centro risorse per la didattica
Risorse per area disciplinare:   
Homepage
La redazione
 
Ricerca
Iscriviti alla news
Le newsletter
 
Attualità
Percorsi
Novità
Recensioni
 
Disabilità
Lavagna Interattiva
 
La tua segnalazione
Il tuo giudizio
 
Cataloghi in rete
 
DIDAweb
 

risorse@didaweb.net
 
Fai conoscere ai tuoi amici
questa pagina

 

  Cerca nel web:
Se sei un utilizzatore della toolbar di Google, puoi aggiungere anche il nostro pulsante:
Centro Risorse
  SCHEDA RISORSA


Educazione linguistica Greco
Filosofia
Il problema del destino dell'uomo nei miti greci dell’età arcaica. A cura di Andrea Porcarelli

Lingua: Italiana
Destinatari: Alunni scuola media superiore, Formazione post diploma
Tipologia: Materiale di studio

Abstract:

Il problema del destino dell'uomo nei miti greci dell’età arcaica

 

A cura di Andrea Porcarelli

 

Interrogarsi sul proprio destino fa parte delle prerogative insite nella natura umana, tanto è vero che non vi è cultura in cui gli uomini non si siano posti - in modo più o meno articolato - tale domanda. Dal punto di vista teoretico dobbiamo rilevare soprattutto come la diversità delle risposte costituisca uno stimolo potente ad approfondire ulteriormente la ricerca, per avvicinarsi sempre di più a quella verità filosofica a cui tutti giustamente aspiriamo; dal punto di vista storico è certamente interessante chiedersi come gli uomini - nelle varie epoche e nelle varie culture - si sono posti le domande sul proprio destino, in quali condizioni di vita si trovavano, quali influssi li abbiano eventualmente suggestionati e quali fonti abbiamo per sapere tutto questo.

Il nostro studio si colloca, prevalentemente


1) sul piano della ricostruzione storica delle risposte date, in una certa cultura (quella greca) e in un certo arco di tempo (quella che convenzionalmente si denomina età arcaica


2), alla domanda che ci sta a cuore (circa il destino dell'uomo). La nostra indagine, che in questa sede è centrata fondamentalmente sul mito e sulle credenze religiose greche, si svilupperà secondo due direttrici fondamentali:

a) l'asse cronologico, lungo il quale percorreremo un itinerario in senso diacronico che ci porterà ad incontrare alcuni "testimoni" significativi dell'evoluzione del nostro problema nella cultura greca, sicché cercheremo di collocare – sommariamente - ciascuno nel suo tempo e in rapporto agli altri;

b) l'asse teoretico-problematico che incrocia quello cronologico e - in ogni epoca - ci porterà ad "interrogare" i testimoni di cui sopra alla luce di domande ben precise che, per praticità, distingueremo sempre in due aree problematiche principali:

- il problema del destino inteso, in senso globale, come fato, a cui tutto (il cosmo, gli uomini e gli dèi) è in qualche modo soggetto e in cui si inserisce il destino degli uomini in questa vita,

- il problema della sorte individuale di ciascun uomo dopo la morte.

 L'interesse che anima chi scrive è di carattere prettamente filosofico, così come sono virtualmente "filosofiche" le domande che sostanziano l'asse teoretico-problematico, ma la nostra attenzione si appunterà inizialmente sul mito, non solo perché tradizionalmente è costume presentarne fugacemente alcuni tratti essenziali prima di passare alle riflessioni più propriamente filosofiche, ma anche perché se si vuole cogliere la pregnanza significativa di alcune problematiche che i filosofi affronteranno bisogna riuscire ad inquadrarle in quella cultura greca, in cui i filosofi operano e da cui traggono le domande a cui il logos tenterà di dare risposta.

 

Il destino dell'uomo nei miti omerico-esiodei

 

I miti omerico-esiodei costituiscono innanzitutto (ma non esclusivamente) una "riserva di modelli" educativi 3, "eternati" 4 dall'espressione artistica in cui furono trasmessi, che contengono l'insieme dei valori e degli ideali aristocratici, imperniati - sostanzialmente - attorno all'ideale dell'areté, del "valore" a cui ogni uomo aspira e di cui l'"onore" costituisce il necessario pubblico riconoscimento, sia nel corso della vita degli eroi, sia dopo la loro morte5. Per questo prendiamo le mosse dall'analisi - seppur sommaria - dell'epos omerico-esiodeo: perché la cultura greca stessa, fin dai suoi albori, ha attribuito all'epos un posto privilegiato all'interno del panorama letterario, quale testimone e custode dei valori tradizionali della società aristocratica dell'età arcaica.

Il cosmo si presenta come un insieme strutturato e gerarchico, dove ogni cosa ha il suo posto e ogni evento la sua causa. L'arte della motivazione è assai sviluppata fin dai poemi omerici ed esiodei.

L'immagine dell'uomo è abbastanza complessa: in Omero, per esempio, non appare un "centro unificatore" del singolo individuo umano, ma l'uomo sembra presentarsi "frammentato" 6 nelle sue molteplici singole azioni o sentimenti. Schematicamente potremmo distinguere:

a) una psyché "libera", che appare inattiva quando è attivo il corpo, risiede in una parte non specificata di esso, non sembra avere connessione con i vari aspetti fisici o psicologici della vita dell'uomo, si manifesta solo durante gli svenimenti o al momento della morte, quando lascia il corpo per non ritornarvi mai più;

b) varie "anime corporee", che conferiscono al corpo vita e coscienza:

- il thymos (lett. "animo", principio della vita e dei sentimenti), stimola l'uomo ad agire ed è sede delle emozioni,

- il menos (lett. "potenza", "forza", "vigore", "coraggio", "furore") è un impulso più momentaneo, orientato ad attività specifiche,

-  il nous (lett. "mente", "intelligenza") indica la mente o un atto della mente (un pensiero o una volizione).

-         

Punto di riferimento centrale per l'uomo omerico è indubbiamente la sua areté7, che si identifica con l'ideale aristocratico dell'eroe guerriero, a cui si connette inscindibilmente l'idea dell'onore (pubblico riconoscimento8 dell'areté, espresso attraverso la lode o il biasimo) e che si amplia (specialmente nell'Odissea), includendo la saggezza di vita e l'astuzia, il senno inventivo e pratico che consente di trionfare sulle molteplici insidie.

Il "fato" a cui tutto è sottoposto

La lettura dei testi letterari degli autori dell'età arcaica lasciano in chi vi si accosta un meraviglioso senso di ordine: tutto si inquadra in un mirabile cosmo ordinato, in cui entrano - seppur a diverso titolo - uomini e dèi e in cui ogni cosa ha il suo posto. Le riflessioni sul destino individuale dell'uomo vanno dunque collocate sullo sfondo di questo ordine divino che è stolto ed empio infrangere; in questa ottica l'uomo si interroga sul suo "destino".

 

L'"esperienza" del destino

 

I termini omerici per designare il destino di ciascun uomo risalgono etimologicamente alla radice smart, da cui deriva anche il termine moira che in Omero designa sia la "parte" che ciascuno riceve al momento della divisione del bottino, sia la "parte" che tocca a ciascuno per quanto riguarda gli accadimenti della vita 9; anche il termine daimon (a cui si lega eudaimonia 10, che traduciamo con "felicità") - con ogni probabilità - ha il significato etimologico di "spartitore", ossia l'equivalente personificato della moira. Progressivamente il termine moira passa a indicare il generale contesto degli accadimenti e si trasforma nel Fato signore di tutto.

Probabilmente il punto di partenza di questa concezione è l'"esperienza" dell'infrangersi dei sogni umani contro qualcosa di più forte di noi: l'uomo vorrebbe essere artefice del proprio destino, ma non ci riesce e - conseguentemente - si forma l'idea di un destino inflessibile 11, superiore ai suoi sogni e alle sue aspirazioni, di cui a lui tocca solo una "parte" ben determinata; come nota amaramente Ulisse in un brano che ci offre uno spaccato significativo della visione generale del destino dell’uomo per la mentalità omerica:

«nulla nutre la terra più meschino dell'uomo, fra tutto ciò che respira e cammina sopra la terra.
Pure mai pensa che un giorno potrà vincerlo un male, fin che gli dèi gli dàn forza e le ginocchia son agili;quando, poi, lutti gli dèi beati gli dànno, anche questi sopporta, sia pure a malgrado, con cuore costante:perché così è la mente degli uomini sopra la terra, come l'ispira di giorno il padre dei numi e degli uomini.


