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Le periferie sono più che la degradazione della città: è la città che scompare inghiottita dalle periferie. Tempo spazializzato o fine della storia. In una società tendenzialmente "protensiva", il tempo spazializzato segna il dominio del "privato": privilegia il dato fisico sul dato morale, la costrizione sulla libertà, i rapporti rigidi ed inclusivi sui rapporti dinamici e aperti. Con la pretesa di favorire le relazioni a livello di società, predispone di fatto le condizioni della cosiddetta "incomunicabilità psicologica".
L'uomo, l'epoca dell'uomo, si avvia al tramonto. Giovanni Michelucci - 1974


Lingua: Italiana
Destinatari: Alunni scuola media superiore, Formazione post diploma, Formazione permanente
Tipologia: Documentazione

Abstract:
Michelucci sulla linguistica architettonica
di Giovanni Michelucci - Zevi
Giovanni Michelucci. Testo tratto integralmente da L'architettura, cronache e storia n°227 del settembre 1974

L’a n°227 settembre 1974
Prima parte, in collaborazione con Agostino Palazzo (sociologo)

1-Una occasione recente, e precisamente un dibattito televisivo su temi che "il linguaggio moderno dell'architettura" ha riproposto in tutta la loro drammaticità, ci ha spinti a ripercorrere -con riferimento a quei temi- un disorso che, in forma non solo privata, andiamo svolgendo da qualche tempo. Ci limiteremo qui a fermare alcuni punti: sulla distinzione tra il "classicismo" e il "moderno", e sul ruolo della progettazione architettonica del nostro tempo.
L'architettura è morta, si sente ripetere: le sue tensioni creative si sono spente e la ricerca di nuove misure che alimentino la sensibilità e il comportamento progettuale oscilla tra pretese irrealizzabili, utopie impossibili e arbitri devastatori.. Intanto è in discussione l'identità dell'architetto: chi è, cosa fa e come? L'architetto divene altro: economista, antropologo, sociologo, politico, perfino psicologo, biologo, ecologo. E cessa di essere se stesso, rinuncia a un suo specifico linguaggio, o a un linguaggio che abbia proprie forme epressive.
Legare queste "forme" alle "funzioni" come si è tentato di fare nella prima metà di questo secolo [XX secolo] significa impoverirle, umiliarle, impoverire e umiliare l'architettura: quindi negarla. La conseguenza visibile, dolorosa, è il deperimento dell'oggetto architettonico e, più in là, la perdita del senso della città che è poi il senso dello spazio vivente. La dipendenza quasi causale dalle "funzioni" è apparsa dispersiva, inconcludente. Si risolve nella esaltazione del momento analitico, il quale diviene fatalmente disgregante, incoerente, caotico.
Se non prevale il senso della città e perciò il momento della sintesi come ricerca e tensione globalizzante, viene meno l'idea di architettura come linguaggio, come comunicazione. I singoli oggetti architettonici se sono, come sono, gli elementi del linguaggio, i mezzi della comunicazione, implicano sistemi di significati che richiamano l'idea e l'esperienza della totalità.
E qui si affaccia una distinzione: tra il pensare e l'agire architettonico e il pensare e l'agire urbanistico. Una distinzione che volta a volta è o può essere di metodo, di prospettiva, di contenuto. Una distinzione, quindi, tra dati e modalità eterogenei e perciò, in definitiva, imprecisabile.
Il cosiddetto movimento moderno solo apparentemente ha operato il raccordo, l'incontro, o, se si preferisce, l'integrazione. In realtà ha optato per l'urbanistica; ma rinunciando all'architettura per l'urbanistica ha finito con l'ucciderle entrambe. Divenendo urbanistica, ossia pretesa di totalità, disegno della città, ha tracciato tale disegno con strumenti tecnici e concettuali, non architettonici: ma politici, economici, sociologici e così via.
Si deve dire piuttosto che il pensare e l'agire urbanistico è un pensare e un agire secondo certe forme; che tali forme non sono mutuabili da ambiti diversi; e che esse si identificano nelle "forme espressive" che sono proprie dell'architettura. E allora: i metodi, le prospettive, i contenuti dell'urbanistica sono gli stessi dell'architettura. E non si può dire neppure che l'urbanistica si esercita sul territorio, che essa disciplina e organizza, mentre l'architettura si esercita su elementi e rapporti particolari che si iscrivono nel territorio: perché il territorio, ossia lo spazio dell'urbanistica, è lo stesso spazio dell'architettura, in quanto l'architettura attinge via via attraverso i suoi prodotti e il mutevole reticolo dei rapporti tra i suoi prodotti, ulteriori livelli di sintesi -dal di dentro dunque e non dal di fuori- e perciò concorre alla "costruzione" dell'immagine della città e dello spazio vivente.
Da ciò discende un altro limite dell'urbanistica, che non può essere intesa ormai più come un pensare e un agire riferito alla città se l'idea stessa di città è in discussione, se siamo costretti a chiederci ogni volta di quale città si tratta, se insomma le stesse modalità qualitative della realtà urbana come eravamo abituati a intenderla e a viverla, sono coinvolte da processi trasformativi radicali che ne alterano la identità.
La "città" che per essere definita abbisogna di caratterizzazioni quali appunto "città-regione", "città-territorio" o che altro, è già una realtà diversa che invano si cercherà di comprendere usando criteri d'identificazione valsi per il passato.
Così l'urbanistica o va oltre l' "urbano" o estende l' "urbano" oltre i limiti della città, fino a comprendere tutto il territorio vivente e vivibile. In tal modo la stessa idea di "comunicazione" acquista nuove, imprevedibili, valenze: crescono le distanze tra gli attori e muta fatalmente la qualità del rapporto. La comunità si dilata fino a divenire la più ampia società: ma le due strutture, della comunità e della società, della città e della regione o come altro si voglia dire, sono incomparabili, eterogenee. Il mutamento di scala modifica lo sfondo da cui emerge, come si dice con termine ambiguo, l' "effetto città", sviluppa un ordine diverso di significati spaziali che noi oggi ci sforziamo di cogliere e tradurre in forme.

