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Crisi della democrazia e crisi dell’homo gutenberghianus
Federico Repetto
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sommario
La neotelevisione ha o ha avuto un peso nel declino attuale della democrazia? É indispensabile chiederselo, nonostante la diffidenza dei massmediologi nei confronti delle teorie sugli “effetti dei media”, data la rilevanza pratica del problema, sulla base del principio ecologico di precauzione.
Habermas nel lontano 1961 descrisse il modello dell’opinione pubblica razionale della società protoliberale, basato sulla concorrenza tra giornali indipendenti, e destinato poi a scomparire nella società di massa. In seguito però ha riconosciuto la legittimità democratica della democrazia parlamentare, senza però aggiornare il modello. A mio avviso la legittimazione può essere espressa – seppure a un livello minimo - dai cittadini attraverso il voto, perché la “conversazione democratica” popolare (non considerata da Habermas) integra il sistema dei media. Attraverso di essa il cittadino non colto, che non è in grado di fruire di media di qualità, può sempre ricavare informazioni e commenti dagli “intellettuali di base” con cui è a contatto (e farà poi eventualmente la tara delle differenze sociali e di appartenenza rispetto a tali intellettuali).
Si può ipotizzare – sulla base delle teorie di alcuni massmediologi – che la neotelevisione abbia diminuito la percezione dei cittadini comuni di aver bisogno dell’apporto degli intellettuali di base, proponendosi, attraverso la potenza dell’immagine, come fonte diretta privilegiata. Il buon senso che induce a riconoscere i limiti delle proprie competenze e aiuta ad individuare le fonti più attendibili, è davvero oggi in declino? Hanno ragione quegli psicologi che parlano di una trasformazione dell’Io? I ceti medi, non abituati a diffidare dei media del grande capitale, sono oggi la vittima designata della cultura egemonica neo-liberista?
Molti massmediologi negano che sia possibile parlare scientificamente degli effetti dei media, e in particolare hanno polemizzato contro il pessimismo antitelevisivo di filosofi, psicanalisti, psicologi e scienziati sociali. Certo, le teorie degli effetti dei media sull’educazione dei futuri cittadini hanno ancora uno statuto scientifico modesto, o addirittura dubbio. Qualunque cosa si possa dire dei suoi effetti il sistema della comunicazione e dell’informazione è una risorsa fondamentale per il funzionamento della democrazia liberale, la quale oggi, secondo alcuni, è in affanno in molti Stati dell’occidente. Essa naturalmente è anche una risorsa per chi pensi di egemonizzare e controllare i meccanismi dell’alternanza democratica. La grandezza della posta in gioco non ci permette di rinviare il discorso a quando gli studiosi di scienza delle comunicazioni avranno raggiunto un accordo soddisfacente sul suo metodo e sulla sua portata. In ecologia, quando si ignorano gli effetti, e ci sono ragionevoli sospetti che essi possano essere dannosi, si applica il principio di precauzione. I genitori, gli insegnanti e i cittadini in genere finora, nonostante occasionali polemiche e campagne antitelevisive, hanno preso ben poche precauzioni nei confronti di quello che Neil Postman ha chiamato il “curriculum tv”, cioè un processo educativo spontaneo, continuo e potentissimo, che di solito avviene al di fuori del controllo e del progetto pedagogico di genitori e insegnanti.
Certo non intendo sottovalutare il fatto che la famiglia, la scuola e e in generale il rapporto degli adulti con i bambini e i ragazzi, in quanto agenzie educative, siano afflitti da mali profondi, legati ad una pluralità di fattori. Probabilmente non è scientificamente possibile valutare separatamente gli effetti del “curriculum tv”, ed essi possono essere in qualche modo pensati solo nel contesto dinamico della lotta per l’egemonia culturale nella società capitalistica odierna e della resistenza ad essa, come hanno fatto in Inghilterra gli esponenti dei cultural studies (come Stuart Hall). Solo che nell’attuale congiuntura storica le organizzazioni formali e anche informali della classe operaia sono così malridotte che si ha l’impressione che, mentre una parte dei lavoratori dipendenti e in particolare quelli precari e irregolari, sia abbandonata nell’area del non-voto e dell’anomia, l’obiettivo della colonizzazione culturale neoliberista da parte delle diverse élite globali e nazionali siano oggi piuttosto le parti una volta garantite della classe operaia e gli stessi ceti medi, da sempre legati al blocco storico dominante, e molto meno abituati alla resistenza culturale.
Credo che l’egemonia culturale capitalistica passi in modo notevole attraverso il controllo strutturale che gli inserzionisti pubblicitari esercitano sui media commerciali (tale controllo non significa certo una cospirazione cosciente da parte di un gruppo organizzato, ma, essendo esercitato da un’élite che ha comunque alcuni interessi in comune, non può nemmeno essere neutro e privo di effetti). Per questo il curriculum tv, nonostante le sue specificità -e la sua particolare potenza- rispetto al cinema, alla radio, al fumetto o al periodico popolare, si inserisce comunque in una storia (e in una lotta per l’egemonia culturale) già da tempo cominciata e destinata comunque ad andare ben oltre la tv generalista. In particolare, se internet, nata all’insegna della condivisione, della cooperazione e del copyleft, ha destato speranze come strumento di attiva comunicazione per i singoli e per le masse, la presenza in essa della pubblicità è un cavallo di troia che non va sottovalutato.
Ma qui dobbiamo partire da molto prima.