Anch'io una volta dovevo tra gli uomini esser beato, ma poi molti eccessi commisi, cedendo alla violenza e al potere, e fidando nel padre mio e nei fratelli. Ah no! mai uomo dovrebb'essere ingiusto,
ma in silenzio tenersi il dono dei numi, quello che dànno» 12.

Ancora più icastiche appaiono le parole pronunciate da Glauco, nell’Iliade, con una freschezza che sarà fonte di ispirazione per molti:

«Come stirpi di foglie, così le stirpi degli uomini; le foglie, alcune ne getta il vento a terra, altre la selvafiorente le nutre al tempo di primavera; così le stirpi degli uomini: nasce una, l'altra si dilegua» 13.

Non è facile trarre un generale insegnamento circa il "senso" del destino da questi e altri simili brani. Da un lato appare evidente il carattere triste delle varie espressioni, anche se dobbiamo tenere presente che, per lo più, queste parole appaiono in un contesto consolatorio 14, a fronte dell'evocazione di eventi effettivamente tristi e in sé degni di pianto. Con tutto questo sarebbe forse avventato dire che l'uomo greco in quanto tale, sic et simpliciter, viva in tono "pessimistico" l'esperienza della vita e le opinioni al riguardo sono abbastanza discordi, anche se determinate espressioni portano indubbiamente a pensare ad una visione piuttosto triste della vita:

«Primo, per i mortali non nascere è meglio di tutto; ma nati, quanto prima varcare le soglie dell'Ade» 15.

A tale visione globalmente "disincantata" della vita terrena i Greci reagiscono con un costante inno alla vita, alla gioia, alla capacità di gustare le gioie fugaci, proprio perché fuggiranno. Significativi sono alcuni passi del poeta Mimnermo:

«Godi la giovinezza! Viene ben presto la vecchiaia, che rende l'uomo brutto e inetto e gli rapisce la capacità di gioire del sole e della vita!». «Deh, senza malattie, deh, senza incresciosi pensieri, il destino di morte mi colga a sessant'anni» 16.

Possiamo giustapporre a queste parole di Mimenermo quelle di Solone che, da un lato parla della vita in un tono decisamente negativo 17, ma dall'altro indirizza a Mimnermo un'elegia in cui lo invita a rettificare il suo verso così:

«Se vuoi ancora badare a me, cancella codeste parole e non serbarmi rancore per aver io trovato qualche cosa di meglio che tu stesso, e ritocca i tuoi versi, o ionico usignolo, e canta così: Ottantenne possa la Moira mandarmi la morte»18.

Con questo vogliamo anticipare in parte una chiave di lettura di queste "due anime" che costantemente si compenetrano nella cultura greca arcaica a proposito del senso globale delle vicende della vita umana: da un lato è evidente l'impatto esistenziale dell'oggettivo infrangersi dei desideri umani contro le barriere di un "destino" che - alla lunga - ne frustrerà ogni impeto, ma dall'altro lato assistiamo al soggettivo, eroico, orgoglio virile di chi non accetta di lasciarsi travolgere dalle vicissitudini della vita ed è disposto a gustarne i pregi fino in fondo.

 

La credenza negli dèi e il "senso" del destino

 

Che gli dèi esistano, per i Greci, è un fatto intuitivo, intimamente legato all'esperienza che l'uomo fa della propria vita, con i suoi lati positivi e i suoi limiti, pienamente inserito nel contesto di un ordine naturale 19, caratterizzato nel suo complesso dall'omnipervasivo mistero della vita: «Che cosa è dunque il mondo divino degli Elleni? È il mondo nel suo contenuto essenziale, la totalità delle forze in esso operanti, è la vita contemplata in una molteplicità di eccelse, immortali figure» 20. A tale considerazione si aggiunga la riflessione di un altro grande studioso della grecità che osserva come la cultura greca arcaica attribuisse in forma eminente agli dèi quello che era il massimo dei valori umani (l'areté, congiunta all'onore che ne costituisce il pubblico riconoscimento), per cui «gli dèi d'Omero sono, per così dire, una società aristocratica dotata d'immortalità. L'essenza propria del culto divino greco e della pietà greca si esprimono nell'onore tributato alla divinità: esser pio significa "onorare il Divino". L'una e l'altra cosa, onorare gli dèi e gli uomini in ragione della loro aretè, è fatto umano primordiale» 21. Va precisato che non possiamo pretendere di trovare in Omero un quadro fedele e, soprattutto, esaustivo della religiosità greca arcaica, per almeno due ordini di motivi:

a) per motivi di carattere storico-genetico: i poemi omerici giungono alla formulazione in cui attualmente li conosciamo tra l'VIII e il VII sec. a.C., ma il materiale mitico che essi contengono (pur essendo stato certamente rielaborato in quell'epoca) è in parte preesistente ed affonda, probabilmente, le proprie radici nel lungo periodo del cosiddetto "medioevo ellenico", se non reca addirittura un'eco dell'antica pietà degli eroi di età micenea, in cui idealmente sono ambientati i poemi;

b) a motivo dei destinatari a cui paiono indirizzati i poemi: l'epos omerico, infatti, si propone come un'epopea "aristocratica" a diverso titolo (sono di nobile stirpe gli eroi protagonisti, si suppone che dovessero essere aristocratici i destinatari primari, pur non potendosi escludere una loro destinazione concomitante al canto dei rapsodi nelle piazze e nelle feste) e questo ha i suoi riflessi anche in campo religioso (per esempio non si fa alcun cenno alla dèa Demetra, il cui culto - sotto varie forme - era certamente diffuso, forse soprattutto tra gli strati popolari della cittadinanza, fin dall'età micenea).

Forse potremmo addirittura leggere la religiosità omerica come un tentativo consapevole di operare una "sublimazione" dell'insieme delle tradizioni religiose greche, per coglierne una sorta di aristìa: per far emergere il meglio di quanto le sue potenzialità racchiudevano, inquadrando le diverse tradizioni in uno sfondo sostanzialmente omogeneo e unitario (con un evidente progresso dall'Iliade all'Odissea) e dando risposte logiche e coerenti ad alcune delle domande che poteva porsi il lettore còlto ed esigente del mito. Lo stesso antropomorfismo degli dèi omerici (a differenza del carattere più marcatamente naturalistico e "impersonale" delle divinità micenee) potrebbe essere letto come un primo passo in questo cammino di progressiva sublimazione aristocratizzante del pantheon tradizionale ellenico.

Il quadro organico delle divinità greche si evolve ulteriormente, con Esiodo, verso un ordine sempre più logico e rigoroso: il poeta tracio si sente - potremmo dire - chiamato dalle muse a sbrogliare le contraddizioni religiose dei cantori, svolgendo una vera e propria opera di "teologo" 22. Nella Teogonia, per esempio, il percorso narrativo segue il filo genealogico, ma il disegno teologico sottostante è incentrato sulla ricerca eziologica delle motivazioni di un ordine cosmico mirabilmente evidente, che però non viene presentato come un "dato" originario o come effetto della volontà di Dio Creatore (o di un Demiurgo primordiale) come avviene nella tradizione religiosa ebraico-cristiana: «nella prospettiva greca il cosmo nella sua realtà materiale, visibile e nella sua realtà altra è il risultato di una genesis, di un processo generativo interno ad uan sostanziale entità primordiale, oscura, complessa, indefinibile, il Chaos, rispetto la quale né il cosmo né gli dei sono indipendenti. Anche gli dei vengono dopo, e sono così parte integrante di un’attualità cosmica della quale non sono responsabili se non in misura secondaria» 23. Di tale ordine cosmico Zeus sarebbe (dopo svariate vicissitudini) il custode sovrano. Zeus, per Esiodo (personalmente amareggiato per l'ingiustizia terrena e desideroso di una ricompensa ultraterrena), è anche il padre delle Moire e di Dike che si lagna presso di lui quando viene troppo disprezzata dagli uomini e, così, provoca il suo intervento (la punizione del colpevole):

«[Zeus] Per seconda poi sposò la splendida Temi, che fu madre dell'Ore, Eunomie, Dike e Eirene fiorente, che vegliano sull'opera degli uomini mortali; e le Moire, a cui grandissimo onore diede Zeus prudente, Cloto, Lachesi e Atropo, le quali concedono agli uomini mortali di avere il bene e il male» 24.