2. Tutto ciò ripropone il problema dell'identità dell'architetto e del senso dell'architettura. E l'attenzione cade subito sui valori potenziali dello spazio e dei rapporti spaziali, valori che vanno esplicitati, tradotti in atto, sperimentati. Bisogna anzitutto liberarsi dalla dicotomia tra pubblico e privato: non mediando tra i due, o tentando di comporli e integrarli o fonderli, come che sia: ma andando oltre, cercando modi di organizzazione e di fruizione dello spazio non riconducibili all'una o all'altra categoria o a entrambe. Le sterminate, caotiche, anonime periferie solo in termini di spazio fisico segnano l'espandersi gigantesco delle città: in termini di spazio etico sono definitivamente la necropoli, il rifiuto della città.
Qui è -anche se le misure sono o possono essere istituzionalmente di ordine pubblico- il "privato": come risposta ai bisogni emergenti di masse che vengono segregate e perciò urbanisticamente privatizzate: ...deprivate della città vera...del senso della città...che invano cercheranno altrove: un altrove fisico e un altrove morale.
Un "altrove" che si chiamerà, ad esempio, "centro storico", il quale risulterà con ciò snaturato e, a sua volta, anch'esso deprivato del suo senso intrinseco, originale.
Le masse non sono il "mondo", ma l'esclusione dal mondo. Perché il mondo, ancora una volta, non è un dato fisico, ma morale: è tensione ideale, "trascendimento senza trascendenza", come direbbe Bloch. Le masse allora sono "mondo" quando diventano popolo, ossia partecipazione, consapevolezza, capacità di scelta.
Le periferie sono più che la degradazione della città: è la città che scompare inghiottita dalle periferie. Tempo spazializzato o fine della storia. In una società tendenzialmente "protensiva", il tempo spazializzato segna il dominio del "privato": privilegia il dato fisico sul dato morale, la costrizione sulla libertà, i rapporti rigidi ed inclusivi sui rapporti dinamici e aperti. Con la pretesa di favorire le relazioni a livello di società, predispone di fatto le condizioni della cosiddetta "incomunicabilità psicologica".
L'uomo, l'epoca dell'uomo, si avvia al tramonto.
Chi è l'architetto oggi? Quali i compiti dell'architettura? Il "tempo spazializzato" va rovesciato. Questo è il senso della rivoluzione architettonica: "temporalizzare lo spazio" : che è come dire restituire all'uomo la sua dimensione autentica, la sua originaria creatività.
In qual modo? Con quali criteri? E sono possibili criteri? Sono possibili parametri o, per tornare a una lettura recente, fortemente stimolante e suggestiva, "invarianti"?
Cerchiamo un esempio fuori della città, un esempio innocente (?).
Fuori della città, nella campagna aperta, senza mura è la casa colonica. Qual è il senso architettonico, se sivuole attribuire un senso, della casa colonica? La casa colonica non è, o non è soltanto, un oggetto architettonico collocato in un mondo diverso da quello della città, e rispondente alle esigenze di vita del "suo" mondo. E'di più ed è altro. E'architettonicamente la forza espressiva della realtà rurale come fatto esistenziale totale.
E allora se diciamo che l'architettura ha, deve avere, forme espressive proprie, intendiamo -o dobbiamo potere intendere- che l'espressività concerne, certo, quel modo di pensare e di progettare, e perciò di parlare, che è proprio dell'architettura, ma con l'avvertenza che l'architettura se parla, come infatti parla, parla a qualcuno o a qualcosa -agli uomini, alla città degli uomini; e parlando comunica, deve potere comunicare contenuti che siano intellettualmente ed emotivamente recepibili come tali, e perciò praticamente plausibili; cioè in una parola vivibili.
E le periferie non sono, non posssono essee linguaggio, perché esse non parlano. Distruggono.

