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Storia
Economia e diritto
*Il presente come storia - PROBLEMI DELLO SVILUPPO E CETO POLITICO NEL MEZZOGIORNO DI FINE NOVECENTO Francesco Barbagallo - Giovanni Bruno

Lingua: Italiana
Destinatari: Alunni scuola media superiore, Formazione permanente, Formazione post diploma
Tipologia: Materiale di studio
Abstract:

PROBLEMI DELLO SVILUPPO E CETO POLITICO NEL MEZZOGIORNO DI FINE NOVECENTO*

Francesco Barbagallo-Giovanni Bruno

1. Qualche cenno storico.
Il processo di unificazione dello Stato e del mercato nazionale è apparso decisivo per l'avvio di un modello di sviluppo capitalistico italiano, accelerato poi con l'avvio dell'industrializzazione. La trasformazione dell'Italia in paese industriale sarà avviata con l'adozione nel 1887 del protezionismo doganale, da cui deriveranno anche le distorsioni settoriali e territoriali del sistema industriale italiano; e, in primo luogo, una piú rapida divaricazione nei ritmi di sviluppo delle due aree del paese1. A questa interpretazione, articolata ma sostanzialmente fondata sulla interdipendenza tra politica ed economia, tra unificazione nazionale e sviluppo economico, tra Nord e Sud si è contrapposta una visione rigidamente dualistica dello sviluppo italiano2. Questa tesi, coeva alle precedenti interpretazioni, riduce a poca cosa il ruolo che appare invece determinante dello Stato nel favorire e caratterizzare il determinato modello italiano di sviluppo capitalistico e nega una interdipendenza tra Nord e Sud, che sarà invece corposa in piú momenti decisivi del processo unitario.

La secolare storia successiva confermerà, attraverso notevoli trasformazioni, la correlazione tra i rapidi processi di industrializzazione e di sviluppo del Nord e l'avanzamento piú lento del Mezzogiorno sulla strada dell'espansione e della modernità. L'interdipendenza squilibrata tra le due parti del paese sarà la costante fondamentale del particolare modo di sviluppo italiano.

Il Mezzogiorno si presenta, già al principio del Novecento, come una realtà sempre piú differenziata: arretrata lungo la dorsale appenninica, dinamica nelle aree costiere. La legislazione speciale per diverse aree meridionali innova anzitutto rispetto al principio della uniformità legislativa e indica la prospettiva di un intervento statale orientato a correggere gli squilibri territoriali che il piú intenso ritmo di sviluppo del processo di industrializzazione concentrato al Nord andava aggravando.

Dopo la seconda guerra mondiale, per impulso soprattutto di Pasquale Saraceno e di Rodolfo Morandi, che nel 1946 danno vita alla Svimez, viene elaborata una originale prospettiva che si propone di modificare il modello di sviluppo, operante in Italia in senso fortemente dualistico a svantaggio del Sud. Questo progetto, che si realizzerà in modo parziale e distorto, riprendeva le indicazioni nittiane sull'industrializzazione del Sud. La politica statale di intervento straordinario si pone in continuità con la riflessione, compiuta all'interno dell'Iri negli anni Trenta, sul Mezzogiorno come causa e insieme come strumento per superare le debolezze del sistema industriale e finanziario italiano.

La novità, rispetto alle precedenti posizioni meridionalistiche che avevano puntato sulla libertà del mercato o sulla rivoluzione sociale e politica, era nella proposta di un intervento statale di indirizzo e programmazione, gestito da un governo riformatore in direzione meridionalistica e industrialistica. Questa prospettiva di rinnovamento strutturale del Mezzogiorno aveva bisogno per realizzarsi di una larga base di consenso politico, sociale e culturale.

Le cose andarono in direzione opposta. I contrasti interni sociali e ideologici e le ragioni internazionali della guerra fredda liquidarono la già precaria solidarietà politica tra i partiti democratici. Le prevalenti tendenze privatistiche finivano per tutelare le ragioni e gli interessi — presenti nel Nord, nel Sud e nell'amministrazione statale tradizionale — a conservare il modello di sviluppo vigente.