1. habermas e l’opinione pubblica borghese liberale
Habermas, in Storia e critica dell’opinione pubblica (ediz. orig. 1961) descriveva la società borghese preliberale o semiliberale dell’Inghilterra del Settecento, caratterizzata dalla prima diffusione del giornale, dalla moltiplicazione del libro stampato e dalla loro risonanza nel mondo dei caffè, dei club e dei salotti, come un modello di opinione pubblica libera e razionale. Più precisamente, come un modello di circolazione dell’informazione sui fatti socialmente rilevanti e di elaborazione discorsiva delle idee di bene pubblico e di volontà generale. Per quanto solo come tendenza all’infinito (sull’esempio dell’etica e della politica di Kant) l’opinione pubblica borghese, in questa fase classica, per lui può pretendere di esprimere, attraverso il dibattito senza limiti tra cittadini colti e proprietari, quella volontà generale, che per Rousseau era propria solo del popolo ben informato, non diviso in fazioni antagonistiche e riunito in assemblea. In questo modo, possiamo dire, la scrittura della res publica litterarum sostituisce l’oralità dell’assemblea popolare, anche se la conversazione dei caffè e dei salotti e il dibattito parlamentare (quando diventa di pubblico dominio) integrano la mediazione scritta.
Nel modello di Habermas, il protogiornale borghese settecentesco rappresentava direttamente (o pretendeva sensatamente di rappresentare) di fronte al potere politico l’opinione dei lettori del giornale, che i giornalisti riuscivano a cogliere attraverso il successo del giornale stesso, le lettere dei lettori, la comprensione intuitiva dovuta all’appartenenza al loro stesso ceto, la frequentazione di salotti, caffè e circoli, e cioè attraverso la comunicazione orale borghese. L’opinione borghese diventa veramente pubblica quando è pubblicata a stampa. La res publica litterarum si presenta al po-tere politico come modello di razionalità e di apertura, e proprio per questo può aspirare a rappresentare il bene pubblico e la volontà generale. In effetti, gli emittenti e i riceventi dei messaggi socialmente rilevanti hanno all’incirca un pari livello di competenza per quanto riguarda l’interpretazione di tali messaggi. Gli emittenti sono infatti i giornalisti di giornali indipendenti (realmente indipendenti perché richiedono investimenti iniziali molto modesti) e i riceventi sono i loro lettori borghesi o piccolo borghesi (occasionalmente emittenti attraverso le lettere ai giornali). Ma l’opinione pubblica borghese non è solo uno scambio di idee in seno alla borghesia: essa è anche un flusso comunicativo tra i cittadini di pieno diritto (elettori) e i vertici del potere sociale.
Ad ogni modo, per Habermas la pretesa dell’opinione pubblica borghese di esprimere la volontà di tutto il popolo è fondata fintanto che cultura e pro-prietà possono essere presentati, dall’ideologia protoliberale, come beni per principio accessibili a tutti, per cui il punto di vista dei borghesi colti potenzialmente coincide col punto di vista universale. Ma, con il compimento dello Stato borghese e con lo sviluppo del libero mercato, si rende evidente che l’esclusione dalla proprietà e dalla cultura delle grandi masse non può essere superata. Perciò la pretesa di universalità dell’opinione pubblica risulta insostenibile ed essa si rivela come una massa empirica di opinioni non più mosse da un’unica dialettica verso il bene comune: essa diventa espressione di interessi contrapposti, è colonizzata da diverse parti politiche e sociali, e, più tardi, finirà per essere manipolata da grandi organizzazioni mediatiche. Con ciò cade la pretesa, da parte borghese liberale, di instaurare una democrazia non semplicemente formale e procedurale, ma sostanziale.
Nelle opere immediatamente successive Habermas rinuncia a questo modo di vedere tipico del marxismo francofortese, e, riprendendo la teoria weberiana del potere, postula l’esistenza di una qualche forma di legittimazione del potere razionale della democrazia parlamentare tardo-capitalistica: in La crisi della razionalità nel capitalismo maturo (ediz. orig. 1973), per esempio, egli sostiene che le capacità di legittimazione del sistema sociale e politico stanno entrando in crisi, ma proprio così mostra di credere che esse in qualche modo esistano nella democrazia liberale odierna. E nelle ulteriori opere ha mostrato sempre più di accettare la legittimità di questo regime, attribuendogli però sempre una tensione contraddittoria tra pretese di valore e realizzazioni di fatto.
La democrazia parlamentare è una forma di potere in cui prevale evidentemente l’aspetto burocratico-razionale, ma la sua legittimazione non può dipendere certo da un processo di discussione razionale all’altezza di quello degli intellettuali borghesi del periodo illuministico. Nella democrazia parlamentare moderna si dà normalmente per scontato che per la legittimità del regime sia sufficiente in generale il consenso dei cittadini (indipendentemente dalle loro opinioni sulle singole politiche). Tuttavia Habermas non ha tematizzato questo punto, né ha analizzato i meccanismi specifici, discorsivi e mediatici, della formazione e dell’espressione di questo consenso (o del dissenso) .
