Ciao Enzo
Redazione - 10-09-2004

Non sappiamo se (e quando) sarà possibile recuperare i resti di Enzo Baldoni per esaudire le sue ultime volontà
Del suo ultimo viaggio ci rimane una testimonianza ed una foto pubblicata su un sito internet. Un fotogramma che rende tutta la drammaticità degli ultimi istanti e che Frg non pubblicherà. E questo non (o, meglio, non solo) perché lo ha chiesto la famiglia. Ma perché preferiamo ricordarlo per quello che era: un uomo che amava la vita e ne affrontava le avversità senza prenderla troppo sul serio.
Ciao Enzo



09.09.04 - IO, ENZO E L'ULTIMO VIAGGIO


Su "Panorama" di questa settimana e' uscito un mio articolo su Baldoni. Una testimonianza che mi e' stata chiesta e che ho molto volentieri espresso. Mi hanno chiesto di parlare soprattutto delle nostre differenze: e differenze c'erano. L'ho scritta come amico di Enzo, non come giornalista. Insomma non per mestiere, per una volta. A corredare l'articolo hanno pubblicato la solita foto di noi due insieme, quella che proprio non mi piace nonostante le correzioni apportate dai bravissimi amici di Bloghdad.


Allora qui ne metto un'altra che mi ha scattato Enzo lo stesso giorno, in ospedale. La preferisco, anche perche' sono i suoi occhi in quel momento a vedermi.

Qualcosa in comune sicuramente c’era. Altrimenti non ci saremmo ritrovati insieme davanti al buco di quella granata, nel giardino del “Palestine”, quella notte. Ma non ci siamo piaciuti subito. Intanto perche’ quella che ci aveva tanto spaventato io la chiamavo bomba e lui rosa scarlatta. Enzo Baldoni non era normale. Cercai di capire chi era, perche’ stava li’. “Sono un viaggiatore pigro e un ficcanaso, oppure un fesso che scrive, fai te”. Pigro? Faceva foto, sempre, dappertutto. Aveva una certa genialita’ nel rivoltare la frittata: “E’ la quinta volta che vieni in Iraq, ma chi te lo fa fare?”. Inutile spiegargli che e’ il mio mestiere. Scoprimmo almeno di avere una cosa in comune, anzi due: la voglia di capire e i blog. Io cominciai a leggere il suo e scoprii che aveva grandi intuiti da cronista. Lui scopri’, leggendo il mio, che “anche i giornalisti hanno un’anima”. Il giorno che lascio’ l’albergo per trasferirsi nella casa di Ghareeb (non l’avesse mai fatto) mi lancio’ un messaggio di amicizia.

Scrisse: “Pino è un navigatore scafato, io un viaggiatore sempliciotto: ci stiamo annusando e ancora non abbiamo capito se ci piacciamo. Siamo così diversi e opposti che o ci piaceremo molto o non ci piaceremo per niente”. Ci parlammo molto in quei giorni senza vederci. Per telefono (malissimo) e per e-mail. Discussioni feroci. Mi accusava di aver rinunciato al primo viaggio a Najaf per paura. Io a spiegargli: tu rispondi solo a te stesso, io non posso lasciare Baghdad per una settimana (era quello il programma). Forse, allora, non lo convinsi. Perche’ le nostre differenze vennero fuori tutte: non quelle personali, ma quelle piu’ concrete legate a cio’ che facevamo. Discutemmo di liberta’ e di gabbiani. Discussioni feroci. Facemmo pace quando al ritorno lo andai ad intervistare in ospedale. Scrisse: “Che carino, è venuto a trovarmi sfidando le battaglie che oggi bloccano Baghdad: quattro ponti bloccati, sparatorie in strada, elicotteri che sparano sui viali”. Poi al telefono rise. “Mi hai mandato a reti unificate, manco fossi il presidente”. Inguaribile. Litigammo ancora, piu’ seriamente per il secondo viaggio. Alle due di notte, per un’ora, e dovevamo svegliarci alle cinque. Quelli che a lui piacevano, non piacevano a me. Lui si fidava ciecamente di Ghareeb invece io lo invitavo alla prudenza. Sai che la nostra vita la mettiamo in mano a uno sconosciuto? Un po’ pedantemente gli ricordai quante volte mi ero salvato la vita sentendo a pelle il pericolo. Poi non mi piaceva De Santis, il capomissione, pero’ lui lo stimava dai tempi delle ambulanze a Milano. Discutere serve. Quando la mattina c’incontrammo ci fu un abbraccio. In silenzio. Cioe’ senza parole: le avevamo spese tutte in una notte di Baghdad, forse non casualmente, cosi’ piena di botti. Quando, qualche chilometro dopo, il botto lo sentimmo sotto di noi non ebbe piu’ il coraggio di chiamarla rosa scarlatta. Io ebbi, lo ammetto, qualche dubbio nel proseguire. Quel viaggio non mi piaceva. Ma fui l’unico. Cosi’ andammo avanti. Quando poi arrivammo tra cecchini e carri armati in quella stradina stretta di Najaf , mentre faticavo a parlare al microfono per i botti che rimbombavano, Enzo mi scatto’ un sacco di foto (che non ho visto ne’ vedro’ mai) e sorrise: “Ma lo sai che fai proprio un mestiere di merda?”. Era la consacrazione di un’amicizia. Del resto, so per esperienza che i rapporti fra noi “zingari” si saldano alla prima avventura in comune. Purtroppo e’ stata anche l’ultima. Non posso dimenticare la frase dell’addio: “Di’ a Silvio, il montatore, di prepararmi quella cassetta con la mia intervista. E quando vuoi che mi ricapita di finire in televisione?” La cassetta la conservo per lui. Insieme all’ultima e-mail, un testamento: “Mettiamola così: nelle prossime 24 ore ho la possibilità abbastanza concreta di crepare. Ovviamente non succederà ma, se dovesse succedere, sappiate che sono morto felice facendo quello che più mi piace al mondo: viaggiare in paesi che non hanno mai visto un turista prima di me". Il giorno prima aveva scoperto la paura. E’ successo a ognuno di noi. Ma non tutti hanno la fortuna di raccontarlo.

