Sono ormai nove anni che il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, leader dell’opposizione birmana, è detenuta nel suo Paese. Da ormai sette mesi a nessuno è permesso vederla, e per questo si teme per la sua sicurezza. La dittatura militare ha scelto di ignorare gli appelli delle Nazioni Unite e della comunità internazionale che chiedono la liberazione di questa donna di pace. Sarebbe bello se le energie e gli sforzi profusi per i costruttori di pace fossero pari a quelli fatti per appoggiare un conflitto; se i governi che si dichiarano contrari alla guerra appoggiassero davvero chi lotta per la pace, e se coloro che considerano la guerra l’«ultima opzione» lo dimostrassero nei fatti, schierandosi a favore di chi si batte per trovare soluzioni non violente. Dove finiscono tutti i grandi uomini di stato e i visionari del nostro tempo quando si parla della lotta non violenta di Suu Kyi? I discorsi di protesta contro la sua detenzione pronunciati dai leader del mondo suonano vuoti, perché non si traducono in azioni concrete.
Le opinioni sulla guerra in Iraq sono diverse, e continuano a dividere il mondo. Ci si domanda se la diplomazia avesse davvero esaurito le sue opzioni, se la decisione di attaccare fosse giustificabile da un punto di vista legale e se i veri obiettivi della guerra ci sono stati rivelati.
Non vorrei approfondire adesso questi argomenti: ma tutti i governi, pur pensandola in modo diverso, sono messi alla prova dalla situazione in Birmania. C’è da chiedersi se i governi dei due schieramenti siano sinceramente impegnati a mettere fine alle dittature oppressive e a usare tutti i mezzi non militari a disposizione per farlo. Per il Myanmar, la risposta per adesso è tragicamente negativa.
Suu Kyi e il Myanmar non hanno chiesto che il Paese venga invaso da una coalizione militare; vogliono semplicemente che sia fatta pressione in ambito diplomatico ed economico contro i brutali dittatori birmani. Suu Kyi e il suo partito, la Lega nazionale per la democrazia, hanno ottenuto l’82 per cento dei seggi alle elezioni del 1990; i generali al potere, però, si rifiutano di rispettare la volontà della nazione.
Il loro è un governo brutale - ci sono 1300 prigionieri politici e più bambini soldato di qualsiasi altro paese sulla terra, la spesa sanitaria è la più bassa al mondo e gli stupri sono usati come arma di guerra.
L’organizzazione internazionale del lavoro (Oil) ha definito l’uso sistematico di lavoro forzato da parte del regime «un crimine contro l’umanità». La reazione internazionale di fronte a tanta brutalità è stata molto debole, al punto che i generali birmani possono sentire nell’aria l’odore dell’inerzia. Hanno capito che possono continuare a farla franca nonostante il loro atteggiamento.
Questo venerdì avrà inizio il vertice Europa-Asia in Vietnam. Ad Hanoi i terroristi di stato del Myanmar si siederanno e ceneranno con i leader che parlano di guerra contro il terrore in televisione e sui giornali. Alla fin fine la «coalizione dei volenterosi» e quella dei «non volenterosi» dovranno dimostrare che è possibile fare qualcosa di concreto per il Myanmar. I «volenterosi» dovranno usare i mezzi non militari a loro disposizione per ottenere giustizia, quelli «non volenterosi» dovranno dimostrare di essere determinati ad affrontare una dittatura come quella del Myanmar, e di non essere tolleranti nei confronti delle tirannie.
Se vi siete opposti alla guerra in Iraq, chiedete al vostro governo che cosa sta facendo per appoggiare la lotta pacifica del Myanmar contro la dittatura che lo opprime. Chi ha lodato il proprio Paese per essersi schierato contro la guerra in Iraq chieda adesso al proprio governo che cosa sta facendo per trasformare il Myanmar in uno splendido esempio dell’efficacia delle alternative alla guerra.
Oggi i governi che la pensano in modi diversi sulla questione irachena non danno nessun segno di voler prendere iniziative né di voler esercitare una seria pressione contro la dittatura che opprime il Myanmar.
Il Myanmar, l’Asia e l mondo intero hanno una enorme opportunità da cogliere: una leader carismatica, determinata a guidare il suo movimento e il suo popolo sulla strada della pace, del rispetto e della dignità umana. Così come Nelson Mandela non appartiene più solo ai sudafricani, credo che nel futuro Suu Kyi sarà un faro per l’Asia e per il mondo.
Alla fine a vincere sarà il popolo birmano. I sistemi e i governi non sono eterni, ma lo spirito di libertà sì. Dobbiamo domandarci da che parte stiamo; non possiamo rimanere neutrali in questa situazione terribile. Martin Luther King diceva che alla fine non ricorderemo le parole dei nostri nemici, ma il silenzio dei nostri amici. Per chi ha conosciuto da vicino l’oppressione è l’inerzia l’atteggiamento che causa maggiore dolore.
* Desmond Tutu ha ricevuto il premio Nobel per la pace mel 1984
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Herald Tribune
(traduzione di Sara Bani)
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