Proverò a farlo al suo posto. Comincerò col descrivere sinteticamente la situazione del periodo immediatamente precedente la “neotelevisione”, cioè del periodo dei grandi giornali di massa, della radio e della “veterotelevisione” , sia perché tale periodo corrisponde grosso modo all’ultima fase dell’opinione pubblica descritta nell’opera giovanile di Habermas, e condannata senza appello, sia proprio perché a partire dall’introduzione del sistema neotelevisivo la situazione reale cambia (la neotelevisione, per capirci, è il sistema mediale in cui ci sono numerosi canali TV a colori che trasmettono 24 ore su 24, gestiti secondo criteri commerciali – ma di ciò più tardi).
2. il modello della circolazione democratica dell’informazione e del consenso
Se è vero, come affermava il socialdemocratico Kautsky, che la piena democrazia parlamentare, in diversi Stati, è stata imposta non dalla borghesia ma dalla classe operaia – o per lo meno dai ceti popolari – allora ha senso chiedersi se la dialettica razionale dell’opinione pubblica del periodo borghese liberale si è del tutto interrotta oppure se si è solo alterata e indebolita, senza troncare il flusso comunicativo - nei due sensi - tra il potere e i cittadini.
Il discorso naturalmente si allarga ai nuovi cittadini elettori, che sono in gran parte incolti, nel senso che non sono in grado di fruire in modo autonomo di un’informazione di qualità. All’interno di questa sfera più ampia e complessa, al posto di un’unica dialettica dell’opinione pubblica borghese, si moltiplicano i sistemi di informazione, di discussione e di comunicazione tra vertici del potere (governo, partiti, oligopoli) e base sociale.
I vertici ora sono sistematicamente interessati al processo di emissione dei messaggi destinati alle masse, e il giornalismo indipendente delle origini non è più un soggetto emittente significativo, mentre i media di massa sono in mano ad oligopoli, o talora sono diretta espressione dei partiti. Due canali piuttosto diversi portano ai cittadini le informazioni di pub-blico interesse e i messaggi dei vertici: il canale “gutenberghiano” della carta stampata (libri, riviste, quotidiani) e il canale che privilegia immagine e suono (cinema, radio, paleotelevisione). A questo canale appartengono per certi versi anche i primi tabloid e le riviste illustrate che fanno perno sul messaggio visivo. La differenza, ancor più che nei canali, è nei riceventi. Alcuni hanno una buona cultura generale, derivata normalmente da un’elevata scolarizzazione (“gutenberghiana”), che permette loro un minimo di orientamento autonomo e di cautela critica, per cui sono in grado di fruire dell’informazione di qualità sia quando si presenta in forma cartacea, sia quando arriva attraverso altri canali. Altri sono, come si è detto, incolti.
Ma i riceventi non colti non sono per questo meno razionali degli altri. La razionalità del cittadino in generale è un postulato di filosofia politica che formulerei in questo modo: anche se è evidente che in molti casi molti cittadini non si sono comportati in modo razionale (regimi autoritari e totalitari democraticamente eletti ne sono il caso più rilevante), nessuna filosofia politica umanistica e democratica potrebbe aver senso se noi considerassimo i periodi in cui la democrazia liberale ha funzionato effettivamente come frutto del caso o come esclusivo risultato dell’azione di minoranze, e non anche come sintomo di un’efficace comunicazione razionale tra cittadini. Questa comunica-zione in ambito democratico non è intangibile e garantita, ma è una costante possibilità. Dobbiamo assumere che la comunicazione razionale tra i cittadini comuni normalmente sia almeno possibile e che la razionalità non sia un attributo solo delle élite.
Certo, la scelta di questo assunto non può basarsi su prove empiriche definitive. Ma nemmeno il suo rifiuto. Quindi mi sembra si debba scegliere la possibilità della razionalità essenzialmente perché essa rende sensata la democrazia e l’eguaglianza tra i soggetti. Senza negare l’importanza dei legami di appartenenza ad un determinato gruppo sociale, o partito, o religione, ecc. si deve postulare una certa possibilità di scelta all’interno dell’appartenenza stessa: del resto, perfino nell’Italia della guerra fredda più gelida, all’interno dei due schieramenti politici est-ovest esistevano delle piccole alternative (da un lato dc, o pli, o pri, o psdi, e dall’altro pci o psi) da scegliere razionalmente.
I cittadini non colti non sono a priori né creduloni, né accecati dall’appartenenza, né privi del senso dei propri limiti. Il comune buon senso in condizioni normali è in grado di distinguere i problemi per la cui soluzione si hanno gli strumenti intellettuali da quelli per cui non li si hanno e si deve supporre che il cittadino cercherà attraverso la comunicazione orale pareri affidabili sui problemi che non può risolvere da solo. Chiamerò “intellettuali di base” tutti quei cittadini colti (altamente scolarizzati o autodidatti) che sono coinvolti nella “conversazione sociale” dei ceti popolari, e che possono fornire utili informazioni e interpretazioni. Nel caso di tangibili differenze di interessi o di valori tra gli intellettuali di base e il cittadino non colto, si può ben pensare che quest’ultimo saprà fare anche la tara su informazioni e pareri.
Dunque non è necessario pensare che la democrazia di massa costituisca una rottura definitiva con la razionalità propria dell’opinione pubblica borghese e del progetto illuministico, anche se alla fine la razionalità pubblica può manifestarsi quasi solo nella forma limitata del consenso o dissenso a determinati uomini, partiti, programmi (attraverso il voto particolare espresso) e della generica legittimazione del sistema di potere (con l’esercizio del voto in quanto tale). Altre manifestazioni – scioperi, cortei, boicottaggi, ecc. – benché più intense e significative, hanno una minore universalità.