Da www.pinoscaccia.rai.it

interventi dello stesso autore  discussione chiusa  condividi pdf

 Red    - 11-09-2004
Avevamo cominciato qui:

https://www.didaweb.net/fuoriregistro/leggi.php?a=5611

Poi:

https://www.didaweb.net/fuoriregistro/leggi.php?a=5629
https://www.didaweb.net/fuoriregistro/leggi.php?a=5633
https://www.didaweb.net/fuoriregistro/leggi.php?a=5635
https://www.didaweb.net/fuoriregistro/leggi.php?a=5643
https://www.didaweb.net/fuoriregistro/leggi.php?a=5653
https://www.didaweb.net/fuoriregistro/leggi.php?a=5680

Fino ad ora.


 Pierangelo Indolfi    - 12-09-2004
Baldoni, uno che non si faceva i fatti suoi

DOPO TUTTO
di Adriano Sofri
9/9/2004


Il giornalista ucciso in Iraq si definiva un ficcanaso. E davanti alle tragedie del mondo andava a vedere. Aveva dei meravigliosi precedenti: per esempio, Francesco d'Assisi.

Ho conosciuto solo da spettatore e lettore, e solo nei giorni dell'allarme e della tragedia, Enzo Baldoni e la sua famiglia, provando per loro una fortissima simpatia. Ho pensato che il sarcasmo su Baldoni, la partita giocata fra un Fabrizio Quattrocchi «mercenario» e un Baldoni in cerca del brivido guerriero, l'insulto gratuito e compiaciuto verso una persona in balia di manigoldi sgozzatori, la sventata sottovalutazione della ferocia e poi il dolore tardivo, siano stati fra i sintomi più tristi della nostra pubblica faziosità. Ci sono pacifisti che confondono l'amore per la pace con la cecità di fronte all'esistenza di una guerra. Ci sono realisti che denigrano l'amore per la pace fino al punto di darne per scontata la compromissione con gli assassini e dimenticare solidarietà e compassione umana. Ce n'è abbastanza per ripensare a se stessi e alla propria comunità, se se ne abbia l'umiltà e il coraggio.

Voglio estrarre un dettaglio di questa amarissima vicenda, prologo prevedibile di tante altre, per mostrarne la faccia opposta. Una energia polemica è stata impiegata per denunciare la sventatezza presunta (o vera, a volte) di un turismo di guerra e in genere di rischi estremi, che mette a repentaglio i suoi cultori e tante altre persone, e chiama in causa, come nel caso dei sequestri e dei ricatti, i sentimenti e la responsabilità di intere comunità nazionali e dei loro governi. È un problema che esiste. Perfino nella pancia delle nostre pacifiche e sfibrate esistenze quotidiane pullulano impulsi alle sfide estreme, al culto della messa alla prova di sé di fronte a qualche strapiombo, alla diffusione, contagiosa come una peste, di quel feticcio retorico, «la scarica di adrenalina».

