazione e di pacificare i rapporti tra di loro). Dall'altro lato, come nella tradizione dei politiques, è lo strumento per costruire la pace civile, attraverso il conformismo esteriore delle azioni e la costruzione di una sfera «privata», all'interno della quale tutte le opinioni possono essere «tollerate» proprio perché private di rilevanza politica.

Se nel primo caso il concetto di tollereranza viene costruito come speculare alla rivendicazione dei diritti individuali e incrociato a filosofie fallibiliste (quelle secondo le quali la ragione umana non può pervenire alla conoscenza definitiva della verità) e a concezioni religiose latitudinarie (un ideale «allargato» di Chiesa, incentrato sulla condivisione di pochi e semplici dogmi, accettabili per la maggioranza dei membri della comunità), nel secondo caso esso rappresenta la norma del rapporto tra lo Stato e i suoi cittadini, le cui azioni sono regolate dalle leggi solo per quanto attiene ai comportamenti esterni e lasciate libere per quanto attiene all'interiorità della fede o dell'opinione.

Non sorprende, dunque, che nella storia di un concetto che le teorie politiche liberali assumono come proprio identificatore fondamentale il ruolo principale venga assunto non da un «liberale», ma da un autore che non impiega il termine tolleranza. A ragione, Lanzillo riconosce infatti come sia Thomas Hobbes, l'assolutista, a definire il luogo di incrocio delle due tradizioni. I diritti individuali vengono storicamente prodotti come effetto di un assoggettamento integrale all'anonimo dispositivo sovrano che garantisce in termini formali la sicurezza e la tutela delle libere opzioni dei soggetti privati. Tutte le opinioni sono uguali, e possono essere tollerate, perché lo Stato si assicura il monopolio dell'unica verità che conta sul piano politico: quella della legge. Ad essa i comportamenti pubblici debbono essere conformati, perché vi sia la possibilità, per tutti, di poter liberamente agire sul piano delle scelte che, fondamentali per l'individuo, non lo sono sul piano politico: convinzioni private, credenze religiose, preferenze personali.

La storia del concetto - che Lanzillo ricostruisce sin dentro l'età del Lumi, nei deisti inglesi, in Bayle, in Voltaire - dimostra che il cuore segreto della tolleranza è il nesso costitutivo che quest'ultima intrattiene con il tema della spoliticizzazione. Il riaffacciarsi delle teorie della tolleranza nella filosofia politica contemporanea viene interpretato dall'autrice come la spia della crisi del meccanismo di neutralizzazione cui la politica si è affidata negli ultimi tre secoli, identificando nello Stato, e negli apparati di quest'ultimo, lo spazio deputato al riconoscimento e alla tutela del libero mercato delle opinioni.

Eppure forse non è solo così. L'orizzonte post-politico contemporaneo si definisce su di una rimozione del conflitto ancora più radicale. La rincorsa al centro delle politiche postmoderne si nutre di un latitudinarismo ben più esplicito di quello che alimenta il secolo dei lumi. La rima in cui Jovannotti esplicita il proprio «credo» - integralmente pacifista e perfettamente tollerante - «in una sola grande chiesa / che va da Che Guevara a Madre Teresa», esplicita l'hard core dell'ossimoro protoulivista e blairiano della politica del «centro radicale». Il tema della tolleranza, irrinunciabile presupposto della comunicazione democratica, torna sulla scena come complemento della narrazione che assume la fine delle ideologie, traduce la politica in tecnica gestionale e adegua quest'ultima alla fantasia che recita l'estinzione del conflitto di classe.

Come argomenta Slavoij Zizek (Difesa dell'intolleranza, Città aperta, pp. 92, € 8), ciò che il dibattito contemporaneo evidenzia è l'implicita struttura difensiva della filosofia politica. Il suo costante adoperarsi - è questo che determina la coincidenza delle posizioni del liberalismo politico rawlsiano e del multiculturalismo di Walzer e di Taylor - per esorcizzare il ritorno del conflitto come radice della politica e per neutralizzare la potenza destabilizzatrice di ogni denuncia della falsità degli universali del diritto e della middle class come classe omogenea.

La spoliticizzazione contemporanea è ancora più radicale perché trasferita sul terreno dell'economia. Il modo in cui quest'ultima funziona, risultato di una specifica configurazione storica dei rapporti di classe, viene accettato come stato oggettivo delle cose; terreno per un riformismo attento a dimostrarsi affidabile e «di governo». Il riflesso speculare del rifiuto di vedere quanto lo sfruttamento alimenti i circuiti del capitalismo globale, incrosti di ferro arrugginito le velocissime information highways di silicio delle quali anche qualcuno a noi vicino ha frettolosamente celebrato l'apologia, è la strutturale rimozione del conflitto sul terreno politico.

Il soggetto liberal postmoderno si autorappresenta necessariamente come tollerante, perché assume il proprio punto di vista non come un punto di vista parziale, quale lo svelano le figure dell'esclusione che esso respinge ai propri margini (il migrante, l'operaio, o il soggetto che entrambi oggi li ricomprende, il lavoratore flessibile e privo di diritti liberato dalla scomposizione degli schemi della cittadinanza fordista), ma come l'universale concreto indefinitamente capace di inclusione in quanto effetto dell'oltrepassamento della lotta di classe. Nella sua prospettiva, le lotte ancora possibili sono lotte per il riconoscimento all'interno di un quadro di cui non possono essere contestate legalità e vigenza. La tolleranza per il diverso è il modo attraverso il quale l'universale ideologico costruisce la propria legittimità. Culture differenti e differenti stili di vita possono essere tollerati ed accolti, nel colloso presente buonista della fine liberal della storia, perché assunti come di fatto non contraddittori con il funzionamento e la riproduzione di un universale della legge che coincide con la legge del valore. E' questo, al fondo, ciò che fa della tolleranza il «valore».

Ciò che la tolleranza implica è non soltanto la tollerabilità del dominio, ma la celebrazione stessa, e la progressività, dell'ordine del discorso capace di accogliere dentro di sé tutte le differenze, neutralizzando di queste ultime gli aspetti sovversivi, riconoscendo la legittimità delle aspettative di ciascuna di esse e dimostrandone la compatibilità con il sistema di rapporti di cui esso produce l'universalità e il perfetto formalismo.

Di fronte a questo stato delle cose, riprendendo con Zizek Rancière e Balibar, si tratta di pensare a una sospensione «di sinistra» dello spazio di neutralità della legge. Di denunciare di quest'ultima, a partire dall'atto di soggettivazione democratica che si produce nella presa di parola dello sfruttato e dell'escluso, la parzialità e l'impossibile saturazione. L'universale della tolleranza è un universale finto, ideologico. Che agisce da schermo rispetto alla materialità e alla violenza dei processi di esclusione sui quali crescono e si riproducono assoggettamento e dominio. Occorre tornare a essere intolleranti, probabilmente. Accettare il crudo dato di fatto che la politica è conflitto. Uscire dal talk show permanente e dalla coazione al reciproco riconoscimento per cui tutte le opinioni e tutte le posizioni diventano legittime. Perché l'universale non è il prodotto della loro indifferenza di fondo, ma il prodotto della ristrutturazione globale dello spazio sociale che muove dalla presa di parola di chi non ha voce.

Il manifesto-11 MARZO 2003



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