A sua volta, il diritto di voto è collegato ad alcuni diritti sociali che lo rendono possibile e sensato, come il diritto allo studio (che rende possibile diventare interpreti più competenti dell’informazione) e l’assistenza sociale alle famiglie (che garantisce la possibilità di un’educazione familiare minimale). In effetti è possibile esercitare con una qualche base conoscitiva il diritto al voto almeno se – pur non essendo dei gutenberghiani a pieno titolo, e quindi compe-tenti nell’interpretazione dei giornali di qualità – si ha raggiunto l’alfabetizzazione di base. Inoltre, la dialettica della comunicazione orale popo-lare potrà dare risultati tanto più elevati quanto più il livello medio di istruzione sarà elevato in tutti gli strati, e quanto più lo strato degli intellettuali di base sarà ampio e preparato. Quindi il dato di partenza di una buona educazione familiare generalizzata e il diritto garantito allo studio sono fattori positivi della comunicazione tra base e vertice, che permetteranno effettivamente una buona selezione democratica delle élite. Naturalmente la sola selezione delle élite attraverso il voto non può garantire in nessun modo che tali élite rappresentino pubblicamente la volontà generale, quella che vuole il bene comune. Ma dovrebbe permettere per lo più di evitare i danni più gravi al pubblico interesse, attraverso il controllo e la sanzione almeno ex post (attraverso un voto dato razionalmente) sul loro operato.
L’idea di fondo è che la democrazia parlamentare – quando funziona - sia basata su una divisione dei ruoli nella dialettica del controllo e della legittimazione:
-il cittadino comune (alfabetizzato ma non colto) accede direttamente alle notizie più macroscopiche ed è però cosciente del fatto che esse necessitino di integrazione e di interpretazione; per questo approfitta del suo rapporto di scambio orale con l’intellettuale di base; da questo rapporto non trae direttamente l’indicazione su come votare o se partecipare alle altre manifestazioni pubbliche di volontà (scioperi, cortei, ecc.), ma prima di tutto elementi per giungere ad una propria decisione razionale;
-l’intellettuale di base è competente nella lettura dei quotidiani di qualità, ma è cosciente che i grandi eventi politici, sociali ed economici richiedono saperi specialistici, a cui attinge occasionalmente attraverso la lettura e/o lo scambio orale con persone di competenza superiore;
-i canali di comunicazione dell’intero sistema del sapere sociale (giornalistico-informativo, culturale e scientifico) sono caratterizzati da un certo grado di pluralismo, di trasparenza e di fiducia reciproca, o almeno da una possibilità di controlli incrociati che garantisce un certo grado di attendibilità.
In sintesi, la realizzazione del progetto illuminista della razionalizzazione universale non ha fatto grandi passi avanti, ma non è stata nemmeno bloccata definitivamente.
3. gli intellettuali di base gutenberghiani
Con questa espressione, indico un’ampia varietà di figure sociali in diversi tempi, luoghi e ambienti, alcuni membri delle organizzazioni delle comunità di appartenenza o di riferimento degli stessi cittadini non colti (come parroci, militanti di partiti, di sindacati, di associazioni di categoria e di associazioni di impegno civile, ecc.), altri non appartenenti ad esse e quindi in posizione di relativa neutralità (professionisti, insegnanti, ecc.), altri appartenenti addirittura a comunità diverse o contrapposte (militanti politici di partiti “borghesi”, capireparto, capiufficio, ecc.).
Sarebbe eccessivo sostenere che ci sia un legame stretto e univoco tra la diffusione degli intellettuali di base gutenberghiani e lo sviluppo della democrazia liberale moderna. Postman in Divertirsi da morire mette in relazione in modo forte lo sviluppo della democrazia americana con la diffusione della cultura scritta, della lettura, e delle pubbliche discussioni fondate su un buon livello di conoscenze scritte. Fondata o no che sia questa tesi per gli USA del periodo tra la presidenza Jackson e la guerra di Secessione, non è facilmente generalizzabile. La cultura scritta gutenberghiana è in qualche modo una delle componenti tanto della democrazia liberale moderna come del totali-tarismo (del resto anche quest’ultimo è essenzialmente moderno e ha dei lega-mi perversi con la tradizione democratica). Non mi sembra però azzardato mettere in relazione certi concetti della democrazia liberale (divisione dei poteri, pluralismo delle opinioni e delle ideologie, conformità della legge ad una costituzione, separazione pubblico/privato, laicità, ecc.) con l’idea rinascimentale e illuministica di “res publica litterarum” e con la mentalità razionalistica ad essa collegata.
Gli intellettuali gutenberghiani (del vertice e della base) sono i portatori storici dei principi dello Stato di Diritto, della libertà di pensiero e dell’individualismo moderni e, per quanto una parte consistente di essi possa in momenti particolari passare alle opposte ideologie totalitarie (che teorizzano la fusione dell’individuo nella comunità), sono presumibilmente loro che hanno divulgato questi valori moderni tra i cittadini degli strati popolari non alfabetizzati, perché non mi sembra ipotizzabile che tali concetti, per la loro astrattezza, siano generati da una cultura prevalentemente orale. Per quanto gli intellettuali gutenberghiani siano stati influenzati dalle concezioni politiche e costituzionali più diverse, e siano stati di volta in volta portatori delle idee più diverse, si deve pensare quanto meno che i principi astratti e formali della tradizione liberale appena ricordati, nella misura in cui sono effettivamente arrivati alla cultura orale popolare, le siano arrivati in gran parte per il tramite della conversazione con gli intellettuali di base, oltre che per il tramite della divulgazione scritta.