 

«O Perse, pòniti bene in mente queste cose e, dando retta alla giustizia, scòrdati della violenza. Agli uomini, infatti, il Cronide dettò questa legge: è proprio dei pesci, delle fiere, dei volanti uccelli divorarsi l'un l'altro, perché non esiste giustizia fra loro; ma agli uomini diede la giustizia, che è cosa di gran lunga migliore. Se uno, conoscendo la verità, la proclama, a lui Zeus dall'ampia pupilla darà la felicità; chi invece coscientemente giurerà il falso e renderà falsa testimonianza, ingannando la giustizia commetterà irreparabile crimine e lascia dopo di sé la progenie sempre più oscura, mentre fiorirà la discendenza dell'uomo che ha giurato il vero» 25.

 

La credenza nelle divinità olimpiche, vista in relazione al problema del destino dell'uomo, sembra porre la stessa questione da un diverso punto di vista, chiedendosi chi è l'autore della "partizione", colui che decreta il destino e distribuisce efficacemente i beni e i mali della vita (magari con la segreta speranza di poter influire sulle divinità "responsabili" di tale distribuzione). Più ancora dovremmo dire che «l'intrecciarsi degli dèi alle azioni e alle sofferenze umane costringe il poeta greco a veder sempre l'azione e la sorte dell'uomo nel suo valore assoluto, a inquadrarla sempre nella concatenazione universale e a commisurarla a supreme norme religiose e morali» 26.

 

Ciascuna delle divinità manifesta, per lo più, un duplice volto: quello positivo e dispensatore di beni, quello negativo per cui il dio dispensa mali e sciagure; basti per esempio pensare al dio Apollo, che dona agli uomini la luce del sole, la "luce" dell'ispirazione poetica, dei vaticinii, della saggezza ... ma scaglia anche i mortiferi dardi della peste che uccide. Bellissima e significativa è, a questo proposito, l'immagine dei "due vasi" che Achille afferma stiano sulla soglia di Zeus 27, nel tentativo di consolare Priamo che, piangente, è venuto nella sua tenda a domandare le spoglie di Ettore ucciso.

 

.Gli stessi dèi, peraltro, non vengono considerati dispensatori arbitrari, ma loro stessi dipendono da un Fato, da una Giustizia superiore che governa il loro intervenire nelle sorti dei mortali; nulla può fare - per esempio - il dio Apollo per Ettore (suo protetto) dopo che Zeus, gettate sulla bilancia le sorti degli eroi, ha preso atto del loro destino:

«Ma quando arrivarono la quarta volta alle fonti, allora Zeus, agganciò la bilancia d'oro, le due Chere di morte lunghi strazi vi pose, quella d'Achille e quella d'Ettore domatore di cavalli, la tenne sospesa pel mezzo: d'Ettore precipitò il giorno fatale e finì giù nell'Ade; l'abbandonò allora Apollo» 28.

 

Solo dopo il verdetto della bilancia di Zeus (si noti l'artifizio poetico per introdurre un elemento impersonale, "meccanico", al di sopra dell'arbitrio di divinità di cui forse - talora - pesa l'antropomorfismo) la dèa Atena può porre tutte quelle azioni che condurranno fatalmente alla morte di Ettore: incita Achille, inganna lo stesso Ettore (assumendo le sembianze di Deifobo), guida l'eroe acheo alla promessa vittoria. Solo a quel punto l'eroe troiano capisce che il suo "destino" è "segnato", ma neanche in quella circostanza egli viene immaginato come una sorta di "burattino" nelle mani del Fato; anzi è proprio nella morte gloriosa in battaglia, consapevolmente accettata, che si compie il fato dell'eroe:

 

«Ahi! Davvero gli dèi mi chiamano a morte. Credevo d'aver accanto il forte Deìfobo: ma è fra le mura, Atena m'ha teso un inganno. M'è accanto la mala morte, non è più lontana, non è evitabile ormai, e questo da tempo era caro a Zeus e al figlio arciero di Zeus, che tante volte m'han salvato benigni. Ormai m'ha raggiunto la Moira. Ebbene, non senza lotta, non senza gloria morrò, ma avendo compiuto qualcosa di grande, che anche i futuri lo sappiano» 29.

 

Se vogliamo approfondire i tratti esseniali del rapporto tra gli dèi e gli uomini dobbiamo aggiungere ancora alcune considerazioni. In primo luogo va rilevato che «non esiste una antropogonia ufficiale, un discorso di genesi come quello relativo agli dei» 30: le tradizioni circa l’origine degli uomini maschi sono svariate, si inseriscono nello stesso processo che ha portato alla formazione della Terra e del Cosmo a partire dal Chaos, hanno generalmente un carattere "locale" (gli uomini, per lo più, nascono dal "suolo" di una certa zona e sono capostipiti della stirpe autoctona), sottolineano indirettamente una certa "unità di stirpe" tra gli uomini (maschi) e gli dèi; per quanto riguarda l’origine della donna si afferma decisamente il mito di Pandora, narrato da Esiodo, in cui la donna è "dono degli dèi", ma si tratta di un dono che porta con sé tutti i mali.

In secondo luogo non si può non osservare che le divine figure costituiscono l'ipostatizzazione dell'ideale greco di felicità, in un quadro sostanzialmente pessimistico per cui questa - la felicità - parrebbe appannaggio esclusivo degli dèi, inesorabilmente negata agli uomini. Può essere interessante paragonare la condizione degli uomini a quella degli dèi:

Gli dèi

Gli uomini

sono immortali

sono mortali (... dolore)

sono "più forti"

la loro forza passa

sono eternamente belli

la bellezza sfiorisce

sono beati

«nessun uomo è felice, Carichi di fatica sono tutti i mortali sotto il sole» 31

 

Non si può non sottolineare il legame tra il carattere sostanzialmente "materiale" dei beni che rendono felice la vita degli dèi ed il carattere altrettanto materiale dei mali che rendono infelice la vita degli uomini, tanto che potremmo già trarre una prima conclusione: se la felicità consiste in beni materiali quali la salute (immortalità), il potere, la bellezza, il piacere, solo ipotetiche divinità che godano eternamente di tali beni possono essere dette "felici", mentre per l’uomo la felicità non può che essere un possesso passeggero, un attimo fugace da carpire nell’istante, a fronte di una visione della vita in cui non vi è spazio per una felicità duratura.

Si noti che l'esito pessimistico della religione pubblica greca circa il problema della felicità (si dirà anche che gli dèi sono "invidiosi" dell'uomo felice... e lo puniscono) è condizionato anche dall’idea di una duplice Ate 32: 1) talora gli uomini pagano il fio per delle colpe da loro commesse e "meritano" 33 un castigo che avrebbero potuto evitare; 2) talaltra gli uomini soffrono e basta, in forza dell'ineluttabilità di certe esperienze inscindibilmente connesse alla condizione umana come tale.

