Lo stesso nome, lo stesso bisogno primario
di Lidia Ravera
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Hanno liberato la Pace
di Lidia Ravera



Lo stesso nome: Simona. La stessa età: ventinove anni. La stessa professione: operatrice umanitaria. La stessa passione: aiutare gli altri. Lo stesso bisogno primario, che poi, per la maggior parte della gente, diventa secondario oppure, più spesso, scompare: che la vita abbia un senso, che ci sia un motivo, una necessità, per alzarsi dal letto al mattino, per camminare, mangiare, parlare, tornare a dormire, e poi alzarsi di nuovo. Loro l’hanno trovato, questo senso. Basta guardarle, nelle molte immagini filmate che ci hanno mostrato in questi lunghissimi ventun giorni di attesa. Una Simona scarta pacchi di libri illustrati, l’altra organizza un girotondo (di quelli veri, con i bambini piccoli), una parla con le donne, l’altra si china su un letto d’ospedale. Basta guardarle: belle come sono belle le ragazze a cui non importa un fico secco di essere belle. Diverse: una con il viso pieno e occhi verdi grandissimi, carichi di stupore.


L’altra con il viso più sottile e i capelli lunghi e uno sguardo nero, intenso, che potrebbe essere di una donna araba. Simile il sorriso: fiducioso e sereno come è soltanto il sorriso di chi crede che sia ancora possibile mettere ordine in questo porcile insanguinato. Non lo è. Non è possibile dedicarsi agli esseri umani uno per uno, non si può tendere la mano a un orfano, alleviare una solitudine, accogliere chi è senza casa, dare ascolto a una disperazione, salvare una biblioteca mentre piovono bombe. Non si può. Non è possibile. E il necessario, precipitoso ritirarsi degli operatori di tante organizzazioni umanitarie l’ha confermato.


Anche per questo, non soltanto per il terrore indecifrabile di questi tempi e di quei luoghi, anche per questo abbiamo avuto, in certi momenti, quasi la certezza di perderle, le due Simone. E abbiamo provato un’angoscia diversa, più intima, più personale di quella con cui abbiamo seguito le vicende di tutti gli altri ostaggi.


Uccidere Simona Pari e Simona Torretta, sarebbe stato simbolicamente insopportabile perché, immediatamente, le abbiamo caricate del peso del loro progetto: la consapevole, volontaria, ingenuità di mettere in pratica una vita da buoni. Un impulso che Vittorio Feltri, come ha scritto, avrebbe represso a schiaffoni, fossero state, per loro disgrazia, figlie sue. Simona Pari, Simona Torretta. Una laurea in filosofia, una scuola d’arte: martiri laiche di un fanatismo ammantato di formule religiose. L’assenza di notizie sulla loro sorte è stata compensata, in questi giorni terribili, da un fluire ininterrotto e stranamente copioso di immagini della loro vita e del loro lavoro. Ci incalzavano, sorridenti, dai teleschermi. Ormai le conosciamo bene: una Simona parla, seria a un interlocutore invisibile, l’altra risponde al telefono. Le abbiamo guardate con apprensione, con tenerezza, sedute ciascuna alla sua scrivania, il computer portatile aperto sul tavolino laterale: due bambine intente a qualcosa di grande e di infantile insieme. Lavorare sul suolo imbrattato da una guerra infame, come se fosse terra neutra, luogo praticabile, strada pubblica, sgombra, da percorrere a piedi, disarmate, camminando in fretta sotto il peso della propria buona volontà, del proprio desiderio di fare. Le immagini passano e ripassano, passano e ripassano le loro corte biografie, ci vengono mostrati infinite volte i loro cognomi sul citofono dei palazzi dove, giustamente, tacciono i loro genitori. Ci vengono mostrati i loro visi familiari fotografati, incollati sui cartelli nelle manifestazioni di solidarietà, di protesta, tenuti stretti dalle mani di qualche anonimo addolorato che implora la pace. Passano e ripassano, ossessivamente, i video girati nei cortili delle scuole, i giochi, i sorrisi dei bambini. Un clima da merenda sull’orlo del baratro.


Di giorno in giorno, la nostra sofferenza cresce. Ci si scopre a pregare, a contrattare con un Dio in cui non crediamo, ci si scopre a desiderare d’essere al posto di Silvio Berlusconi, e non ci era mai successo, a invidiarlo perché lui poteva, effettivamente, fare qualcosa. Lui potrebbe ritirare le truppe italiane dall’Iraq. Lui potrebbe, lui poteva, lui può. «Non si deve darla vinta ai terroristi». D’accordo: ma anche consentendo ai terroristi di uccidere ancora, li si fa vincere. Non esce vittorioso Blair che non tratta, Berlusconi che non si piega, Bush che non molla. Perdono tutti e tre, perdono, stanno perdendo, hanno già perso. Anche se, per una volta, è bastato il danaro, anche se è stata evitata la tragedia. Forse per un contorto, atavico, rispetto per le donne che il Corano impone e a cui i musulmani obbediscono (fatta eccezione per le adultere, in certi Stati religiosamente lapidate). Forse per l’intercessione dell’ala moderata degli islamici. Forse perché, o almeno ci piace pensare anche a questa ipotesi, le due Simone erano contrarie alla guerra, amavano e aiutavano il popolo iracheno, e allora avrebbe meritato la stessa clemenza anche Enzo Baldoni. Baldoni, Pari, Torretta lavoravano per aiutare le vittime di una guerra che detestavano e disapprovavano. Due ce l’hanno fatta, l’altro no. Guardiamole, le due Simone. Guardiamole mentre si liberano dal cappuccio nero. Guardiamo queste due donne materne che hanno rischiato di non diventare mai madri. Guardiamole in posa i capelli coperti fra altre donne coi capelli coperti, che, anche per la loro umiltà di uniformarsi, si fidano e parlano. Guardiamo queste immagini che raccontano un altro modo di affrontare i problemi del mondo. Imbelle, direbbe Gianfranco Fini. Imbelle, infatti. Ma per noi è un complimento. Guardiamole, ora che possiamo guardarle senza angoscia: vive, belle, allegre e animate da una testarda determinazione a sottrarsi alle regole del rassegnarsi. Guardiamole. E cerchiamo di non dimenticare, che erano lì nonostante la guerra e contro la guerra, contro il mito dell’Occidente sovrano, la sua tracotanza neoliberista, le sue finzioni pedagogiche. Abbracciamole e lottiamo perché l’orrore non colpisca altri uomini, altre donne, altre ragazze, mentre il Grande Esportatore di Democrazia, circondato da cadaveri decapitati, ancora si rifiuta di gettare la spugna.



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