2. Le due fasi dell'intervento straordinario.
Le caratteristiche salienti della politica meridionalistica affermatasi in questo dopoguerra prendono corpo e trovano specifici strumenti e modalità di intervento attraverso un processo di elaborazione decennale, le cui tappe principali sono rappresentate dalla costituzione della Cassa per il Mezzogiorno nel 1950 e dall'avvio fra il 1953 e il 1957 della politica di industrializzazione delle regioni meridionali. Questi anni, che precedono il quinquennio « virtuoso» del « miracolo economico» , sono scanditi dalla costituzione dell'Eni, dalla elaborazione dello Schema Vanoni, dalla creazione del ministero delle Partecipazioni statali, dall'emanazione della legge 634 per l'industrializzazione del Mezzogiorno, ma anche dall'avvio dei grandi progetti di investimento nell'industria automobilistica, nell'industria petrolifera, nella petrolchimica. In sintonia con quanto avveniva già da tempo negli altri grandi paesi europei si assiste ad una crescita qualitativa e quantitativa del ruolo dello Stato e degli obiettivi della politica economica per rispondere alle crescenti richieste di una società in rapido sviluppo.

Sono questi gli anni in cui, sostenuta da una congiuntura internazionale stabilmente favorevole, si innesca una profonda trasformazione del Mezzogiorno d'Italia: con il rapido declino dell'occupazione agricola e la crescita del reddito monetario disponibile, si realizza uno stabile inserimento nel mercato dei prodotti industriali di ampie fasce di nuovi consumatori e di intere zone, rimastene finora ai margini. A questo processo concorrono i consistenti flussi migratori interni e internazionali in partenza dalle regioni meridionali, la forte dinamica ascendente della produzione e degli investimenti industriali, la realizzazione degli importanti progetti infrastrutturali per i trasporti, l'urbanizzazione e lo sviluppo agricolo. La domanda pubblica per investimenti, in particolare, accompagna questa crescita e favorisce la riallocazione verso Sud di significativi flussi di risorse: la quota di investimenti industriali destinata al Mezzogiorno cresce regolarmente all'interno di un prolungato processo di accumulazione che interessa tutta l'Italia3.

A fronte del successivo rallentamento del ritmo di investimento verificatosi negli anni Sessanta e della perdurante scarsità di strumenti normativi e amministrativi a cui sono affidate le capacità di intervento dello Stato, le imprese pubbliche diventano lo strumento privilegiato della politica industriale, con particolare riferimento proprio all'intervento straordinario nel Mezzogiorno.

L'ultimo grappolo di decisioni di investimento assunte nella seconda metà degli anni Sessanta vedono, infatti, per protagoniste le imprese pubbliche e interessano le regioni meridionali in misura massiccia. È appena il caso di ricordare le tappe principali di questo processo: il raddoppio della capacità produttiva dello stabilimento siderurgico di Taranto, le iniziative congiunte Iri-Fiat nella produzione aeronautica, la costruzione dello stabilimento Alfa Romeo a Pomigliano d'Arco. Dopo il ciclo di lotte operaie del 1968-69, gli investimenti delle imprese pubbliche assumono, per la prima volta, un significativo ruolo di sostegno anticongiunturale della dinamica industriale del paese con tassi di aumento annui superiori al 50%, a cui corrispondono una sostanziale stasi e, poi, una rapida contrazione degli investimenti privati. L'esaurimento degli impegni di spesa delle partecipazioni statali per i progetti prima richiamati determina, quindi, un crollo della domanda d'investimenti e della stessa dinamica del pil, che per la prima volta dalla fine della guerra assume nel 1975 un valore negativo.

Le crescenti difficoltà della grande dimensione produttiva e la crisi che investe in particolare quei settori dove l'industria pubblica è maggiormente rappresentata, come la siderurgia, incidono pesantemente sui risultati complessivi del settore pubblico e sugli esiti che ha lo sforzo di industrializzazione del Mezzogiorno: il peso assunto dagli investimenti pubblici nel Mezzogiorno concorre ad accentuare anche a livello territoriale uno squilibrio settoriale a sfavore delle regioni meridionali. Il Mezzogiorno è, quindi, la principale « vittima» della crisi che investe l'intera organizzazione produttiva nazionale e internazionale nella prima metà degli anni Settanta. Esso ne subisce le conseguenze per due ordini di ragioni: per la crisi dei settori di punta della sua struttura industriale e per l'esaurimento dell'impegno statale a favore dell'industrializzazione del Sud.