Il primo tipo di Ate ha molto spazio nella letteratura arcaica e sta ad indicare gli effetti delle azioni responsabili degli uomini, che - in ogni caso - non vengono sottratte ad una certa dimensione di "ineluttabilità". Infatti ad essa troviamo dedicato addirittura una sorta di piccolo "trattato" nel libro XIX dell'Iliade, quando Agamennone (dopo avere ascoltato il proposito di Achille che ha deciso di tralasciare la propria ira e tornare a combattere) cerca di "discolparsi" agli occhi degli Achei, attribuendo la "responsabilità" della propria condotta ad Ate, che acceca le menti di uomini e dèi 34. Gli uomini, dunque, devono pagare per le colpe che commettono, anche se causa di queste colpe è un'entità divina (Ate, figlia di Zeus, che il padre stesso ha voluto confinare tra gli uomini); d'altra parte questo primo tipo di Ate non è proprio del tutto ineluttabile nelle sue conseguenze, perché da essa ci si può in qualche modo affrancare attraverso le Preghiere (anch'esse figlie di Zeus) che "rincorrono Ate (la Colpa)"; senza scampo è invece l'Ate di chi rifuta di accogliere queste figlie di Zeus 35. Ancora più emblematico, rispetto a questo tema dell'"Ate colpevole", è il discorso con cui Zeus apre il consiglio degli dèi nel libro I dell'Odissea:

«Ah quante colpe fanno i mortali agli dèi! Da noi dicon essi che vengono i mali, ma invece pei loro folli delitti contro il dovuto han dolori. Così ora Egisto contro il dovuto si prese la donna legittima dell'Atride e lui massacrò al suo ritorno, sapendo l'abisso di morte. Perché noi l'avvertimmo, mandando Ermete occhio acuto, argheifonte, che non l'uccidesse, non ne agognasse la donna: vendetta verrebbe da Oreste Atride quando, cresciuto, sentisse la nostalgia della patria. Così parlò Ermete, ma il cuore d'Egisto non persuase col savio consiglio; ora tutto ha pagato!» 36.

Per cogliere il senso del secondo tipo di Ate è bene ricordare il fatto che i beni più "divini" (come appare dallo schema sopra delineato) sono identificati con beni esteriori o corporei che appartengono agli uomini in modo fugace e passeggero:

«Noi mortali, buoni e cattivi, pensiamo che conseguiremo quanto desideriamo, sino a che sopraggiunge la sventura, e allora ci lamentiamo. L'infermo spera di diventar sano; il povero ricco. Ognuno cerca il danaro e il guadagno, ognuno per altra via, da mercante o marinaro, da contadino, da operaio, da cantore o indovino. Ma anche questi non può stornare la sventura imminente, pur prevedendola» 37.

A questo secondo tipo di Ate si collega il tema dello jqonos, l'invidia, degli dèi che "puniscono" con amare sventure l'uomo che dovesse sperimentare una sorte troppo felice.

Altri spunti di straordinario interesse si possono trovare in Esiodo, la cui concezione della vita e della felicità è stata variamente interpretata, ma in cui il mito delle cinque età del mondo 38 è certamente un punto di riferimento per poter parlare del senso globale della vita e della felicità per l'uomo greco dell'età arcaica. Il mito di Prometeo, narrato da Esiodo 39, sembra congiungere i due tipi di Ate sopra citati, in rapporto al problema generale del senso della vita e della felicità umana: Prometeo, con l'astuzia, ruba per gli uomini il divino fuoco di Zeus, ma questi "bilancia" gli effetti del furto creando la donna che farà piovere sugli uomini ogni sorta di guai. Nelle Opere e i giorni il poeta torna su questo tema e lo approfondisce con maggior dovizia di particolari; Pandora, infatti, dotata dagli dèi di ogni attrattiva, apre - spinta dalla curiosità - il vaso dove la benevolenza di Zeus aveva chiuso tutti gli affanni e i dolori (senza i quali gli uomini conducevano una vita simile a quella degli dèi): da allora in poi l'uomo è esposto agli assalti di ogni sventura, mentre gli dèi ne restano immuni 40.

Resta agli uomini la speranza, non nel senso di una impossibile aspettativa di una vita "divina" qui sulla terra, ma nell'attiva e pugnace attesa di beni determinati che l'uomo può impegnarsi ad avere. Il lavoro onorato, che imperla di onesto sudore la fronte, consente all'uomo di costruirsi una dignità che lo protegge dalla condizione di bisogno e povertà in cui Zeus ha voluto gettarlo: questa condizione - dal punto di vista di Esiodo - non è dunque un male per l'umanità, ma si risolve in un bene perché consente all'uomo (mediante il lavoro) di gustare le vere gioie che egli stesso può conquistarsi (al pari delle azioni gloriose che costituivano l'essenza stessa dell'eroe omerico).

Con tutto questo l'ideale umano della grecità arcaica non è quello di un remissivo e malinconico piagnone, vano trastullo nelle mani del destino: così come l'uomo greco non si fa illusioni circa la propria "vocazione" all'infelicità, allo stesso modo l'ideale che gli si prospetta (specialmente in Omero) è quello di resistere con animo virile alle vicissitudini 41 della sorte che comunque arriveranno. L'indole guerriera dell'eroe omerico diventa dunque metafora di vita: così come il vero guerriero attende "a piè fermo" l'incalzare del nemico, pur sapendo (e senza coltivare nel cuore false illusioni) che non sarà un incontro gioioso e potrà uscirne ferito o anche ucciso, allo stesso modo l'uomo greco dell'epos omerico deve attendere "con animo paziente" ciò che il Fato ha preparato per lui, senza perdersi d'animo e senza coltivare nel cuore inutili e fallaci illusioni. In continuità con questo spirito guerriero si pone l'ideale cantato dal poeta beota Esiodo, grazie al quale apprendiamo che «non solo la lotta dell'eroe cavalleresco con l'avversario che l'osteggia in campo, ma anche la lotta silenziosa e tenace del alvoratore con la dura terra e con gli elementi ha il suo eroismo e promuove qualità di valore eterno per la formazione dell'uomo» 42.

Analogo, anche se di segno opposto, è l'atteggiamento di chi si sottrae al peso dell'esistenza rifugiandosi nell'effimero e fugace "attimo" del piacere momentaneo: punto di partenza è la convinzione (disincantata) che il destino dell'uomo non può portare una felicità duratura, dunque tanto vale gustare "hic et nunc" le gioie che la vita ci offre di giorno in giorno.

L'anima umana e il suo destino dopo la morte

Il destino dell'uomo dopo la morte riguarda esclusivamente la psyché (thymos, menos, nous cessano di esistere) e viene descritto in modi diversi e contrastanti.

In generale l'uomo omerico non ha una visione ottimistica della sua sorte futura nel regno dei morti. Si pensi, ad esempio, alle parole con cui l'ombra di Achille risponde ad Ulisse (che l'aveva evocata) mentre questi ne tesseva gli elogi:

«"... Ma di te, Achille, nessun eroe, né prima, né poi, più felice; prima da vivo t'onoravamo come gli dèi noi Argivi, e adesso tu signoreggi tra i morti, quaggiù; perciò d'esser morto non t'affliggere, Achille". Io dicevo così: e subito rispondendomi disse: "Non lodarmi la morte, splendido Odisseo. Vorrei esser bifolco, servire un padrone, un diseredato, che non avesse ricchezza, piuttosto che dominare su tutte l'ombre consunte"» 43.

Per quanto riguarda la vita che tali ombre trascorrono nell'Ade notiamo una certa ambivalenza dei testi che ne parlano. Talora le anime dei morti vengono descritte in atteggiamenti che ricalcano le azioni fisiche dell'uomo vivente, come parlare e muoversi, anche se le loro funzioni non sono così "autonome" come negli esseri viventi. Più spesso, però, si sottolinea il carattere umbratile ed evanescente delle anime dei detunti; le anime evocate da Odisseo sulle rive dell'Oceano, per esempio, devono bere il sangue delle vittime sgozzate, per poter acquisire coscienza e dire all'eroe greco ciò che egli vuole sapere da loro. Il vate Tiresia, dopo avere bevuto del sangue e profetizzato i rischi che Odisseo avrebbe dovuto affrontare sulla via del ritorno, gli spiega esplicitamente 44 questa loro situazione nell'oltretomba e la stessa madre dell'eroe non lo "riconosce" se non dopo avere bevuto il sangue; di struggente bellezza sono i versi in cui si narra del vano tentativo da parte di Odisseo di abbracciare l'ombra della madre morta:

«Così parlava: e io volevo - e in cuore l'andavo agitando - stringere l'anima della madre mia morta. E mi slanciai tre volte, il cuore mi obbligava ad abbracciarla; tre volte dalle mie mani, all'ombra simile eo al sogno, volò via: strazio acuto mi scese più in fondo, e a lei rivolto parole fugaci dicevo: "Madre mia, perché fuggi mentre voglio abbracciarti, che anche nell'Ade, buttandoci al collo le braccia, tutti e due ci saziamo di gelido pianto? o questo è un fantasma (eidolon) che la lucente Persefone manda perché io soffra e singhiozzi di più?"

