Canto libero - come controllare la musica e decidere quali brani si possono intonare in pubblico e quali no
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Canto libero


In un libro e in un cd la censura del nuovo millennio nel mondo islamico (e non solo), ovvero come controllare la musica e decidere quali brani si possono intonare in pubblico e quali no


di Farian Sabahi


The Veiled Prophet of Khorassan


Strumenti musicali dei palestinesi di Ramallah sono stati distrutti nel marzo e aprile del 2002, durante l’operazione Defence Shield: a causa del coprifuoco i palestinesi dei Territori occupati non possono più celebrare i giorni di festa. Nello Stato d’Israele, invece, la comunità ebraica non subisce – almeno in apparenza – alcuna censura musicale: «Siamo liberi come uccelli, possiamo cantare ciò che vogliamo», scrive Noam Ben-Zeev, giornalista del quotidiano Haaretz e docente di Storia della musica all’Università di Haifa.


L’apparenza inganna e in Israele chi viola le regole è punito severamente. Nel marzo 2002 la cantante Yafa Yarkoni, conosciuta dal pubblico israeliano per aver tenuto alto il morale dei soldati al fronte per oltre mezzo secolo, dichiarò che le immagini dell’operazione Defence Shield – palestinesi bendati, case distrutte dai bulldozer mentre i loro proprietari erano ancora a letto, l’abuso dei posti di blocco – le ricordavano l’Olocausto. La reazione dei mezzi di comunicazione e dell’opinione pubblica israeliana fu immediata, osserva Noam Ben-Zeev. La cantante fu presto messa all’indice, nonostante il passato glorioso. Cancellati tutti i concerti, persino quello organizzato dall’Unione degli artisti israeliani. Fu minacciata e obbligata ad assoldare delle guardie del corpo. I giornalisti erano furiosi. Da oltre due anni le radio non mandano in onda i brani musicali di Yafa Yarkoni. Seppur non imposta dalle autorità, anche questa è censura.
Il saggio del giornalista israeliano fa parte dell’interessante volume Shoot the singer: music censorship today, pubblicato dall’editore londinese Zed Books (www.zedbooks.co.uk), e curato da Marie Korpe, la giornalista svedese direttrice dell’associazione Freemuse (Freedom of musical expression). Dopo un’articolata introduzione in cui ci si sofferma sulla definizione di censura musicale, sul suo rapporto con il potere e, in particolare, sul Corano e sulla tradizione musulmana, il libro si divide in cinque sezioni. Ventitré saggi scritti da musicisti, docenti universitari e giornalisti, dedicati alla censura in Asia, Africa, Medio Oriente, America (e in particolare negli Stati Uniti dopo l’11 settembre) ed Europa. Il legame tra il potere politico e l’influenza esercitata dalla musica è fondamentale per comprendere le ragioni della censura. Nella sezione dedicata all’Asia, per esempio, gli autori si soffermano sull’Afghanistan prima e dopo i talebani, sulla strumentalizzazione della musica nella Corea del Nord per rendere omaggio al leader, sulla musica sotto assedio in Birmania e sull’esilio del musicista e poeta Kurash Sultan, appartenente alla minoranza musulmana degli uiguri nella Cina occidentale.



Dalla Repubblica islamica dell’Iran, Ameneh Youssefzadeh mostra l’evoluzione di questi venticinque anni e il divario tra ciò che è ufficialmente proibito e quello che è, in realtà, permesso. Nonostante i divieti imposti dall’Ayatollah Khomeini, le donne continuano a cantare sia in privato, sia nei cori, sia come soliste, ovviamente munite dell’indispensabile permesso del ministero per la Cultura e la guida islamica.
Il libro è accompagnato da un cd con una decina di brani censurati. Il primo è un tarana, tipico canto dei talebani. È opera di un artista sconosciuto, registrato su cassetta nel 1998 e ispirato a una canzone popolare pashtun. Le parole fanno riferimento alla prontezza dei talebani nel sacrificarsi per il loro Paese. Il brano non è accompagnato da strumenti musicali, ed è quindi un ottimo esempio dell’unico genere permesso in Afghanistan alla fine degli anni Novanta.
Anche il secondo brano viene dall’Asia: Kurash Sultan, originario del Turkestan orientale (Cina occidentale) dove gli uiguri lottano per preservare le loro tradizioni, canta Atlan Dok, vale a dire la libertà del suo Paese. Un brano scritto in cella, dove è stato torturato dalle autorità del Kyrgyzstan, dove si era rifugiato e da cui contrabbandava cassette con brani sull’identità culturale degli uiguri. Oggi le sue canzoni sono vietate in Cina e Kurash Sultan vive in esilio in Svezia, dove canta nel gruppo Ale Möller Band.


Un altro brano struggente è Oh Padre mio, sono Giuseppe cantato dal libanese Marcel Khalife su un testo del poeta Mahmoud Darwish. Contenuti nel cd Arabic Coffeepot pubblicato nel 1995, questi sono versi intensi, ispirati alla storia di Giuseppe nel Corano e quindi animati da molta spiritualità. Alcuni giuristi sunniti hanno però osservato come cantare versetti coranici sia assolutamente vietato e hanno perciò accusato Marcel Khalife di essere blasfemo, un’accusa da cui il cantante è stato in seguito assolto. A dimostrazione del fatto che la censura deve essere sfidata  e combattuta.


http://www.diario.it/index.php?page=cn04100854



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