Nel corso degli anni Settanta si assiste ad un progressivo e rapido mutamento di metodo e contenuti della politica meridionalistica. Tale ridefinizione matura e s'impone all'interno dei radicali cambiamenti che nella prima metà del decennio interessano l'economia mondiale, i mercati internazionali e la collocazione dell'Italia al loro interno.

Il periodo che va dal 1969 al 1973 rappresenta l'impervio crinale che separa in maniera netta due fasi ben individuabili dello sviluppo economico del dopoguerra. Una prima fase è caratterizzata, a livello mondiale, da una crescita continua del commercio internazionale e, a livello interno, dal piú lungo e stabile periodo di sviluppo dell'economia italiana dopo le brevi e intense fiammate della prima metà del secolo; la seconda, che dopo un quindicennio va ad infrangersi sulla gravissima recessione mondiale dei primi anni Novanta, è segnata da cicli brevi, dall'emersione di nuovi e aggressivi concorrenti sul mercato mondiale, da frequenti turbolenze sui mercati monetari e delle materie prime, dall'affermazione di un diverso « sistema tecnologico» . Questo passaggio è segnato dalla crisi del meccanismo di accumulazione e di crescita affermatosi fino ad allora in Italia per il brusco mutamento delle condizioni interne ed internazionali: il balzo in avanti del costo del lavoro; l'esplosione dei costi delle materie prime; il nuovo disordine monetario con la crisi del dollaro e la svalutazione della lira. Il manifestarsi congiunto di questi fenomeni incide profondamente sui margini operativi dell'industria italiana, sia dal lato dei costi di produzione che da quello dei mercati di sbocco, introducendo durevoli elementi di difficoltà per le imprese4.

La situazione ora descritta induce due ordini di conseguenze per la struttura produttiva italiana e per le sorti del Mezzogiorno:

a. l'azione combinata della riduzione del tasso di investimento, dello sviluppo di tecniche di produzioni tendenti a ridurre il contenuto di forza lavoro e dello spostamento dell'attività di investimento dalla grande alla piccola dimensione tende a trasferire effetti immediati sull'andamento dell'occupazione industriale; l'esaurimento della fase di investimento estensivo conduce ad un peggioramento delle condizioni strutturali dell'occupazione, che nelle condizioni dell'Italia finisce per penalizzare principalmente le regioni meridionali del paese;

b. la crisi della grande impresa tende ad enfatizzare il dinamismo delle medio-piccole e delle piccole imprese, che in una prima fase sembra interessare positivamente anche il tradizionale tessuto di piccole e medie imprese industriali meridionali, particolarmente vasto ma assai poco qualificato nel suo insieme; sul medio periodo, però, in relazione alla ripresa delle imprese di maggiori dimensioni e all'acuirsi della concorrenza sui mercati internazionali, le capacità di resistenza e di sviluppo di questi particolari segmenti imprenditoriali sembrano strettamente legate ad un loro stabile inserimento in un ambiente socio-economico favorevole, mentre la fiammata registrata al Sud nel corso degli anni Settanta appare piuttosto legata alla situazione di crisi generale e al restringimento dell'ambito territoriale dei mercati.

Decisivi per le sorti dell'economia meridionale e dell'intervento straordinario risultano essere i processi di ristrutturazione e riorganizzazione industriale di adattamento alle nuove condizioni operative e le politiche pubbliche e aziendali messe in atto per superare le gravi difficoltà incontrate. L'orizzonte entro cui questo processo si svolge è caratterizzato da due elementi:

a. la crescita quantitativa e qualitativa dell'industria italiana nel corso del venticinquennio successivo alla fine del conflitto mondiale ha realizzato una sua sostanziale integrazione nel mercato mondiale e una stretta convergenza con le economie dei paesi industriali piú sviluppati: tutto ciò ne accentua la sensibilità alle onde congiunturali internazionali, enfatizza le interdipendenze reciproche ed espone le imprese italiane senza barriere formali o sostanziali alla competizione internazionale;

b. l'affacciarsi sulla scena internazionale di nuovi protagonisti, paesi in via di sviluppo e paesi del Sud-Est asiatico, erode radicalmente quei vantaggi competitivi sui costi di lavoro nei prodotti a medio-basso contenuto tecnologico, sui quali l'economia italiana aveva costruito parte significativa dei suoi successi nel periodo precedente.