Così dicevo e subito mi rispondeva la madre sovrana: "Ahi figlio mio, fra gli uomini tutti il più misero... non t'inganna Persefione figlia di Zeus; questa è la sorte degli uomini, quando uno muore: i nervi non reggono più l'ossa e la carne, ma la forza gagliarda del fuoco fiammante li annienta, dopo che l'ossa bianche ha lasciato la vita; e l'anima (psyché), come un sogno fuggendone, vaga volando"» 45.

Anche Esiodo ci offre una descrizione cupa e tenebrosa dell'Ade, sottolineando amaramente come da quel luogo tetro non si possa fare ritorno:

«Lì davanti, del dio degli inferi la casa sonora, del possente Ade e della terribile Persefoneia, s'inalza, e dinanzi un cane terribile vi fa custodia, spietato, e possiede un'astuzia crudele: a chi entra con la coda fa festa e con gli orecchi ad un tempo, ma dopo non lascia uscire, anzi, spiando divora chiunque egli sorprende che esce fuori dalla porta del possente Ade e della terribile Persefoneia» 46.

In generale dobbiamo dire che l'anima dei morti sembra influenzata dall'immagine del defunto presente nella memoria dei vivi, dalle circostanze della morte 47, dalla condizione del cadavere 48. «Queste idee non furono mai completamente ordinate in modo sistematico e potevano coesistere nel contesto di una medesima descrizione» 49, come appare nel citato episodio del dialogo di Achille e Patroclo, che si apre con un normale colloquio (in cui l'anima si comporta come l'uomo di un tempo) e si chiude con una scomparsa dell'ombra evanescente che "strepita" e appare persino incapace di parlare. Probabilmente pesa su tale visione il fatto che, subito dopo la morte di una persona amica, il ricordo di questa è vivissimo nella mente di chi lo ha conosciuto, mentre col tempo tale ricordo si affievolisce, i tratti più personali impallidiscono e l'immaginazione la fa diventare semplicemente un membro del vasto mondo delle anime defunte che, non a caso - in Omero -, si muovono "a sciami".

All'Ade oscuro e tenebroso, da cui non si torna indietro, però, dobbiamo affiancare un'altra ipotesi (oserei dire "aristocratica") di destino oltremondano, riservata a pochi eletti, le anime di alcuni eroi come Menelao che, nell'Odissea 50, viene collocato nei Campi Elisi. Si tratta, però, di un privilegio che non spetta agli uomini "per natura" (la loro sorte, altresì, sarebbe quella di andare nell'Ade), ma che viene loro conferito dagli dèi o a motivo di una "parentela" o, talora, come premio per una vita eroica e rispettosa degli dèi; anche se questa non dev'essere presa come una "norma" solida, visto che Achille (l'eroe omerico per eccellenza) viene presentato come un'ombra inquieta che si aggira per l'Ade, rimpiangendo la fulgida vita terrena.

Esiodo 51 fa sopravvivere alla morte (nello "status" di demoni, dispensatori di buona o cattiva sorte) gli uomini dell'età dell'oro e dell'argento, mentre agli eroi - per grazia di Zeus - viene preparata una dimora ai confini del mondo (le Isole dei Beati) dove vivono una vita senza dolori 52, ma senza più nulla potere rispetto al mondo dei vivi. Sulla sorte della generazione attuale (quella dell'"età del ferro) Esiodo non esprime nulla di buono: solo dolori, affanni e ingiustizie senza rimedio la attendono; la possibilità di "scavalcare" l'abisso che separa gli dèi dagli uomini rimane dunque poco più che un'ipotesi teorica, che persino il mito non osa riservare che a pochi fortunati.

 

Natura e destino dell'uomo nei culti misterici

 

Il fenomeno dei culti misterici è abbastanza generale nella storia e nella fenomenologia religiosa: in origine si può pensare un insieme di riti iniziatici (pubblicamente e socialmente riconosciuti) segnanti il passaggio dalla pubertà all'età adulta. Le peculiari condizioni storico-culturali della grecia e il progressivo disattendimento di alcune aspettative da parte della religione pubblica greca ha probabilmente dato ai culti misterici di quella terra una connotazione particolare.

Può essere interessante notare la significativa concomitanza cronologica (nel VI sec. a.C.) tra le due distinte forme di "critica" alla religiosità "ufficiale": da un lato abbiamo il sorgere di quella riflessione filosofica che (come vedremo) punterà quasi subito le armi del proprio logos razionalistico e moralistico contro l'antropomorfismo della religione omerico-esiodea; dall'altro lato notiamo il sorgere o il prendere consistenza storica di movimenti dal sapore misticheggiante, che criticano la religione ufficiale sul versante delle esigenze esistenziali (ci riferiamo ai culti misterici, in parte preesistenti - come nel caso dei misteri Eleusini -, ma relegati ai margini della cultura religiosa dello stato, in parte sorgenti proprio in quel periodo - come, probabilmente, nel caso dei misteri orfici). Si tratta di un lento ma progressivo processo di sgretolamento dell'antica religiosità ellenica, che sarà fonte di conflitti interiori fin dall'età classica (si pensi, ad esempio, a Socrate e ai tragediografi) e giungerà a piena maturazione in età ellenistica.

L'esito pessimistico, dal punto di vista esistenziale, della religione pubblica greca lasciava, probabilmente, un senso di insoddisfazione in molti uomini dell'Ellade ed apriva le porte ad una visione complementare di ben altro sapore: «La fortuna dei mortali è instabile come il giorno; e così l'animo umano non deve tender troppo in alto. Ma il bisogno umano di felicità trova una via di scampo che da questa tragica costatazione penetra nel suo mondo interiore, sia nel rapimento dell'ebbrezza dionisiaca, che si palesa anche in ciò complemento della misura e del rigore apollinei, sia nella credenza orfica che l'anima sia la parte migliore dell'uomo e che sia destinata a una sorte più alta e più pura. Se lo sguardo freddamente pacato, che la mente indagante il vero ficca nel fondo della natura, presenta appunto allora all'uomo lo spettacolo del divenire e perire senza posa, se altro non gli mostra che l'impero d'una legge universale incurante dell'uomo e della sua meschina esistenza, la quale con la sua ferrea "giustizia" calpesta senz'altro la nostra effimera felicità, nel cuore dell'uomo si desta quella forza interiore che vi si contrappone: la fede nella propria destinazione divina. L'anima, ciò che non può esser còlto in noi né reso tangibile da alcuna conoscenza naturale, si afferma un'intrusa in questo mondo inospitale e cerca una patria eterna» 53.

Le stesse divinità della religione misterica assumono connotati in parte differenti da quelli delle divinità olimpiche. Il dio dei misteri è un "dio in vicenda", «caratterizzato da pathe ("dolori"), del tutto estranei agli impassibili dei d’Olimpo; - pathe che assumono forma di destini di pertinenza umana (fughe, uccisioni, smembramenti, subìte omofagie), ma questi destini trascendono per riferirsi, appunto, a dei, sia pure mistici e in vicenda. Dunque, per così dire, una struttura "calda", ben diversa dalla fredda e inattingibile trascendenza degli dei olimpici, che sono nati ma sono immortali. In questa struttura calda le vicende del dio mistico possono aprire la strada a un mutarsi di sorti ed esperienze umane (collettive o individuali), a una intensificazione e garanzia della vita, a una consolazione fatta di "buone speranze"» 54.