Questa programmazione del cimento estremo a riscatto della vita mediocre sta al bordo dell'ideologia del provare tutto: bella idea, tanto tempo fa, coraggiosa e generosa, prima di diventare un'aggressione cieca al mondo e una resa di sé. E tuttavia, bisogna pure che si prenda in conto l'opposto, la prudenza spinta fino all'opportunismo e all'omissione di soccorso, la paura che paralizza, la viltà. Non amo la retorica e non presumo molto delle forze mie, e dunque delle altrui. Non ho niente contro la paura: contro la viltà sì. Forse la viltà è solo la paura non confessata, la paura di cui ci si vergogni di nascosto, preferendo sacrificarle la verità e la giustizia.

Vile è la paura che induce a decidere di non vedere, a negare ciò che ci sta vistosamente di fronte, e chiede una scelta. I giornalisti sono una categoria troppo vasta e generica per essere sottoposti, da questo punto di vista, a qualche comune dovere. Le circostanze o la vocazione possono portarli, donne o uomini, a misurarsi con la questione della guerra, del rischio, della vita minacciata propria e altrui, della paura e della viltà. La (mirabile) crescita del volontariato internazionale ha ancora più stemperato i confini fra giornalismo di guerra, impegno umanitario, e con lo stesso volontariato militare.
Ebbene: ci sono situazioni (molte, sempre di più) sul mappamondo di oggi in cui la semplice decisione di andare implica una forte abdicazione ai criteri che guidano l'aspirazione alla sicurezza e al controllo di sé nella nostra vita quotidiana. Scendete da un aereo di fortuna, o da un'auto coi vetri verniciati da simboli speranzosi, e in un momento la vostra vita non vi appartiene più. Siete alla mercé di persone sconosciute di cui dovete fidarvi e che a loro volta arrischiano la propria vita per voi; di sparatorie incrociate e imprevedibili; di giochi torbidi e incomprensibili. La vostra vita è traslocata in un altro mondo, e sospesa, a tempo indeterminato, come una monetina lanciata in aria: forse ricadrà giù, forse una mano svelta la afferrerà e la farà sparire. Se ne verrete fuori, quando ne verrete fuori, non avrete neanche voglia di descrivere quell'avventura, così estranea e grottesca rispetto al mondo vostro e dei vostri, al mondo che vi pareva normale, ora non sapete più che cosa sia normale.

Si può morire, con una leggerezza volubile e improvvisa, e un momento dopo i sopravvissuti riconosceranno quella morte per ineluttabile. Può darsi che siate un ragazzo cattolico mandato ad attraversare un ponte di Sarajevo, un operatore e una giornalista a Mogadiscio, una giornalista del Corriere su una stradaccia afghana, un misconosciuto free-lance radicale in una valle georgiana. Ci sono inviati di guerra che non escono dalla hall del loro albergo, altri che si avventurano in deserti e città più infidi di una palude. Ce ne sono di grandi e di piccoli, di vecchi e gloriosi, che continuano a partire, e di giovani e ambiziosi, che inventano una loro truffa.

Ci sono state tragedie così feroci da scoraggiare qualunque turismo da brividi, ma anche il cauto, saggio e sobrio giornalismo professionale. Nel pieno della tempesta del terrore islamista algerino e della risposta militare, a pochi passi da noi, più di centomila persone vennero massacrate in un raccapricciante silenzio, o poco meno, dei nostri media e dei nostri politici. Non si è mai fatto un bilancio onesto di quella voragine. L'Algeria è qui di fronte, come la Bosnia. Erano in agguato bande di sgozzatori. Si poteva non andarci, era molto ragionevole. Sarebbe stato bene dirlo: è troppo pericoloso, tengo famiglia, ho paura. Sarebbe stato bene, soprattutto, non voltare la testa dall'altra parte. Non nascondere, con una superflua vergogna per la propria paura, lo spettacolo di una strage immonda e a lungo indisturbata. Non farsi i fatti propri. Enzo Baldoni si definiva scanzonatamente un ficcanaso. Ci sono meravigliosi precedenti. Uno che non si faceva i fatti suoi, per esempio, era Francesco d'Assisi.

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