La gravità della crisi, la nuova collocazione dell'Italia nel mercato internazionale, la serrata concorrenza dei paesi in via di sviluppo spiegano la particolare difficoltà e i costi rilevanti del processo di riadattamento.

In questa situazione la politica industriale italiana ha subito una decisiva sterzata. Il sostegno allo sforzo di ristrutturazione delle imprese industriali ha ben presto assunto un peso determinante, attraverso una serie di successivi interventi legislativi; da un altro lato l'andamento del debito pubblico ha subito proprio nel corso degli anni Settanta una brusca accelerazione per la mancata riforma fiscale e con l'intento sia di sostenere il ciclo economico e i consumi, sia di garantire quei necessari trasferimenti al sistema industriale in crisi.

L'attenzione finora rivolta ad ampliare nel Mezzogiorno la ristretta base produttiva dell'area ha, di conseguenza, cambiato radicalmente di segno: da una parte perché l'allocazione di risorse finanziarie pubbliche verso il sistema produttivo ha teso a privilegiare le aree piú industrializzate del paese per impedire una grave regressione delle capacità produttive nazionali; dall'altra perché la contrazione relativa delle risorse destinate all'intervento straordinario rispetto a quelle destinate alle spese ordinarie ha finito per privilegiare forme automatiche di trasferimento monetario, determinando un rapido scivolamento verso forme di puro assistenzialismo e di sostegno dei redditi familiari per quelle zone, come il Mezzogiorno, dove piú fragile e perciò meno assistita nei suoi sforzi di rinnovamento risultava la struttura produttiva.

Le novità della politica economica hanno determinato conseguenze solo apparentemente contraddittorie. Mentre l'economia meridionale subiva un processo di grave involuzione, solo tardivamente evidenziato dagli osservatori, lo spazio e il peso del ceto politico locale negli equilibri nazionali tendevano a dilatarsi per l'importanza crescente che le necessarie importazioni nette di risorse finanziarie verso quell'area finivano per assumere nello sforzo di risanamento finanziario e di ristrutturazione dell'apparato industriale italiano. A fronte alle turbolenze internazionali il ruolo che poteva svolgere il mercato interno nel sostegno di questo sforzo di riconversione risultava strategico.

3. Ceto politico e diffusione della criminalità.
I contrastanti processi di mutamento riconfermano la necessità di guardare con attenzione alle forme di interazione che, dall'unificazione, legano nel bene e nel male le due sezioni territoriali del paese. Le ricorrenti tentazioni, sul terreno politico e anche storiografico, di segnare una linea di separazione capace di distinguere nettamente le due parti del paese non trova fondati elementi di riscontro almeno per tutta la vicenda unitaria; che è stata, per ogni verso, un processo storico piú che secolare di scambi di tutti i tipi, di interdipendenze cresciute nel tempo, di trasferimenti massicci di persone e di culture prima ancora che di flussi finanziari. Le grandi imprese collocate nel Nord del paese si sono largamente giovate di questa spesa pubblica straordinaria, che ha nella sostanza consolidato l'espansione dell'industria settentrionale, sia facilitandone in tutti i modi la parziale dislocazione al Sud, sia privilegiandola come terminale della crescente domanda di prodotti proveniente dal Mezzogiorno sussidiato tramite il sostegno ai redditi individuali.

Tali processi hanno accentuato nell'ultimo ventennio la divaricazione tra aree maggiormente integrate in una dinamica di crescita (Abruzzi, Molise, Basilicata e parte della Puglia) e intere regioni sempre piú distanti da prospettive di sviluppo e colpite da una devastante disoccupazione (Campania, Calabria, Sicilia e parte della Puglia).

Il risultato piú tangibile della politica dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno è stato la costruzione, in forme adeguate alla sua nuova caratterizzazione urbana, del consenso sociale al sistema di governo politico e amministrativo. Il benessere materiale e la diffusione dei consumi privati nel Mezzogiorno sono stati pagati con il degrado dei servizi pubblici e con la dissoluzione della legalità e delle regole che fondano la convivenza civile. La drammatica peculiarità della questione meridionale nell'ultimo ventennio è consistita nel nesso stringente economia assistita, controllo politico delle risorse pubbliche, esautoramento delle sedi e delle forme del controllo amministrativo, illegalità diffusa fino ad aprire varchi agli interessi illeciti nella stessa legislazione di emergenza, che dal terremoto in Campania e Basilicata si è estesa a tutti i lavori pubblici.

