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Transdisciplinare
Intercultura
Italiani di Germania

Lingua: Italiana
Destinatari: Alunni scuola media superiore, Formazione permanente
Tipologia: Materiale di studio

Abstract:

26 Novembre 2005
Italiani di Germania, futuro dell'Europa
La Stampa, 26/11/2005. Forse gli unici a ricordarsi del cinquantenario sono gli italiani partiti per la Germania dopo l'accordo raggiunto tra i due governi nel dicembre 1955, che ne permetteva l'emigrazione

Forse gli unici a ricordarsi del cinquantenario sono gli italiani partiti per la Germania dopo l'accordo raggiunto tra i due governi nel dicembre 1955, che ne permetteva l'emigrazione. Sono stati i primi ad arrivare, e visti dai tedeschi con sospetto, finché le ondate successive di turchi, di greci, di afghani, non hanno creato i nuovi stranieri. Dai paesi del Sud si era convogliati alla stazione di Milano per proseguire sull'allora famoso Italiaexpress verso le grandi città del Nord: Stoccarda, Francoforte, Colonia, Dortmund, Amburgo e poi sparpagliarsi nelle zone industriali circostanti. In quegli anni, senza essere un'emigrata classica, partivo anch'io su quel treno e avevo la stessa meta. Dopo mezzo secolo - la parola globalizzazione non era ancora stata inventata - di quell'emigrazione vecchio stampo si può parlare solo col tono del c'era una volta.

Ai giovani di oggi così impregnati di ubiquità virtuale, che arrivano in aereo, si scambiano sms già sulla scaletta, e da vacanzieri o studenti di Erasmus han già visto il mondo intero, è difficile far capire che cos'era l'uscita dall'Italia alla fine degli Anni 50, con spostamenti disagevoli e usi e costumi ancora vicini alla seconda guerra mondiale. Gli italiani arrivavano con valige legate col cordino. Li chiamavano Gastarbeiter per sottolineare che erano lavoratori-ospiti, cioè gente che arriva e dopo un po' se ne va, senza lasciare traccia. Ma non fu così. Gli stranieri, e non solo gli italiani, in Germania sono rimasti, hanno cambiato volto alle sue strade, hanno riempito le sale parto, le scuole, le discoteche, gli ospedali. Hanno faticato con la lingua, apprezzato il tanto buono del Paese, fatto i conti col non congeniale.

L'integrazione è anche un passaggio di civiltà. Se il Paese piace, se si prova simpatia, viene la voglia di emulazione, di sintonia. Ma ai tedeschi spesso per piacere manca quel fattore fondamentale che è la Eigenliebe (per chiarire, si può tradurre con «amore per se stessi», ma non, credo, con amor proprio). Per non portarsi tutto dentro, tanti si sono messi a scrivere, alcuni sono diventati scrittori e poeti, tantissimi hanno risposto all'invito del Corriere d'Italia, che si stampa a Francoforte, di raccontare: «Quando venni in Germania». Una donna ha scritto «Come è bella la Germania!» perché vi aveva conosciuto la dignità del lavoro. Un altro racconta che certe sere si faceva telefonare dall'Italia all'ora dello scampanio della sua chiesa parrocchiale, per sentirsi un po' più a casa. C'è chi ha fatto fortuna, chi ha trovato l'amore, chi è diventato membro di Consiglio comunale. E chi non è riuscito a uscire dal ceto sociale in cui è arrivato e ha figli che non vanno alle scuole superiori. Ognuno ha il suo piccolo personale bilancio con la Germania.

La prima generazione di emigrati è quella che viaggia di più, una vera navetta vivente, un pendolare tra i due Paesi. Gli anni passati in Italia non danno tregua, deve rivedere la patria, ributtarsi nelle sue braccia, incontrare in tre giorni più gente che in Germania in tre mesi e venirne accolta con un affetto ed entusiasmo inversamente proporzionali alla durata della visita. Per tornarne con un senso di ambiguità, e poi accorgersi di avere più Germania addosso di quanto si voglia ammettere. Che la permanenza all'estero debba essere transitoria, tutti lo dicono e ognuno lo crede. Ma pochi lo attuano. Puntuali sono arrivate le seconde generazioni: scuola, amici, lingua, abitudini, tutto tedesco o quel tanto di filtro tra le due culture che ognuno ritaglia per sé. A casa nostra i figli fra di loro parlano un tedesco stretto, veloce, con tutte le inflessioni, il gergo, le parolacce della gioventù, ma cogli amici mangiano spaghetti e bevono barbera. Sono figli di una doppia memoria, che si muovono con la naturalezza dei figli di padri che già hanno vissuto in Germania, già hanno parlato tedesco.

E l'Italia per loro non sarà mai soltanto una terra di vacanza, ma la scoperta delle radici, l'incontro un po' impacciato con la famiglia d'origine, grande e articolata, cugini, zii, nonni, parentela, legami non intercambiabili, che per loro mai diventeranno consuetudine. Cogli anni sono arrivate le terze generazioni, i nipoti, con metà sangue tedesco e una formidabile carica di radicamento sul territorio, l'ultima spallata al muro della separatezza. I nipoti sono la prova vivente che la Germania non è più un episodio ma il destino futuro, che le navi del ritorno sono bruciate e il passaggio si è compiuto.

Si guarda avanti e ci si dice: non c'è solo la terra dei padri, c'è anche la terra dei figli. Nelle metropoli tedesche spira il vento esaltante del cosmopolitismo. In città come Berlino nessuno è a casa e perciò in qualche modo lo sono tutti. Sulle strade la babele delle lingue e delle fisionomie ti trasporta in un senso di estasi sovrannazionale. Gente nuova, giovane, diversa, imperfetta e multiforme come ogni generazione, alla varietà dei colori della pelle si aggiunge quella interiore della memoria delle diverse origini. Qui si muovono i nostri figli e nipoti.

Attualmente, poiché siamo silenziosi, non diamo nell'occhio, a differenza dei turchi, noi italiani passiamo per integrati. Loro ci considerano, erroneamente, vicini di casa. E come modo di vita ci copiano in tutto, allegramente, perché pensano che questo sia il nostro tratto precipuo. «Spaghettizzatevi!», incitava qualche tempo fa dalle sue pagine l'autorevole Frankfurter Allgemeine Zeitung, ed era tutto un inno al mondo globalizzato all'italiana.

Ne proviamo una certa fierezza. Ma al di là del compiacimento di rappresentare un modello vincente, siamo consapevoli del risultato, non messo nel conto ma felice, della nostra doppia memoria, della nostra doppia competenza, e anche, perché no?, di una nostra doppia squadra del cuore. Quella rivoluzione sociale e culturale più o meno sotterranea che è l'immigrazione ha cambiato chi è arrivato e chi ha accolto.

Noi italiani all'estero da lunga data, non siamo degli amorfi europei, siamo chiaramente di doppia appartenenza. Per fare l'Europa ci vuole gente come noi che conosce due popoli da vicino, che sa combattere contro l'immaginario collettivo che fa diffidenti l'uno dell'altro. Siamo il nucleo di punta nella formazione della reale Europa, i veri biculturali, per quotidianità di vita.



http://www.dsonline.it/aree/italianiallestero/germania/documenti/dettaglio.asp?id_doc=30008



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