3. Se il "classicismo" può essere ricondotto a uno stile, a un ordine, a un insieme di stili e di ordini, che si succedono nel tempo e coesistono nello spazio, il "moderno" sarà inteso come ricerca: di nuovi stili, di nuovi ordini. Finchè dura la ricerca sarà il "moderno"; via via che la ricerca conduce a nuove forme (stili, ordini) e le forme si consolidano, si fissano e diventano paradigmatiche, è di nuovo il "classico"; mentre il "moderno" si propone o ripropone ancora e sempre allo stato di tensione.

Vi è tuttavia -non può non esserci- un "moderno" vissuto: ma finchè dura, il "moderno" è il presente come contemporaneità, è il presente degli atteggiamenti, degli interessi, delle azioni: modalità qualitative in atto della sensibilità. Il problema del moderno vissuto è un tutt'uno con il problema della durata del presente -quando il riferimento è alle forme dello spazio vivente- è un dato di cultura, riflette i diversi modi in cui l'uomo nel tempo si pone di fronte a se stesso e al mondo. Il presente -in una società "protensiva", tutta volta al futuro, attraversata da un'ansia diffusa di mutamento- si contrae fino a divenire puntiforme. L'effimero diventa paradossalmente un dato strutturale e perciò mutano alle radici le condizioni in cui è possibile l'esercizio della libertà intesa come evento globale. Così la ricerca di nuove forme espressive a livello architettonico è, o deve essere, un continuo atto liberatorio da tutti i limiti posti da quelle modalità d'uso dello spazio che privilegiano l'avere e il potere sull'essere e il divenire, il movimento guidato eterodiretto sul movimento spontaneo, i rapporti rigidi e preordinati sui raporti flesssibili e innovativi.
Ora, il "moderno", se e finchè è ricerca costante di nuovi moduli, non può identificarsi in nessuno di essi, giacchè il senso della ricerca è nello sperimentare incessantemente nuove alternative, nel rifiutare volta a volta ciò che contribuisce a "fermare" nel tempo un processo in corso. La qualità del "moderno" è nella sua "variabilità", e tutto il problema è di evitare che il variabile diventi arbitrario e che l'arbitrario finisca col riflettere interessi di singoli e di gruppi che fruirebbero del nuovo ordine della libertà per imporre -alla comunità, alla città, al territorio- volontà particolari. Ma quando l'attenzione cade sul "moderno" con l'intendimento di segnare i confini che lo separano dal classicismo, occorre innanzitutto chiedersi se la rottura tra il classicismo e il moderno, come viene oggi invocata per avviare o proseguire l'opera di liberazione dell'uomo, non corrisponda a quella "logica del mutamento" che attraversa per intero la storia, rendendo ragione ogni volta del passaggio da un'epoca a un'altra e del conseguente succedersi di diverse forme espressive in sede architettonica. Se la risposta è positiva, e per quel tanto che lo è, si dovrà parlare di una sorta di processo dialettico grazie al quale uno stile o un ordine architettonico, nell'atto stesso in cui emerge e si costituisce, contiene già in se gli elementi del suo superamento, del suo divenir "altro". I motivi per i quali ciò accade, quando accade, vanno cercati al di là dell'ambito che è proprio del pensare e dell'agire architettonico: perché il pensare e l'agire architettonico sono sempre il riflesso di un modo di pensare e di agire generalizzato in cui si esprime e si riconosce la collettività nel suo insieme.