 

I misteri eleusini

 

Il culto della dèa Madre è pre-ellenico e affonda le proprie radici in epoche antichissime, con la sua ellenizzazione la madre terra preellenica viene sostituita dalla greca Demetra, la cui figlia Kore, rapita dal signore del mondo sotterraneo, deve trascorrere presso di lui un terzo dell'anno: non è difficile osservare come in questo culto si colleghino in un'unica intuizione e si intreccino tra loro il mistero dei cicli delle stagioni (la natura "muore" in autunno per "rinascere" in Primavera 55) e quello della speranza dell'uomo in una vita ultraterrena. Fin dal VII secolo a.C. l'iniziazione 56 ai misteri di Eleusi diviene, per l'uomo comune, uno dei mezzi per partecipare alla beatitudine propria degli eroi, ingraziandosi il favore di Core, figlia di Demetra e signora del regno dei morti, come si intuisce leggendo alcuni passaggi dell'Inno a Demetra, che sembra evocare una sorta di "reminiscenza liturgica" delle assicurazioni sulla felicità nell'aldilà offerte agli iniziati di Eleusi:

«... e Demetra a tutti mostrò i riti misterici, a Trittolemo e a Polisseno, e inoltre a Diocle, i riti santi, che non si possono trasgredire né apprendere né proferire: difatti una grande attonita atterrita reverenza per gli dèi impedisce la voce. Felice colui - tra gli uomini viventi sulla terra - che ha visto queste cose: chi invece non è stato iniziato ai sacri riti, chi non ha avuto questa sorte non avrà mai un uguale destino, da morto, nelle umide tenebre marcescenti di laggiù» 57.

Sostanzialmente analoghe e dello stesso tenore sono le testimonianze che possiamo trovare in Pindaro 58, Sofocle e Aristofane, dove si sottolinea la promessa di un destino felice dopo la morte, per chi ha contemplato i sacri misteri ed ha vissuto una "vita religiosa":

«Avanziamo sui prati fioriti, dove abbondano le rose, giocando alla nostra maniera, la più vicina alle belle danze, sotto la guida delle Moire felici. Per noi soltanto è gioioso il sole e il lume delle torce, per tutti noi che siamo iniziati e abbiamo condotto una vita religiosa verso gli stranieri e i concittadini» 59.

Si noti, in tutti i testi citati, il carattere "elitario" delle attese di felicità ultramondana, in nome delle quali la stessa morte viene assimilata 60 ad un rito di "passaggio", ad una iniziazione, ma solo gli iniziati possono aspirare a tale felicità, per tutti gli altri resta sempre lo spettro impietoso del tetro Ade omerico:

«I Greci più antichi infatti consideravano i misteri di Eleusi tanto superiori in onore a tutti gli atti che riguardano la religione, quanto gli dèi sono superiori agli eroi» 61.

Il senso profondo dei misteri eleusini si può collocare, in un certo modo, sulla "linea di confine" tra la mentalità omerico-esiodea e quella degli altri culti misterici posteriori: la felicità è monopolio degli dèi, tanto durante la vita come dopo la morte; Omero ed Esiodo fanno capire che una sorte felice ultramondana costituisce una sorta di "eccezione alla regola", che gli dèi beati possono liberamente donare a chi vogliono, ma si tratta di una condizione rara e difficile, a cui solo pochi eroi particolarmente valorosi possono accedere. L'iniziato di Eleusi, da un lato, sembra convinto che la felicità ultraterrena sia comunque un dono degli dèi, ma è certo, dall'altro lato, che per accedere a tale condizione non c'è bisogno né di gesta eroiche praticamente inaccessibili all'uomo, né di godere del particolare favore di qualche divinità imprevedibile: è sufficiente partecipare all'iniziazione di Eleusi che viene considerata un "atto religioso" di qualità superiore, tale da "garantire" gioie eterne dopo la morte.

Col tempo tale concezione si evolve e si arricchisce di requisiti etici e, virtualmente, metafisici: se solo gli dèi possono aspirare alla felicità, allora l'unica speranza, per l'uomo, sarebbe di individuare dentro di sé qualcosa di "divino".

 

I misteri dionisiaci

 

La venerazione di Dioniso è attestata in Grecia fin dall'età micenea (probabilmente come divinità della vegetazione e del "risveglio" primaverile), ma il culto di questa divinità nella forma orgiastica che conosciamo è, verosimilmente, di origine tracia (si sarebbe dunque sovrapposto ad una diversa venerazione preesistente) e inizialmente trovò non pochi ostacoli nella sua diffusione ad Atene, per l'opposizione dei "conservatori", in un certo senso motivata da alcune valenze sociali potenzialmente eversive di una certa situazione quotidiana 62. Verso la fine del VII sec. e l'inizio del VI sec. a.C. Periandro, Tiranno di Corinto, Clistene, Tiranno di Sicione e Pisistrato, Tiranno di Atene, decisero di approvare tale culto e introdussero feste ufficiali 63 in onore di Dioniso (che trova così il suo "posto" tra gli dèi dell'Olimpo, miticamente espresso dall'episodio della mite dea Estia, protettrice dei focolari domestici, che gli cede il suo posto alla mensa degli dèi). In età classica tali culti si intrecciano con quelli orfici, da cui mutuano alcune caratteristiche peculiari. All'inizio del II sec. a.C. i riti dionisiaci penetrano in Italia con il loro carattere orgiastico, tanto che il senato romano, nel 186 a.C, proibisce di celebrare i Baccanali.

I culti dionisiaci mirano a sollecitare, attraverso riti orgiastici (a cui, progressivamente, si aggiunge 64 l'uso del vino, di cui Dioniso diventa il "dio particolare"), una sorta di "divina follia" che, attraverso l'esperienza di uno stato allucinatorio, conduca a una sorta di "estasi contemplativa", in cui l'iniziato "vede" ciò che altri non vedono: «lo stato del posseduto da Dioniso, ossia l'immagine del dio stesso nell'uomo, non è quello di un'estenuazione soporosa, di una perdita totale della coscienza, e neppure di una gesticolazione animalesca, bensì quello della follia, cioè uno stato della coscienza che si contrappone a quello "normale", quotidiano. Talora il risultato di questa mania è una visione, proprio come l'apice della iniziazione di Eleusi è dato dall'epopteia. Dice infatti Fione: "i posseduti dalla frenesia dionisiaca e coribantica giungono nell'astasi sino a vedere l'oggetto bramato"» 65. Conclusione cruenta del rito è la consumazione di un "pasto rituale" (commemorante il "pasto titanico") in cui le Menadi divorano vivo e crudo un puledro (che, probabilmente, sostituisce un rituale più antico che prevedeva l'uso di un fanciullo).

«Beato colui che ha un buon demone e conoscendo le iniziazioni degli dèi vive santamente e introduce la sua anima nella schiera dionisiaca, infuriando sulle montagne con sante purificazioni ... e incoronato d'edera onora Dioniso» 66.

«Ma questo dio è un divinatore: difatti ciò che è frenetico, che appare delirante, è molto capace di divinare. Quando invero il dio entra possente nel corpo, fa dire il futuro a coloro che infuriano» 67.

La connessione tra pratiche orgiastiche e "manìa" divinatoria risulta dunque strettissima, come si intuisce leggendo le parole che Euripide mette in bocca a Penteo, sacrilego denigratore dei riti delle baccanti (che egli dipinge come folli animate da voglie libidinose):

«... si appiattano una per una nei luoghi solitari e assecondano le voglie dei maschi, con il pretesto che si tratta di menadi sacrificanti, mentre esse antepongono Afrodite a Bacco. (...) E dicono che sia giunto uno straniero, mago incantatore, dalla terra di Lidia, fragrante nelle chiome di riccioli biondi, con le grazie brune - color vino - di Afrodite nei due occhi, il quale passa i giorni e le notti assieme alle ragazze, distendendo innanzi a loro iniziazioni di gioia. E attraversando tutta la città scovate lo straniero dalle forme femminili, che porta una nuova malattia nelle donne e oltraggia i matrimoni. E io credo davvero che ora esse, come uccelli, entro i cespugli si stringano nell'amore, serrate dalle trappole più piacevoli» 68.