Insomma, si può sostenere in generale che, proprio grazie all’apporto degli intellettuali di base, particolari conoscenze e concetti, una particolare agenda dei problemi e infine anche particolari valori circolano nella conversazione politica popolare. Questo non influenza di per sé direttamente il voto, salvo probabilmente nel caso di quegli opinion leaders di base che sono attivisti nel gruppo di appartenenza (di classe, etnico, religioso, ecc.) dell’elettore. Ma, sulla base dell’assunto della possibile razionalità del cittadino, si può sostenere che, in una democrazia effettiva, per il cittadino comune, oltre alle scelte dettate dall’appartenenza, resti uno spazio significativo per la discussione razionale - in comunicazione, tra l’altro, con gli intellettuali di base.
4. la crisi odierna della democrazia liberale
Questo modello poteva funzionare bene solo nella misura in cui una politica di welfare scolastico garantiva un certo livello di cultura popolare (per lo meno l’alfabetizzazione generale o quasi), una diffusione abbastanza ampia della cultura gutenberghiana e degli “intellettuali di base”, un soddisfacente grado di pluralismo dei media e una certa tendenza allo scambio orale (un adeguato “capitale sociale”, nel senso di Robert Putnam).
Sono anche convinto che il modello (che dovrebbe coprire, per il mondo occidentale, come minimo il periodo tra la seconda guerra mondiale e la fine dell’URSS) oggi non possa più funzionare soddisfacentemente, in quanto di fatto diverse precondizioni sociali della democrazia stanno venendo meno. Tra l’altro è aumentata notevolmente la “classe degli esclusi” (nel senso di Dahrendorf), è aumentato l’assenteismo elettorale, ed è diminuito il consenso al sistema politico e sociale. Faccio riferimento in particolare alle tesi di Colin Crouch sulla “postdemocrazia”.
Le cause della crisi nei paesi occidentali sono necessariamente numerosissime e complesse. Elenco alla buona quelle che a me sembrano pertinenti con il nostro discorso:
nel mondo del lavoro, la sensazione di una sconfitta strategica operaia (almeno in certi paesi), la delocalizzazione, l’outsourcing, la precarizzazione, la flessibilizzazione, l’aumento della concorrenza individuale come fattori di un maggior isolamento individuale, di una scarsa efficacia dell’azione sindacale, della diminuzione del “capitale sociale” operaio, di un’oralità sempre più decomposta, ecc.;
nel mondo dell’educazione, la diminuzione delle spese di welfare, che riguardano sia l’educazione familiare sia l’istruzione scolastica, (il risultato è la diminuzione sia della qualità della cultura popolare e sia della qualità e della quantità degli intellettuali di base);
nel mondo dei media, la crisi del quotidiano, la crescente cartellizzazione dei grandi media, l’abbassamento del livello culturale della tv di massa, la frammentazione dei pubblici e la separazione crescente tra i media di qualità e la tv generalista gratuita: il risultato è il peggioramento qualitativo della cultura popolare e la segmentazione crescente dell’opinione pubblica;
nel mondo dell’economia capitalistica, l’aumento della scala dei grandi soggetti economici globali, che tendono a diventare, per la loro stessa grandezza e per il loro raggio d’azione, dei soggetti politici, con i rischi che ne conseguono per la democrazia;
nel mondo politico, l’aumento dei costi della politica, l’aumento dei casi di corruzione, l’elusione da parte dell’agenda politica dei temi dello welfare: qui il risultato è direttamente la perdita di consenso del sistema e l’aumento dell’anomia e dell’astensionismo;
nel mondo urbano, lo sviluppo di no-man lands di immigrati ed “esclusi” nelle grandi conurbazioni e di quartieri-fortezza per le élite, insieme al degrado progressivo degli spazi abitativi del ceto medio: il risultato è una diminuzione della socialità orale e della perdita di “capitale sociale” complessivo;
nel mondo culturale, l’egemonia del neoliberismo e della cultura pub-blicitaria consumistica da una parte, del patriottismo etnico e del patriottismo di civiltà (cultura dello “scontro di civiltà”) dall’altra: il risultato è una prevalenza contemporanea dei temi dello sviluppo economico (a scapito degli aspetti sociali ed ecologici) e dei temi della sicurezza all’interno e all’estero, con il relativo declino dei temi della solidarietà, della libertà e della pace (tendenza all’autoritarismo all’interno e alla militarizzazione della politica all’estero).
5. alcune teorie di riferimento: Neil Postman e Joshua Meyrowitz
Veniamo dunque alle trasformazioni odierne della circolazione democratica della comunicazione.