Di qui l'insistita istanza di "coralità" nella costruzione della città, nell'invenzione di moduli spaziali in grado di rispettare, e garantire, la misura dell'uomo. Quando questa istanza è disattesa, la creatività collettiva di cui l'architetto è o deve essere interprete o, se grande architetto, anticipatore, diviene costrizione: la spontaneità si spegne e alla libertà espressiva si oppongono le manovre del potere che dilatano oltre ogni limite lo spazio del "privato", che è anche lo spazio delle divisioni, delle segregazioni, delle chiusure.
Ora, questo processo creativo può sopportare l'uso di "invarianti", e, se sì, in che senso?
Non c'è il rischio che le "invarianti", in quanto categorie che costituiscono il "basic language" dell'architettura moderna orientino la ricerca in direzioni volute e preordinate (volute e preordinate da chi e a quali fini, bisognerebbe intano chiedersi)?
Un esempio: la "asimmetria" in luogo della "simmetria".
La simmetria si richiama a un codice dominato dalla "geometria". E la geometria è l' "invariante del potere dittatoriale"; in più, col pretesto di garantire la sicurezza e la stabilità, mortifica l'iniziativa, inibisce la spontaneità, riduce il movimento in moduli innaturali. Finchè l'asimmetria mette a nudo le contraddizioni (sociali, politiche, culturali) che si nascondono dietro la facciata del geometrismo identifica un atto liberatorio. Ma quando dal negativo (libertà da) si passa al positivo (libertà di), dal rifiuto critico alla progettazione, non può accadere che anche l'asimmetria si codifichi, si traduca in norme, in modelli ideativi, e operativi che "costringano" di nuovo la realtà, il dato esistenziale, anche se più ricchi, vari, articolati?
Occorrerà rilegger la storia in chiave antropologica:verificare volta a volta il senso di quella fatale ambiguità alla quale mai potrà essere sottratta la nozione di natura umana, in cui il biologico e il culturale si incontrano dando vita a sintesi mutevoli. L'uomo è quale è e quale diviene. Un esempio: l'organizzazione percettiva del mondo. Il mondo è asimmetrico, ma le condizioni strutturali della sua percettibilità sono sottoposte alle leggi della "buona forma": e, tra esse, è la simmetria. Qual è il ruolo della filogenesi nel processo di formazione delle condizioni strutturali del sistema nervoso cerebrale? Eventuali reiterate modificazioni dell'esperienza spaziale a livello di generazioni potranno incidere su tali condizioni? Fino a che punto e in che misura potrà la funzione, per usare un'espressione cara al positivismo di fine secolo, modificare l'organo? Che è come chiedersi: come è in che misura il dato culturale può scatenare meccanismi trasformativi a livello fisiologico?
Sono domande che ci portano molto lontano, ma sono domande-limite, che testimoniano quali responsabilità sono connesse, anche se non in modo implicito e mediato, con la ricerca in corso sui modi di lettura o rilettura e di trattamento dello spazio vivente.