Il carattere orgiastico dei riti dionisiaci risulta per lo più legato all’aspetto divinatorio 69 e financo al potere di guarigione che forse è immagine della liberazione definitiva dalle malattie dopo la morte. Questo culto esprime dunque, con forza ancora maggiore di quello eleusino, la vivacità di questa istanza che pervade la religiosità greca di età aracaica: l’uomo desidera sfuggire al destino infelice di questa vita, il che non appare possibile entro i confini temporali della vita terrena, ma può profilarsi come possibilità se ci collochiamo oltre tali confini, cioè dopo la morte. A questa aspirazione ineliminabile dal cuore dell’uomo il culto misterico offre il supporto di una "certezza" che viene dalla "visione" indotta con le varie pratiche rituali e mirante ad "anticipare" l’esperienza della gioia di chi ha conseguito la liberazione dagli affanni di questa vita.

 

L'orfismo

 

I primi documenti sull'Orfismo risalgono al VI sec. a.C. e dal V compaiono allusioni alla sua discesa agli Inferi, in età ellenistica l'Orfismo trova fertile terreno nell'Egitto tolemaico, dove si incontra con il culto di Osiride. Il movimento ebbe una rapida diffusione, il che attesta 70 come il verbo salvifico in esso contenuto giungesse in un terreno particolarmente fertile, probabilmente a motivo della diffusa scontentezza nei confronti del carattere impersonale e degli esiti sostanzialmente pessimistici della religione pubblica.

Orfeo, nella mitologia greca, è il poeta tracio (anteriore a Omero, il che gli consentirebbe di vantare una certa "superiorità"), figlio del re Eagro e della Musa Calliope, che con la dolcezza della sua musica e del suo canto riusciva ad ammansire le belve, commuovere i sassi, far danzare le piante. Lo troviamo con gli Argonauti alla conquista del vello d'oro, poi, sposata Euridice, si stabilì presso i Ciconi (in Tracia). Un giorno Euridice, mentre fuggiva dal dio-pastore Aristeo che tentava di usarle violenza, incespicò su un serpente e morì per il suo morso. Orfeo, coraggiosamente, discese nell'Ade, con la forza della sua musica incantò Caronte, il cane Cerbero, i tre giudici dei morti, fece cessare temporaneamente le pene dei defunti, placò il duoro cuore di Ade, tanto da indurlo a restituire Euridice al mondo dei vivi ... a Patto che Orfeo non si volgesse a guardarla finché essa non fosse giunta alla luce del sole. Euridice seguì Orfeo su per l'oscura voragine, guidata dal suono della sua lira, ma, al sorgere del sole, egli si volse indietro (per vedere se Euridice lo seguiva) e così la perdette per sempre. L'epilogo della vita di Orfeo viene curiosamente collegato al suo legame al dio Apollo, che egli aveva sostituito a Dioniso nei sacri riti: quando Dioniso invade la Tracia, sdegnato per non aver ricevuto il debito onore, istiga le Menadi a sbranare Orfeo.

I racconti relativi alla vita di questo mitico poeta tracio sottolineano, a nostro avviso, la funzione che la celebrazione dei misteri orfici doveva assolvere per quanti si accostavano ad essi: funzione dei misteri è quella di "trarre le anime fuori dall'Ade", intendendo l'Ade omerico, da cui non c'era ritorno, grazie alla magica potenza incantatrice della poesia (che simboleggia, in questo caso, gli hieroi logoi dei riti orfici), purché, però, non si osino infrangere i sacri rituali.

Per quanto concerne le dottrine orfiche possiamo dire che «L'antropogonia orfica è dualistica e le testimonianze antiche sono confermate dal papiro di Derveni, scoperto di recente. Tale testo si riferisce al mito dei Titani, che furono ridotti in cenere dal fulmine di Zeus per aver assassinato Dioniso. Da queste ceneri sorse la razza umana, composta di materia titantica e di anima pura, che proviene dalla razza beata degli dei immortali. Questa anima fu gettata sulla terra come una stella cadente: qui fu unita al corpo e divenne soggetta al destino. Di conseguenza l'attuale razza umana è portatrice di una doppia eredità, quella divina e quella titanica. (...) In contrasto con il pensiero omerico, rivolto ai piaceri terreni e poco interessato al mondo futuro, l'Orfismo professa, dunque, la credenza in una felice vita futura. Il seme della salvezza si trova nell'uomo, poiché la sua anima immortale è una parte della sostanza divina, e lo scopo dell'esistenza sulla terra è di pervenire ad una scelta definitva. La dottrina orfica della purificazione prevede, infatti, la reincarnazione delle anime. Sappiamo da Platone (Repubblica II 363 d) che gli orfici proponevano descrizioni terribili dei tormenti riservati alle anime colpevoli, condannate ad essere immerse in una pozza di fango» 71. In altri termini l’Orfismo può considerarsi come una "via regia" per lo sviluppo del dionisismo in senso più marcatamente "misteriosofico", tanto che gli elementi dottrinali vengono finalmente ad avere un rilievo paragonabile agli elementi rituali (che erano invece prevalenti nei pur tra loro diversi misteri dionisiaci ed eleusini).

Secondo una schematizzazione ormai classica 72, possiamo così riassumere gli elementi essenziali delle dottrine orfiche:

a) Nell'uomo alberga un principio divino, un demone, caduto in un corpo a causa di una misteriosa colpa originaria 73.

b) Questo demone, che preesisteva al corpo, è immortale, sopravvive al corpo 74 ed è destinato a reincarnarsi via via in corpi successivi attraverso una serie di rinascite per espiare la propria colpa; la condizione "incarnata" è una condizione triste e infelice:

«Della miserabile stirpe degli uomini lo stesso Orfeo dà un'espressione poetica in molti versi, di cui ecco una parte: fiere e uccelli e stirpi inutili di uomini mortali, ... pesi per la terra, immagini artificiose senza sapere ... nulla di nulla, né, quando il male si avvicina, abili ... a vederlo, né esperti a evitare proprio da lontanto la miseria, ... né accorti, quando il bene è presente, né rivolgersi a esso ... e impadronirsene, ma a casaccio ignoranti, imprevidenti» 75.

c) La vita orfica, con le sue pratiche di purificazione, è la sola che possa porre fine al ciclo delle reincarnazioni:
«Ma gli stessi sono i padri e i figli negli atrii, e le spose dignitose e le madri e le figlie: nascono gli uni dagli altri nel mutare delle generazioni. (...) Poiché l'anima degli uomini, secondo cicli di tempo, giunge in modo alterno tra gli animali, ora l'uno e ora l'altro; in un tempo un cavallo, in un altro diventa ... in un tempo poi una pecora e in un altro un uccello tremendo a vedersi; in un tempo ancora il corpo di un cane dal cupo latrato e stirpe di freddi serpenti che striscia sulla terra mirabile» 76.

«Orfeo ... tramandò inoltre a Greci e a barbari la venerazione per i sacri riti segreti, e si impegnò moltissimo, secondo ogni atto di culto, intorno alle iniziazioni e ai misteri e alle purificazioni e agli oracoli» 77.

«... la vita beata, lontana dalla peregrinazione del nascere, che presso Orfeo anche gli iniziati di Dioniso e di Core si vantano di raggiungere: desistere dal ciclo e prender fiato dalla miseria» 78.

d) Conseguentemente gli iniziati godono, dopo la morte, del meritato premio (la "liberazione" e il soggiorno nelle Isole dei Beati), mentre per gli altri vi è una punizione 79:

«ma godendo la luce del sole in notti sempre uguali e in giorni uguali, i nobili ricevono una vita meno travagliata, senza turbare la terra col vigore della loro mano, né l'acqua marina, per una vuota sussistenza; e invece - presso i favoriti degli dèi che godettero della fedeltà ai giuramenti - essi percorrono un tratto di vita senza lacrime, mentre gli altri sopportano una prova cui lo sguardo non regge. E quanti ebbero il coraggio di rimanere per tre volte nell'uno e nell'altro mondo, e di ritrarre del tutto l'anima da atti ingiusti, percorsero sino in fondo la strada di Zeus verso la torre di Crono, là le brezze oceanine soffiano intorno all'isola dei beati» 80.