Il panorama del Mezzogiorno si è certamente trasformato con il diffondersi di figure sociali e di gruppi politico-economici che si sono proficuamente agganciati al nuovo corso di espansione assistita e sono riusciti ad inserirsi, a vari livelli di interessi e di competenze, dentro meccanismi di graduato coinvolgimento nella distribuzione politicamente controllata delle risorse pubbliche. Nella gran parte del Sud si è cosí consolidato, nell'ultimo quindicennio, un sistema politico-amministrativo capace di esercitare una forma moderna di gestione del potere che ha amministrato, secondo criteri antitetici ai principi di legalità e di interesse pubblico, il mercato politico, il mercato degli appalti, il mercato del lavoro attraverso un circuito perfettamente strutturato di lobbies politico-economiche, di clientele sociali e di esperte competenze professionali, che spaziavano dal territorio alla legislazione, dal fisco agli investimenti5.

In questo contesto si è determinata l'espansione della criminalità organizzata, modernizzata e inserita nei circuiti internazionali, pur con i vecchi nomi di mafia, camorra e 'ndrangheta. Al di là di ogni radice storico-antropologica e ben oltre i confini giudiziari, anch'essa è riuscita a intrecciare abilmente politica, economia e società, in un controllo sempre piú esteso del territorio. La concentrazione delle politiche produttivistiche nel Centro-Nord e la riduzione della gran parte del Sud ad area assistita ha fatto crescere enormemente l'incidenza e la prepotenza della corruzione politica e dell'affarismo criminale.

Il disvelamento della mappa di cointeressenze tra politici, affaristi e criminali, che sta venendo fuori dalle inchieste giudiziarie in corso nelle maggiori città meridionali, conferma drammaticamente la sostanza delle analisi e delle denunce compiute negli anni passati da una esigua schiera di intellettuali e di politici che, riallacciandosi alle migliori tradizioni del meridionalismo critico, avevano indicato nei governanti e negli amministratori del Sud i piú pericolosi e interessati nemici dello sviluppo produttivo e civile del Mezzogiorno.

In un quadro cosí deteriorato il problema della criminalità è il problema della riorganizzazione civile del Mezzogiorno e dell'intero paese attraverso una ridefinizione delle relazioni a livello sociale e politico e, prima ancora, dell'etica dei comportamenti personali.

4. Il Mezzogiorno e l'Europa.
La diffusione e la pervasività di questi processi degenerativi contribuiscono a tenere ancorato il Mezzogiorno, solo limitatamente ridefinito nei suoi confini territoriali, ad una condizione di insufficiente sviluppo, di scarsa presenza e di debole radicamento di un moderno apparato produttivo, che contribuisce largamente ad alimentare gli squilibri macroeconomici dell'intero paese, nei conti con l'estero, nel disavanzo pubblico, nei tassi di inflazione e di disoccupazione. Alla radicale contrazione del contributo dell'agricoltura alla formazione del reddito prodotto nell'area corrispondono ancora oggi percentuali di partecipazione della produzione industriale inferiori anche a quelle dei paesi deboli della Comunità6. Il peso di vecchi e nuovi condizionamenti rende, quindi, la situazione del Mezzogiorno difficilmente comparabile con le altre aree deboli del paese, cui è stata di fatto assimilata con la chiusura nel 1992 dell'esperienza dell'intervento straordinario. Il superamento delle sue condizioni di inferiorità, drammaticamente evidenziate dalla gravità del problema occupazionale, dalla degenerazione del sistema politico-ammistrativo e dalla dipendenza della sua economia dal mantenimento di consistenti flussi finanziari provenienti dall'esterno, sembrano risiedere, oggi piú di ieri, nell'avvio di specifiche e incisive politiche strutturali di sviluppo.

Questa impostazione appare, inoltre, pienamente coerente con le sfide che le attuali condizioni dello sviluppo propongono alla comunità internazionale nella sua interezza e che hanno trovato un'autorevole ed impegnativa risposta nel principio della « coesione economica e sociale» sancito nell'Atto unico europeo del 1987.

L'esperienza dell'economia europea nel corso degli anni Settanta e Ottanta ha ampiamente evidenziato come la crescita economica si sia mostrata inadeguata a risolvere il problema della disoccupazione, che oggi interessa, in misura diversa, tutti i paesi della Comunità. Altrettanto inefficaci si sono dimostrate le risposte puramente difensive proposte in questi anni di fronte ai mutamenti strutturali dell'economia mondiale, alla variabilità e frammentarietà dei cicli congiunturali, all'ampliamento dei divari di sviluppo tra le diverse aree territoriali.