Una prima ipotesi che prendo in considerazione è quella per cui la televisione generalista commerciale, nella sua fase di neotelevisione, tenda a svalutare, presso bambini e adolescenti, l’autorità degli adulti, siano essi genitori, insegnanti, generici conoscenti, passanti, ecc. Su questo è ancora interessante il testo molto pessimista di Postman del 1979, Ecologia dei media. L'insegnamento come attività conservatrice, peraltro molto contestato dai massmediologi. Più equilibrate e articolate appaiono le tesi di Joshua Meyrowitz, esposte in Oltre il senso del luogo. Come i media elettronici influenzano il comportamento sociale (ediz. orig. 1985). Qui il declino dell’autorità – che è visto anche in modo positivo - deriva dalla scoperta infantile, grazie alla tv, dei “retroscena” degli adulti (studiata sulla base della “sociologia drammaturgica” di Goffman) e dalla possibilità di accesso alle loro conoscenze riservate. Meyrowitz si riferisce soprattutto ad una situazione in cui il padre e marito gioca in casa il ruolo di chi si avventura normalmente nel mondo esterno, per cui la tv può fungere da “finestra supplementare”, mettendo in questione il suo monopolio. Lo studioso sottolinea il fatto che la prima generazione televisiva (nel 54-55 metà delle famiglie americane hanno la tv) è anche la generazione della ribellione universitaria degli anni 60 alle autorità e alle istituzioni.
In realtà, anche se in modo un po’ meno forte ed evidente, probabilmente nel mondo moderno hanno avuto ed hanno un’influenza simile a quella della tv anche vari tipi di libri per ragazzi, nonché i fumetti in genere, il cinema, e anche la radio, che Meyrowitz non considera. In effetti, al di là delle caratteristiche macluhaniane del medium televisivo (occhio supplementare sulla realtà, finestra supplementare della casa di famiglia), contano anche le funzioni economiche, sociali e culturali dei diversi media. In particolare: 1)libri, fumetti e film che si rivolgono ad un bambino-adolescente, autonomo (nel suo piccolo) nelle decisioni di spesa, sanno di fargli cosa gradita vendendogli un messaggio che potenzia l’immagine di sé e, spesso, che depotenzia quella degli adulti (Pa-perino e i Nipotini credo siano l’esempio più ovvio), 2)gli inserzionisti ospitati sui vari media, ma anche i creatori di programmi non pubblicitari per media privati che devono attrarre audience per pubblicità a pagamento, sono oggettivamente interessati a sviluppare l’immagine del bambino-adolescente come soggetto di consumo autonomo dai genitori (questo perché l’inserzionista paga per rivolgersi ad un pubblico ben disposto).
Né il pessimista Postman né il possibilista Meyrowitz prendono in considerazione questi meccanismi socioeconomici fondamentali. Comunque l’atteggiamento possibilista mi sembra più fecondo: l’autonomia crescente dei giovani può avere, a seconda delle circostanze storiche, tanto un segno negativo – ribellione aprioristica, rifiuto di ereditare qualunque forma di cultura tramandata, ecc., quanto positivo – maggiore autostima, sperimentazione di vie nuove, ecc. Così il ridimensionamento dei politici a familiari mezzibusti televisivi (Meyrowitz) può accompagnarsi tanto con una crescita dell’autonomia del cittadino quanto con un atteggiamento di delusione e disincanto.
Partendo da questi due autori si possono trarre anche altre suggestioni di stampo macluhaniano: il mondo degli adulti, almeno in certe congiunture generazionali e sociali, si è contrapposto come mondo tendenzialmente guten-berghiano a generazioni di giovani ormai abituati al flusso televisivo di immagini.
Dice Postman: il “curriculum televisivo” dà una gratificazione immediata al suo “studente”, mentre la scuola è fondata sul differimento della gratificazione; per questo, e anche perché il messaggio tv è basato sull’immediata presenza e visibilità dell’oggetto concreto mentre il messaggio gutenberghiano è essenzialmente astratto, la tv è emotivamente più forte della scuola e degli insegnanti. Il ritmo orario rigido delle lezioni non può competere con la sapiente regia dei programmi della tv, che suddivide il messaggio in segmenti di una decina di minuti, riconquistando ciclicamente l’attenzione dello spettatore con colpi di scena e mutamenti tematici, per trattenerlo sul proprio canale. Egualmente la descrizione verbale dell’insegnante, per quanto integrata da immagini, non può competere con la potenza del flusso televisivo (certo, Postman si riferisce alla tv privata a caccia di audience, che è il suo solo oggetto di indagine: la paleotelevisione pubblica europea usava il flusso di immagini e suoni dosandolo nella quantità -basso numero di emittenti e di ore di trasmissione- e regolandone i contenuti in modo tale che potesse fare solo una blanda concorrenza alla scuola, e talora era addirittura usata come parte o come surrogato dell’insegnamento).
Lo stesso discorso si può applicare all’informazione e al commento politico nella neotelevisione: la presenza concreta sullo schermo della perso-na (cioè dell’uomo politico mezzobusto di cui parla Meyrowitz), ma anche dell’evento spettacolare, e la confidenza nel commentatore televisivo rendono meno appetibile per il cittadino comune l’informazione e il commento dell’intellettuale di base, per quanto bravo nel decifrare gli aspetti astratti e specialistici dei quotidiani di qualità. La neotelevisione privata, nel suo flusso di immagini, presenta il messaggio già in forma concreta e spettacolare e fa sentire il cittadino comune autonomo dall’intellettuale di base e dalle sue interpretazioni.
In sintesi, vengono a sommarsi la perdita di autorevolezza dell’adulto, quella dell’insegnante, quella del politico e quella dell’intellettuale di base (secondo Postman e Meyrowitz), a favore della tv, a causa soprattutto dell’evidenza della sua visione. L’abitudine del bambino a guardare con sufficienza l’autorità degli adulti rispetto a quella della tv potrà tradursi in età adolescenziale in un rinforzo della fiducia in questo medium rispetto agli insegnanti e in età adulta rispetto ai conoscenti intellettuali e naturalmente ai politici.