Condizione speculativa implicita di tale concezione è una visione dualistica del rapporto tra anima (concepita come un demone di natura divina) e corpo ("carcere", "tomba", luogo di espiazione 81 dell'anima per una colpa misteriosa). Tale aspetto della dottrina orfica viene esplicitamente riferito da Platone, che lo riprende con ben altro vigore speculativo:

«Dicono alcuni che il corpo è sema (segno, tomba) dell'anima, quasi che ella vi sia sepolta durante la vita presente; e ancora, per il fatto che con esso l'anima semaìnei (significa ciò che semaìne (significhi), anche per questo è stato detto giustamente sema. Però mi sembra assai più probabile che questo nome lo abbiano posto i seguaci di Orfeo; come a dire che l'anima paghi la pena delle colpe che deve pagare, e perciò abbia intorno a sé, affinché sòzetai (si conservi, si salvi, sia custodita), questa cintura corporea a immagine di una prigione; e così il corpo, come il nome stesso significa, è sòma (custodia) dell'anima finché essa non abbia pagato compiutamente ciò che deve pagare. Né c'è bisogno di mutar niente, neppure una lettera» 82.

 

Ci preme precisare che alcuni autori cristiani ritengono la visione dualistica dei rapporti tra anima e corpo una sorta di motivo dominante dell'antropologia greca tout court (in modo da poter contrapporre alla dualistica, "pagana", visione dei Greci il dogma cristiano della Risurrezione, inconciliabile con essa), ma in realtà tale concezione urta con la visione tradizionale greca di una sintesi armoniosa di anima e corpo, emblematicamente espressa nell'ideale della kalokagathìa, tanto da portare alcuni a supporre 83 che il dualismo orfico-pitagorico potrebbe essere una dottrina "spuria", mutuata in forza di influssi esogeni (verosimilmente orientali).

La questione riveste, indubbiamente, un notevole interesse storiografico, ma in questa sede possiamo limitarci ad alcuni suggerimenti per un suo corretto inquadramenteo dal punto di vista teoretico: lo sfondo delle dottrine orfiche non è, in prima istanza, metafisico, ma esistenziale; è sul piano esistenziale che si pone il problema dell'insufficienza della religione tradizionale e si affaccia il desiderio di immortalità. Il dualismo (non metafisico, ma mitologico) della concezione orfica - peraltro - può essere visto come "conseguenza" di una sorta di "monismo materialistico" che, implicitamente, aveva animato la visione tradizionale dell'uomo e della felicità: i valori eccellenti della religione omerica, infatti, si collocavano tutti in una sfera immanente e materiale (potenza, forza, bellezza, vita, salute...) all'esito infausto di chi pone ogni attesa in queste cose si contrappone il verbo salvifico dei culti misterici. Si profila, in altri termini, l'idea che non tutte le tendenze interne all'uomo sono buone, giungendo (in prima approssimazione) ad identificare la fonte degli attuali mali nel corpo che, in tal modo, risulta in un certo senso svalutato.

Volendo trarre alcune conclusioni dall’analisi di alcuni dei principali elementi che costituiscono l’insieme delle credenze sul destino dell’uomo nel pensiero greco arcaico, possiamo tentare di sottolineare alcuni elementi essenziali. Innanzitutto si ha l’impressione che tali credenze prendano le mosse da una "esperienza" del destino (in questa vita) che cozza contro alcune spontanee esigenze dell’uomo in quanto essere vivente e senziente: al desiderio spontaneo di vita, salute, forza e piacere si oppongono numerosi fattori, a cui l’immaginario mitico attribuisce i caratteri di divinità a tratti beffarde, a tratti impotenti di rispetto alle suddette esigenze umane. L’invito ricorrente a godere nell’attimo fuggente di una gioia effimera non è altro che una disincantata presa di coscienza dell’impossibilità di pensare ad una felicità più duratura. Se poi ci interroghiamo sulla visione ellenica del destino ultraterreno dell’uomo ritroviamo una diversa ambivalenza che tende progressivamente ad assumere contorni sempre più netti: da un lato abbiamo (in Omero) la proiezione oltre la morte del disincantato pessimismo di cui sopra, per giunta senza nemmeno la possibilità di godere di quegli effimeri ma graditi attimi di gioia che sono concessi nella vita terrena (si pensi ad Achille); dall’altro lato però si nota il ricorrente tentativo di prospettare un esito di segno diverso al destino dell’uomo.

La speranza di una sorta di gratuita "adozione" ad uno stato di vita felice da parte degli dèi (Menelao accolto nelle Isole Beate) trova espressione più compiuta nelle varie forme di culti misterici, in cui possiamo vedere una sorta di evoluzione di tale speranza: dai misteri Eleusini (che garantiscono tale adozione agli iniziati in quanto tali), a quelli dionisiaci che oltre a garantire un destino felice dopo il termine di questa vita offrono addirittura gli "strumenti" per averne una sorta di estatico "assaggio" preliminare in un contesto dal sapore divinatorio, fino ad arrivare ai misteri orfici, in cui si delinea (nell’orizzonte del mito) il fondamento teorico del diritto dell’uomo ad un destino felice: c’è nell’uomo qualcosa di divino che può essere progressivamente "risvegliato" e che consentirà di "liberarsi" dal ciclo delle reincarnazioni ed accedere ad un destino felice che all’uomo compete in forza della dignità della sua natura. Si tratta insomma di una parola di speranza, offerta agli uomini sotto i velami delle intuizioni mitiche, che troverà nell’indagine filosofica ellenica nuove forme e nuove modalità di espressione e che - in tali forme - incontrerà la rivelazione cristiana, intrecciandosi fecondamente con essa.

 

NOTE

§ Questo articolo è stato pubblicato su "Sacra Doctrina", anno 43°, n. 1; gennaio-febbraio 1998; pp. 72-116.

 

¨ Docente di Filosofia e Scienza delle Religioni presso lo Studio Filosofico Domenicano, affiliato alla Pontificia Università San Tommaso D’Aquino in Roma. Direttore responsabile della rivista "Religioni e sette nel mondo".

 

1 A nostro avviso nessun lavoro di carattere storico-filosofico può porsi "esclusivamente" sul piano della ricostruzione "cronachistica" del pensiero altrui: nel momento in cui ci interroghiamo sulla riflessione filosofica di altri uomini diamo, ipso facto, uno spessore teoretico al nostro interrogarci; infatti non saremo disposti ad accontentarci di semplici chiacchiere prive di rigore, né di invenzioni fabulistiche e nemmeno di risposte rigorose e scientifiche ma parziali alle questioni che stiamo studiando. Quando ci si interroga sulla storia del pensiero filosofico bisogna necessariamente essere, almeno un poco, "filosofi", altresì non si potrebbero riconoscer

http://www.ilgiardinodeipensieri.com/storiafil/andrea2.htm



I giudizi degli utenti

Assenti

Aggiungi il tuo giudizio    Precedenti risultati   


  Iscriviti alla news
Ricevi in posta elettronica le novità e una selezione di risorse utili per la didattica.

Iscriviti qui


Novità
Le ultime risorse per la didattica catalogate ed inserite nel nostro database.

 

 

PRESENTARSI
Proposta d'apprendimento di italiano per stranieri - livello A1

 



ENGLISH LESSONS AND TESTS.

Percorsi
Proposte di selezioni e percorsi fra le risorse e i materiali in archivio.

Percorsi
Feste e calendari multiculturali.
Calendari solari e lunari, festività religiose e tradizionali delle diverse culture.

Percorsi
Steineriane
Le ''scuole nuove'' della pedagogia steineriana, contrassegnate dal paradosso di un’accettazione pratica e di un’ignoranza teorica da parte degli stessi utenti e degli operatori della scuola pubblica, tra ''fedeltà karmica'', incarnazioni di individualità che ritornano sulla terra, bambini indaco e apparente buon senso pedagogico.

  Ambiente virtuale collaborativo in evoluzione ideato e sviluppato da Maurizio Guercio è una iniziativa DIDAweb