Seconda parte. Appunti di Michelucci.
Poco dopo la seconda guerra mondiale, costruii alcuni edifici che, se furono bene accolti dalla critica, non mi lasciarono soddisfatto. Sul momento non mi fu chiara la ragione di questa insoddisfazione; sentivo solo che rischiavo di seguire una strada senza sbocco. Forse avrei potuto indugiarmi ad affinare, perfezionare le cose già dette, ma nulla di più e, forse, nulla di meglio.
In un tempo non breve, e con fatica, compresi che l'insegnamento che avevo ricevuto nella scuola di architettura mi aveva condizionato, mi aveva messo in testa certi principi, certe "invarianti" da cui non sapevo liberarmi. Anche perché le opere dalle quali quei principi derivavano erano di alto valore architettonico.
E quel condizionamento vanificava ogni possibilità di parlare un linguaggio moderno, perché, in ultima analisi, la scuola mi aveva convinto (altrimenti non l'avrei seguita) che lo studio di un progetto consisteva nel fare di ogni edificio un piccolo grande "monumento" che rispondesse ai canoni classici. Il Garnier era per quella scuola l'architetto moderno per eccellenza, al quale bisognava sempre ricorrere, per capire e fare architettura moderna. Naturalmente al Garnier si arrivava dopo gli esempi antichi, fra i quali il celebratissimo Palazzo Strozzi: questo "mostro" che, indifferente agli infiniti suggerimenti ed ai richiami della struttura cittadina, si è insediato egoisticamente, di prepotenza, nella città, schiacciandola con il suo peso e determinando una soluzione di continuità nel tessuto stradale. Gli "assi", la "simmetria" sono qui esaltati con tale maestria, da costituire un insegnamento difficilmente dimenticabile, che ha influenzato per secoli l'architettura dei palazzi e poi di tutte le banche e di tutti gli Uffici di Assicurazione, particolarmente nella Toscana, nella intelligentissima, colta, sensibile, "tradizionale" Toscana.

Per uscire dalla strada sulla quale mi aveva condotto la scuola, dovevo considerare quello che essa non considerava, la vita, cioè come si muovevano e si comportavano gli uomini, e come mi comportavo io stesso; le reazioni singole e collettive agli avvenimenti, agli ostacoli, alle manifestazioni di varia natura, per poi trarre alcune conclusioni sul rapporto fra tutto questo e la forma urbana.
Fu per me una scoperta, tanto che, essendo in quel tempo Preside della Facoltà di Architettura, proposi, in una riunione di docenti, di aprire la porta della scuola alla popolazione: agli artigiani, ai tecnici, ai commercianti ecc. perché parlassero con gli studenti. Proposi di abolire l'insegnamento della "composizione architettonica" e di dare maggiore rilievo a quello delle materie scientifiche. E ciò per rinnovare l'aria di quella scuola nella quale io stesso avevo studiato e di cui avevo constatato gli effetti negativi; e per offrire agli studenti le occasioni di prendere contatto con la vita.

