Se l'amore entra nel lessico politico Pratica politica Come fare un passo indietro per fare posto all'altro
CLARA JOURDAN*
Pensare una politica dell'amore. È un'esigenza emersa al recente convegno di Sydney sull'influenza del pensiero radicale italiano nell'ultimo decennio, racconta Ida Dominijanni (Sotto il cielo della politica, "il manifesto", 28 settembre). Un'esigenza legata alla «consapevolezza che la potenza espropriante dell'amore è l'unica in grado di opporsi alla potenza espropriante della violenza, e di volgere la fragilità e l'esposizione delle nostre 'vite precarie', come le definisce Judith Butler, alla relazione con l'altro e non al suo annientamento». Sì, è proprio necessario. Che la fragilità si volga in violenza lo vediamo in continuazione, dai fatti di cronaca di molestatori di bambini che si scopre essere stati bambini molestati, alle enormi tragedie dell'umanità come lo sterminio di un popolo perpetrato da sopravvissuti allo sterminio del proprio popolo. A riprova, nella pagina a fianco dello stesso giornale del 28/9, un articolo di Manuela Cartosio sull'enigma terribile dei genocidi, a partire dalle interviste che l'inviato di Libération Jean Hatzfeld ha fatto a dieci contadini hutu esecutori della carneficina della popolazione tutsi in Ruanda nel 1994. Ma come pensare una politica dell'amore? Ci sono state nella storia significative indicazioni in questo senso: «ama il prossimo tuo come te stesso», «ama e fa' quel che vuoi», «fate l'amore, non la guerra»... Più recentemente, nel femminismo della differenza si è parlato dell'amore, e in particolare dell'amore femminile della madre, come pratica politica. Amore, in effetti, può essere un altro nome della relazione in cui consiste la politica delle donne che ha così tanto cambiato la condizione femminile nel Novecento da essere considerata una vera e propria rivoluzione. Che cosa manca allora? Certamente manca una politica dell'amore tra gli uomini, a cui però da donna non mi sento di dare un contributo. Ma manca anche una politica dell'amore nei e dei rapporti tra i sessi. Adriana Sbrogiò e l'associazione «Identità e differenza» di Spinea promuovono ogni anno un seminario di scambio tra donne e uomini sulla politica, che però resta un caso raro. Io per prima, lo ammetto, pur ammirando le donne che riescono a stabilire relazioni politiche con uomini, mi sono tenuta fuori da questa pratica, perché la percepivo (magari sbagliando) come mossa da amore materno per gli uomini, che io non sento. Ora mi rendo conto che può esserci altro. Nell'ultimo numero della rivista Via Dogana (settembre 2004), Lia Cigarini, a proposito dell'introduzione dell'amore nel lessico della politica, scrive: «Credo che sia il modo di toccare (o rianimare, direbbe qualcuna) il desiderio maschile di uscire dalla corazza che lo imprigiona e dalle sue pulsioni distruttive nei confronti delle donne. Se la differenza sessuale è il cuore della libido e del desiderio, come penso, ci potrebbe essere un interesse maschile affinché sia viva».
Ritornando alla fragilità che diventa distruzione, bisogna dire che la fragilità di cui si parla è in realtà fragilità maschile. Non va dato per scontato, né va negato dicendo che ci sono donne autrici di violenze efferate: è vero, ma è innegabile che la fragilità delle donne si esprime più spesso nel ripetere la soggezione alla violenza. Credo che un passaggio che può aprire alla potenza espropriante dell'amore in politica, sia il dare senso alle fragilità maschili e alle fragilità femminili, che vuol dire sì prendere atto che c'è differenza, ma anche lasciarle parlare davvero, le differenze.
Un esempio. Mi è capitato anni fa di ascoltare un uomo dire la sua dipendenza, e la dipendenza degli uomini, dalle donne: «Da una donna nasciamo; una donna, per lo più, desideriamo costantemente; una donna deciderà del nostro essere padri» (Alberto Leiss, Via Dogana n. 21/22, 1995). Questa consapevolezza di un uomo ha permesso a me, donna, di sentire un di più maschile, dato dalla grandezza del bisogno. E questo ha modificato il mio sentimento di fastidio verso la fragilità maschile, una fragilità che di solito mi si manifestava solo come suscettibilità infantile. Mi ha dato fiducia: riconoscere di dipendere dall'altra è già un vivere la fragilità in termini di relazione e non di annientamento. E porta a una relazione non come uguali ma come differenti. Anche in politica, come si può vedere oggi in diversi interventi maschili pubblicati nei siti internet DeA (www.donnealtri.it) e Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it).
Quanto alla fragilità femminile, si può dire sia già orientata alla relazione con l'altro/altra a causa del corpo femminile stesso: un corpo che ha «la capacità di essere due», dice la storica María Milagros Rivera Garretas. Non solo nella maternità: una figura estrema del primato femminile della relazione è secondo Rivera Garretas proprio la donna maltrattata, che rischia la vita pur di non rompere il legame. È forse discutibile, ma a me ha fatto capire qualcosa di importante della mia fragilità, una fragilità molto comune tra le donne anche quando non si arriva a quella situazione estrema. Non si tratta di approvare tale comportamento femminile, ma di dargli un senso, inquietante ma non scontato come quello della «mancanza di autostima», con cui spesso si offende la dignità della vittima delle violenze domestiche.
Nel primato della relazione si può vedere dunque una fragilità femminile, intesa come esposizione alle conseguenze della relazione stessa. Anche Cigarini nomina la fragilità, ma a proposito della sua pratica politica. Sente la necessità di un'esposizione di sé «in momenti e luoghi lontani dall'epicentro della mia attività. Certo, con il rischio di esporre agli occhi di tutti la fragilità della mia pratica di relazione. Ma qui si tratta di rendere viva la differenza femminile, non di custodirla con arte».
Che cosa è che rende fragile la pratica di relazione? Il fatto che non si sostiene con i soldi, le leggi, l'organizzazione, i posti di potere? Sì, la fragilità dipende dal fatto che è appunto una politica che esiste solo nella relazione. In altre parole: se sono state le relazioni tra donne ciò che ha portato a quell'enorme cambiamento della condizione sociale femminile che abbiamo nominato come fine del patriarcato, è la mancanza di relazioni nuove tra uomini e donne ciò che impedisce un altro cambio di civiltà, come potrebbe essere la fine della guerra e dell'idea che la guerra sia necessaria. Non possiamo fare tutto noi donne.
Ma a volte si presentano occasioni sintomatiche di un cambiamento già in atto. La scorsa estate (25 luglio) la pagina milanese del manifesto ha ospitato una lettera di Anna Leoni, professoressa del liceo Agnesi di Milano, che spiegava perché lei e le sue colleghe e colleghi avessero accettato la proposta di fare una classe omogenea di ragazze e ragazzi provenienti da una scuola islamica: «Abbiamo votato sì perché abbiamo interpretato questa disponibilità della comunità di via Quaranta come un grosso passo avanti, probabilmente molto sofferto, che meritava un nostro passo indietro». Alla fine la classe non si è fatta, hanno vinto le reazioni contrarie - xenofobe da una parte, laiciste dall'altra - scatenate dai giornali. Fragilità della pratica di relazione. Ma resta quell'indicazione del passo indietro. È così che inizia la mediazione: un passo indietro rispetto alle proprie idee, tradizioni, esperienze, per fare posto all'altro. Può essere così che inizia una politica dell'amore?
*Libreria delle donne di Milano http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/21-Ottobre-2004/art78.html
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