Per tutti i paesi della Cee e per la Comunità nel suo insieme il problema della riqualificazione degli strumenti e delle forme della politica economica si impone come un'urgenza non piú eludibile, per riuscire ad associare un aumento del tasso di crescita ad un piú alto tasso di accumulazione: l'obiettivo è, per usare le parole di Jacques Delors nel recente libro bianco sull'economia europea, di avviare un « nuovo modello di sviluppo» , di realizzare un'economia sana, aperta, decentrata, competitiva e solidale, capace di dare risposta ai nuovi bisogni e alle tante esigenze ed emergenze sociali non soddisfatte, che il mercato da solo non è in grado di offrire7.

In questo quadro, ancora una volta, il Mezzogiorno rappresenta un'opportunità e un vincolo per l'economia italiana.

Esso è senz'altro un vincolo e un peso non piú sostenibile nelle condizioni attuali del bilancio statale se continuerà ad assorbire risorse per sostenere i suoi traballanti equilibri economici e quel sistema politico e criminale che su di essi si è sviluppato. Ma potrà rappresentare una rilevante opportunità di sviluppo per un'economia e un'industria italiane che non affidino le proprie sorti a fuggevoli vantaggi congiunturali, come quelli offerti dalla svalutazione della lira, o ad improbabili rincorse sul terreno dei costi di lavoro nei mercati e nei prodotti tradizionali.

Tutto ciò conduce, a nostro parere, a tre osservazioni conclusive:
a. l'impegno richiesto dalle sfide proposte, l'importanza degli obiettivi da perseguire e la rilevanza delle riforme strutturali cui bisognerà por mano mal si associano ad un clima recessivo: un rinnovamento cosí profondo può ragionevolmente essere avviato solo dentro una nuova fase di crescita stabile;
b. il ruolo dello Stato e la lunga esperienza di economia mista, che l'Italia condivide con il resto d'Europa, rappresentano, opportunamente aggiornate, carte importanti da giocare nelle sfide del prossimo futuro, sia per la necessità di stabilizzare la crescita, sia per riuscire ad agganciare le regioni meridionali a questo sviluppo;
c. il risanamento della struttura sociale, il rinnovamento delle istituzioni politiche e amministrative locali, il superamento delle inefficienze ambientali e « non economiche» rappresentano i necessari prerequisiti ad una politica di sviluppo che dovrà trovare nel decentramento la principale risorsa per uno stabile successo.


* Testo dell'intervento presentato al convegno Italia 1946-1995. Strutture e metodi del consenso nell'Italia repubblicana, Pisa, 29 marzo-1° aprile 1995, organizzato dal Dipartimento di storia moderna e contemporanea dell'Università di Pisa.

1 R. Romeo, Risorgimento e capitalismo, Bari, 1959; E. Sereni, Il capitalismo nelle campagne (1860-1900), Torino, 1968; F. Bonelli, Il capitalismo italiano. Linee generali di interpretazione, in Storia d'Italia, Annali, I, Dal feudalesimo al capitalismo, Torino, 1978.

2 L. Cafagna, Dualismo e sviluppo nella storia d'Italia, Venezia, 1989.

3 P. Saraceno, L'Italia verso la piena occupazione, Milano, 1963.

4 A. Graziani, L'economia italiana dal 1945 a oggi, Bologna, 1989; F. Barca e M. Magnani, L'industria fra capitale e lavoro. Piccole e grandi imprese dall'autunno caldo alla ristrutturazione, Bologna, 1989.

5 F. Barbagallo, La modernità squilibrata del Mezzogiorno d'Italia, Torino, 1994.

6 A. Graziani, Il Mezzogiorno e l'economia italiana, in L'economia e il Mezzogiorno, a cura di A. Giannola, Milano, 1989.

7 Commissione delle Comunità europee, Crescita, competitività, occupazione, Milano, 1994.

http://www.mediatel.it/liberliber/biblioteca/testiinhtml/riviste/studist/1995/n1/1995108a.htm




http://www.brigantaggio.net/Brigantaggio/Storia/Meridionale/Q41_Meridionale.PDF


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