Ledoux ha presentato l'architetto come un "titano terrestre rivale del creatore". E qui sta il male, perché la presunzione di quel titano ribelle a Dio pesa spesso sulle creature: sugli uomini, cioè su tutti noi, fino ad alienarci. Perché la sfida a Dio è la sfida agli uomini.

Prendere contatto con la vita, guardare all'uomo ed attenersi al suo dettato, non significa registrare la realtà umana così come si pone quotidianamente con i suoi lati positivi e negativi: né significa registrare le sue fattualità puntuali. Significa invece capire lo stato di civiltà, il modo di essere e di sentire dell'uomo, la via del suo destino, per proporre alternative di libertà in una prospettiva che va necessariamente oltre ogni geometrismo e che rifiuta l'assiale, il simmetrico, che costringono l'uomo, non lo liberano.
Considerata la simmetria come un dato del linguaggio classico e l'asimmetria un dato di quello moderno, possiamo affermare però che l'architettura moderna non nasce dall'apparire della prima finestra orizzontale o dalla prima porta asimmetrica, ma da una svolta del pensiero verso la ricerca di una nuova dimensione del vivere, di una misura cioè che liberi l'uomo dalle forme ossessive del potere: misura spesso tanto invocata, quanto puntualmente disattesa.
Un piccolo esempio: il sedile di pietra posto attorno al Palazzo Strozzi, che sembra invitare il cittadino a riposarsi, si risolve invece in un mero fatto decorativo. Privo di senso: quindi antiarchitettonico.

Evidentemente la asimmetria non crea un'opera architettonica moderna. Se gli edifici pubblici e privati, pur asimmetrici, conservano il loro perimetro sbarrato alla città da un cristallo infrangibile, o da un muro; se la città non può penetrare e vivificare gli spazi interni e stabilire una continuità con quelli esterni, l'opera non è moderna. In realtà non è architettura.
La asimmetria, dunque, non è ccome tale né architettura né antiarchitettura: ma è una "condizione" del linguaggio architettonico moderno.

L'uomo è libertà, non costrizione. L'uomo, come qualcuno ha detto, è un animale simbolico. Dunque il suo essere è nel processo di creazione della vita, della sua vita. La creazione è invenzione di nuove forme, di possibilità inedite. Così nulla si oppone di più alla creazione, quanto il geometrismo che è la logica della simmetria.

Si dirà che la simmetria è il linguaggio architettonico classico: è vero e non è vero. In realtà nell'opera d'arte classica non è che trionfi la simmetria: la simmetria è solo una modalità espressiva di una profonda istanza d'equilibrio e di armonia; quindi di un modo di essere della sensibilità.
Ora, la dimensione del vivere è un'altra; un'altra è la misura dell'uomo. Altro è, dunque, il modo della sensibilità. Ed è per questo che "quella simmetria non parla più". Da ciò la ricerca di una "simmetria diversa", che per intenderci chiameremo "asimmetria".

Le "invarianti" proposte recentemente sono la storia degli ultimi cinquant'anni di architettura. Fare la storia significa insegnare a pensare architettonicamente. La storia dell'architettura si pone come metodo dell'architettura, e tanto più si pone come metodo, quando meno lo storico vuole porlo e proporlo.
Ogni ricostruzione storica è necessaria per capire in quale modo si sia riusciti (se si è riusciti) a creare unità e armonia tra i vari aspetti della vita (sociale-economica-culturale). Ogni civiltà manifesta il suo valore dal modo con cui ha raggiunto quell'armonia e quell'unità, alla cui base è sempre l'uomo, l'uomo sociale, con i suoi valori etici, con il suo benessere, ecc.: una vicenda strettamente condizionata, nella quale cambiano i modi espressivi, ma non muta il soggetto della storia. Cambia il modo di porre i problemi, uno dei quali resta costantemente sulla scena drammatica della vita e che è la ricerca e la costruzione dello spazio della libertà, in un perenne conflitto umano ed urbano.