Certo, le tesi di Postman e di Meyrowitz sono ben lungi dal fare l’unanimità tra gli scienziati della comunicazione. A me però sembrano feconde per capire i rapporti tra “conversazione sociale” e democrazia.
6. l’ipotesi: la neotelevisione toglie progressivamente senso allo scambio comunicativo orale con gli intellettuali di base
Intendo per “sistema di neotelevisione” una situazione in cui un pubblico popolare incapace di fruire dei giornali di qualità ha a disposizione una serie indefinita di trasmissioni a flusso continuo da parte di emittenti finanziate con le entrate pubblicitarie o comunque da esse condizionate, e tese a creare una fidelizzazione dell’audience. In tale situazione, dunque, è ipotizzabile che il pubblico, più spesso che in passato, preferisca le tv, i loro commentatori e le loro star agli “intellettuali di base” come fonte delle notizie e come fonte di interpretazione delle notizie. La neotelevisione offre sia notizie in forma di immagine, apparentemente meno bisognose di interpretazione di quelle dei giornali, sia commenti alle notizie, alimentando l’autostima dello spettatore e dandogli l’impressione di essere competente. Le parole dell’intellettuale di base difficilmente possono reggere il confronto con l’evidenza delle immagini e i suoi commenti difficilmente possono eguagliare l’arguzia e lo spirito dei commentatori professionali.
Nel contesto della crisi della democrazia e del rafforzamento degli oligopoli mediali, l’aumento dell’impiego della tv come strumento di informazione e di interpretazione dei fatti ai danni della conversazione con gli intellettuali di base tende a costituire un fattore di aggravamento della crisi, permettendo tra l’altro a chi controlla oligopolisticamente i media di optare per una politica-spettacolo ai danni di una politica della ragione. Questo non significa necessariamente che la neotelevisione sia stata la causa principale della diffusione della politica spettacolo. Essa però ha costituito un’opportunità e una risorsa per una tale diffusione.
Certo il ruolo della neotelevisione va contestualizzato nella crisi delle varie agenzie di socializzazione, educazione ed istruzione, e inoltre nei trend psicologici che derivano da una serie di errori e di sconfitte storiche del movimento operaio. Credo che il problema attuale per la sopravvivenza sostanziale della democrazia non sia ormai più il ruolo in essa della classe operaia, ma quello delle classi medie.
In effetti, i media commerciali non sembrano aver giocato un ruolo significativo nella sconfitta politico-sindacale della classe operaia (o, a seconda dei paesi, nella sua dissoluzione strutturale relativamente inavvertita), limitandosi soprattutto a suggellare sul piano culturale i risultati di un attacco sociale, economico e politico contro di essa. Inoltre, credo che, almeno in Italia, la sconfitta sia arrivata prima dell’eventuale trasformazione della conversazione sociale operaia.
Diverso è il caso delle classi medie, da sempre base elettorale dei partiti che difendono il potere sociale capitalistico e soggette alla sua egemonia culturale. Ma la loro subalternità non era assoluta: le politiche nazionali di welfare, le politiche della scuola, le protezioni doganali, i prestiti agevolati alle piccole imprese, ecc. hanno difeso nella ormai trascorsa “età dell’oro” le classi medie nazionali: il loro consenso politico è stato “ragionevolmente” compensato. Ora i settori economicamente più deboli di esse sono sempre più vittime della globalizzazione e talora rischiano drastiche cadute di reddito e di status; ciononostante, a parte una significativa frangia di non voto, danno il loro consenso (o si lasciano estorcere il consenso) a politiche furiosamente neoliberiste. É forse qui, nella frangia economica e culturale più bassa di queste classi, che gli effetti della caduta di qualità della conversazione sociale si fanno sentire e si potranno far sentire ancora in futuro.
Esistono strumenti attendibili per studiare la conversazione sociale in quanto tale? É possibile definire in modo empiricamente soddisfacente la figura dell’intellettuale di base, per ora definita solo teoricamente? Non è facile dirlo. Un possibile punto di partenza per la ricerca sulla conversazione sociale democratica è il parere allarmato di quei psicologi e psicoterapeuti che denunciano la tendenza odierna al declino della razionalità e del buon senso, e quindi della capacità di valutare correttamente le proprie competenze e di fare ricorso in modo appropriato ad essa.
Si potrebbe obiettare che i problemi considerati riguardano soprattutto il passato prossimo, dato che l’epoca della neotelevisione è ormai finita. Purtroppo il dato tecnico del declino della tv generalista a favore delle nuove forme di tv e di Internet di per sé non mi sembra decisivo da solo per la ripresa della razionalità nella formazione delle opinioni. La visione piuttosto tecnocentrica di Postman e di Meyrowitz, che non sembrano percepire la continuità tra fumetto, cinema e neotelevisione nella formazione di bambini e adolescenti, è ripresa oggi da chi esalta unilateralmente Internet come scuola di democrazia. L’Internet commerciale (che per fortuna non esaurisce il web) obbedisce anch’essa in qualche misura alle strategie di venditori e inserzionisti; inoltre si rivolge ad un pubblico formato dalla neotelevisione. Anche internet dev’essere pensata in un contesto di lotta per l’egemonia.