Ogni ricostruzione storica è sollecitata dal presente e deve agire sul presente per vincere le resistenze più tenaci. Le quali si vincono, se al fare degli uomini si pone l' "invariante" riferita all'uomo, all'umanità, quali soggetti immutabili della storia.


Bruno Zevi sulle considerazioni di Michelucci
D'accordo sostanzialmente su tutte le osservazioni espresse da Michelucci e Palazzo. Tuttavia, poiché i problemi del linguaggio vanno sempre più approfonditi, non sarà inutile qualche commento:
1- Legare le forme alle funzioni : è la prima invariante del linguaggio moderno, l'elenco, il principio n.1 dei sette deducibili dall'esperienza architettonica dell'ultimo secolo e, in effetti, dell'intera vicenda architettonica. Il n.1 non basta, da solo è riduttivo e impoverente; occorrono anche i 2-7. Ma senza il n.1, senza l'elenco funzionale, non esiste linguaggio moderno. Esatta quindi la denuncia dell'insufficienza dello slogan deterministico "la forma segue la funzione" (nessun maestro del movimento moderno gli è stato fedele), sottolineando però che, alla base di ogni discorso architettonico pregnante, c'è un dialogo efferato e creativo con i contenuti, i comportamenti, le funzioni: come Michelucci e Palazzo riaffermano ampiamente nel contesto del loro scritto. L'esaltazione del momento analitico delle funzioni costituisce un errore. Ma, fuori di questo momento, c'è la sintesi a priori, classicista e reazionaria.

"Il cosiddetto movimento moderno...rinunciando all'architettura per l'urbanistica ha finito con ucciderle entrambe". Indubbio, il "cosiddetto" ha fatto questo. Ma il movimenoto moderno autentico non ha mai accettato la separazione tra urbanistica e architettura; ogni suo maestro ha creduto nella "urbatettura", per quanto ostica sia la parola. Basti pensare al piano di Algeri di Le Corbusier, dove non è possibile distinguere il momento urbanistico da quello architettonico.

2- Che il senso della rivoluzione architettonica sia "temporalizzare lo spazio", appare incontrovertibile, anche alla luce della scienza contemporanea. Lo spazio statico rappresenta il potere, la repressione, l'immobilità dei valori, il dispotismo delle idee universali. Il tempo in assoluto è rifiuto e mortificazione della vita terrena, è libertà ma libertà del suicidio. Spazializzare il tempo può avere un nesso metaforico nel progettare un'autostrada, ma il vero impegno architettonico è quello di temporalizzare lo spazio.

Il richiamo alla casa colonica non ha nulla a che vedere con lo "spontaneo", il rustico, i vernacoli, il gusto di Strapaese. Significa piuttosto il volgare rispetto al latino erudito e sclerotico. Troppi architetti parlano ancora in latino, mentre l'edilizia anonima, costruita senza preconcetti formali, invera assai spesso le sette invarianti, l'elenco, le dissonanze, la tridimensionalità antiprospettica, la scomposizione, il coinvolgimento strutturale, la temporalità dello spazio e la reintegrazione. Il nostro compito consiste nello scrivere poesie architettoniche in volgare, alimentando il linguaggio di apporti popolari. In architettura manca uno Schonberg ma, prima ancora, un Mahler.

Rende perplessi l'affermazione che "le periferie non sono, non possono essere, linguaggio, perché esse non parlano. Distruggono". Perché, se persino i rifiuti della società industriale "parlano" ai pittori, il Kitsch periferico non dovrebbe parlare agli architetti? Perché esiste una pop-art e non dovrebbe esistere una pop-architettura e una pop-urbanistica? L'argomento merita forse maggiore meditazione; dobbiamo scoprire le potenzialità vitali ed espressive delle periferie, e intervenire per esplicitarle. Come fa Burri con gli stracci, o Rauschenberg con i pneumatici consumati.

3- Classico = stile, ordine; moderno = ricerca. Tale impostazione è, grosso modo, accettabile, ma non coglie il nocciolo della questione. Perché, sostenendo che la ricerca "conduce a nuove forme (stili, ordini) e le forme si consolidano, si fissano", si viene a riproporre in termini tradizionali il rapporto "langue/paroles" di De Saussure. La norma sarebbe il classicismo, contestato da quella "tensione" creativa i cui prodotti, ad un certo punto, si classicizzano.
In architettura non è così. nessuna "parole" di Brunelleschi (lo ha dimostrato, meglio di ogni altro, Michelucci), di Michelangiolo, di Borromini, di Wright ha mai scalfito l'accademia. Il classicismo non è una "langue", ma un'ideologia linguistica del potere, impermeabile ad ogni arricchimento. La creatività non è dissonanza rispetto alla consonanza, non deroga rispetto alla regola, come si credeva una volta. Schonberg ha scoperto, e Adorno ha spiegato, che un linguaggio dissonante non dipende dal suo opposto assonante, ma ha una validità in sé, autonoma. Quindi, se finora, educati nella schiavitù classicista, abbiamo dovuto puntare su "un continuo atto liberatorio", oggi possedendo un linguaggio, possiamo prevedere una civiltà di atti liberi. Dovremmo affrancarci da quel condizionamento psicologico che ci fa pensare alla libertà solo in antitesi alla prigionia; altrimenti, continueremo ad avere bisogno delle carceri (classiciste e Beaux-Arts) onde potercene liberare.

Le invarianti, in quanto categorie, rischiano di orientare "la ricerca in direzioni volute e preordinate"? Interrogativo paralizzante, ma scarsamente fondato: anzitutto, perché le invarianti non sono categorie, ma dichiarazioni d'indipendenza dalle categorie d'ogni matrice e genere; poi, perché la libertà non può sfociare in direzioni "preordinate", a meno di essere conculcata. Un altro interrogativo incomprensibile: "non può accadere che anche l'asimmetria si codifichi, si traduca in norme?". Diciamolo francamente: non può accadere. Il dubbio nasce da una paura della libertà che ci fa agitare mostri e pericoli inesistenti, come l'illibertà della libertà. Quale autorità ha stabilito "le leggi della buona forma" tra cui sarebbe da annoverare la simmetria? Il linguaggio moderno non riconosce autorità e leggi, deride la "buona forma" e la "bella forma", lotta per la forma fera.

Passiamo ora agli appunti di Michelucci. Additandoli anzitutto ad esempio. Così gli architetti, giovani o maturi, dovrebbero intervenire nel dibattito sul linguaggio: testimoniando sul loro lavoro con modestia, serietà ed intelligenza, e non improvvisandosi semiologi e divagando ad un livello pseudo-teorico. Questi appunti di Michelucci sono una lezione di moralità. Tanto che definiscono l'asimmetria "una condizione del linguaggio architettonico moderno", e poi confermano: "nulla si oppone di più alla creazione, quanto il geometrismo che è la logica della simmetria". Palazzo Strozzi, Ledoux e Garnier: ecco i mostri contro i quali Michelucci ha dovuto combattere con estrema fatica e che è riuscito a sconfiggere nella sua arte colta e popolare, satura di storia e dissacrante, aperta al quotidiano dell'uomo ma diffidente verso l'umanesimo astratto. In "Spazi dell'architettura moderna", Michelucci viene definito "il migliore artista italiano della sua generazione". La sua opera e il suo pensiero incutono rispetto e ammirazione; ancor più, suscitano affetto e solidarietà. Di fronte a questi appunti, possiamo dire a Michelucci una cosa sola: grazie, senza la tua presenza, noi saremmo infinitamente più poveri, e smarriti.

Bruno Zevi


http://www.antithesi.info/testi/testo_2.asp?ID=188



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