7. il caso italiano: neotelevisione ed egemonia culturale fininvest
Le ipotesi presentate, nate dall’esperienza americana, come qualunque ipotesi sul mondo storico-sociale, pongono molti problemi nella generalizzazione e nell’applicazione a casi particolari. Certo i paesi nordici a cultura social-democratica, a elevata scolarizzazione e per di più dotati di sistemi mediali e televisivi di buona qualità non sono i più adatti per applicarle. I paesi latini sembrano più adatti. E l’Italia più di tutti per la velocità del passaggio da paleo-tv a neo-tv nel corso degli anni 80, in connessione con le debolezze della scuola di massa, la tendenza all’analfabetismo di ritorno e la debole diffusione del giornale di qualità e del libro. Ciò che è unico nel mondo occidentale (come è stato ripetuto ormai infinite volte) è la creazione di un partito - praticamente identificato con un’impresa di neotelevisione - capace di una potente affermazione elettorale nell’arco di pochi mesi. E questo subito dopo il primo decennio di neotelevisione. Il colore politico e anche lo stile partecipativo dei cittadini educati dalla tv qui sono molto diversi (opposti, si direbbe) dal caso considerato da Meyrowitz. Tuttavia la profonda svolta generazionale e la rottura con autorità e istituzioni tradizionali hanno una certa analogia con esso.
Certo, qui, non meno che altrove, la conversazione politica tra i cittadini è molto difficile da studiare. E inoltre i problemi che derivano alla formazione del cittadino e allo sviluppo della conversazione democratica dalle difficoltà del sistema scolastico e dalla pervasività della neotelevisione possono essere confusi con altri: in particolare alcune categorie di intellettuali di base hanno perso di credibilità per la loro partecipazione all’estremismo politico, altre per il loro coinvolgimento nella corruzione partitica. L’antipolitica, per quanto alimentata dalle tv private, non è certo una loro invenzione (anche se ci si deve chiedere come abbia fatto l’antipolitica a trasformarsi in positiva fiducia per un leader condannato in appello per falsa testimonianza).
Il contesto in cui l’educazione televisiva e in genere la risorsa televisiva vanno considerate è quello della disfatta operaia e sindacale dei primi anni 80 e della successiva lotta per l’egemonia culturale. Berlusconi negli anni 80 non si è preoccupato solo di ottenere il dominio sul mercato delle frequenze (usando anche mezzi politici, come l’appoggio diretto di Craxi), ma in tale spazio ha promosso una versione originale italiana del neoliberismo-neoconservatorismo globale. Ha promosso una cultura della televisione commerciale che, nonostante le esitazioni davanti al parvenu lombardo da parte della crème delle élite economiche italiane nel 94, si è rivelata una formidabile risorsa per ricostituire un blocco sociale conservatore. Le tv Fininvest sembrano aver compiuto un’impresa non paventata da Meyrowitz o da Postman: la formazione di una comunità immaginaria televisiva.
La nascita di un partito, come pure di una grande associazione o di un movimento, i cui membri abbiano il senso di una comune appartenenza, è normalmente un fenomeno che richiede diversi anni e complesse vicende. Nel caso di Forza Italia, il partito è potuto nascere perché l’appartenenza si era già formata. E non si tratta di un’appartenenza solo illusoria e passiva: la comunità ha segni concreti di riconoscimento, come certi scherzi, battute e usi linguistici, certi soggetti di conversazione, certi bersagli polemici. Mentre le vecchie appartenenze politiche si venivano svuotando sempre più, nasceva questa nuova appartenenza culturale.
Invito alla lettura:
- aideM, Rivista di critica della comunicazione, n. 1. 2006 e n.2. 2007, Chimienti editore.
- Le débat - histoire, politique, société, n.132, novembre-décembre 2004 (numero monografico dedicato a L’enfant problème e alla crisi dell’autorità familiare)
- Alberto Abruzzese, Vincenzo Susca (a cura di), Immaginari postdemocratici. Nuovi media, cybercultura e forme di potere, Milano, Franco Angeli, 2006.
- Sara Bentivegna, Teorie delle comunicazioni di massa, Laterza, Roma-Bari 2003 (sulle teorie degli effetti dei media).
- Stefano Cristante, Potere e comunicazione. Sociologie dell'opinione pubblica, Liguori, Napoli, 2004.
- Colin Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2003.
- Derrick De Kerckhove, Antonio Tursi (a cura di), Dopo la democrazia? Il potere e la sfera pubblica nell’epoca delle reti, Apogeo, Milano, 2006.
- Stuart Hall, Politiche del quotidiano. Culture, identità e senso comune. Il Saggiatore 2006 (raccolta di saggi di un esponente della scuola di Birmin-gham).
- Christopher Lasch, La cultura del narcisismo, Bompiani 1981.
- ID., La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia, Feltrinelli 1995
- Charles Melman, L’homme sans gravité. Entretiens avec Jean-Pierre Lebrun, Paris, Denoël, 2002.
- Yoshua Meyrowitz, Oltre il senso del luogo. Come i media elettronici influenzano il comportamento sociale, Baskerville, Bologna 1995.
- Neil Postman, Ecologia dei media. L'insegnamento come attività conservatri-ce, A. Armando editore, 1991.
- Neil Postman, Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo, Marsilio, Venezia 2002.
- Neil Postman, La scomparsa dell’infanzia. Ecologia delle età della vita, A. Armando, Roma 1994.
- Robert Putnam, Capitale sociale e individualismo. Crisi e rinascita della cultura civica in America, Il Mulino, Bologna, 2000.
- Richard Sennett, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale. Feltrinelli 2001
20 aprile 2008
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