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per un nuovo "j'accuse" degli intellettuali contro il blocco potere-denaro-media e in difesa della democrazia
Federico Repetto
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Gli intellettuali, presidio della democrazia
Habermas, in un saggio di ormai quarant'anni fa, ci ha fornito una straordinaria descrizione della funzione degli intellettuali in un regime liberale predemocratico: nell'Inghilterra del Settecento, con la nascita dei quotidiani e la diffusione del dibattito aperto nell'opinione pubblica, un correttivo del potere separato e autonomo del Parlamento fu la libera circolazione e la concorrenza illimitata delle idee tra soggetti critici, liberi e informati, capaci di esercitare una pressione sulle sue decisioni, facendo uso (tra l'altro) di argomentazioni razionali. E la critica del Parlamento (nome di per sé emblematico) traeva alimento dalla critica reciproca degli intellettuali e dalla discussione all'infinito nell'opinione pubblica.
Nella fase democratica dello Stato moderno, quando il suffragio si diffonde, la concorrenza tra le testate giornalistiche e quindi tra le idee diventa limitata, imperfetta, a causa delle "grandi organizzazioni" moderne (trust giornalistici privati e giornali di partito), mentre il nuovo pubblico di massa, di recente alfabetizzazione, ha minori capacità critiche.
Habermas presentò in seguito in varie occasioni (per lo più in modo piuttosto sommario) alcune ipotesi per l'instaurazione di istanze critiche nella democrazia contemporanea di massa: la democratizzazione interna delle grandi organizzazioni e la Bürgerinitiative (l'iniziativa propositiva dei cittadini associati nella società civile) nei confronti dello Stato.
Un'ipotesi aggiuntiva possiamo trarla da uno studio di cinquant'anni fa di Lazarsfeld, uno dei pionieri della ricerca sulle comunicazioni: l'esistenza di opinion leaders di base - quegli intellettuali di base, dal parroco al farmacista, dal veterinario all'autodidatta accanito lettore di giornali che hanno una capacità di informazione autonoma sugli eventi politici e che mediano le notizie ufficiali in modo critico alla gente comune. Lazarsfeld constatava che gli opinion leader di base erano in grado di contrastare l'influenza dei media dell'epoca.
Questa ipotesi funziona bene per la democrazia angloamericana o nordeuropea, mentre nella travagliata storia europea continentale talora gli opinion leader di base sono stati coinvolti in movimenti diretti dall'alto e anche in regimi totalitari. Ma, anche se, per quanto ne so, il fenomeno non è stato specificamente studiato, è difficile pensare che, nei lunghi periodi di regime democratico, questi intellettuali da osteria, da parrocchia e da casa del popolo non abbiano avuto una importante funzione di filtro tra i media, espressione dei vertici del potere sociale, e il grande pubblico.
Un altro elemento costitutivo dei regimi liberaldemocratici è l'esistenza di una cultura diffusa basata sull'individualismo razionalistico e sulla difesa degli interessi comuni agli individui su base razionale (Christopher Lasch ritiene che questo tipo di mentalità abbia tenuto a livello di massa per buona parte del secolo XX: del suo declino vedremo fra poco)
Quali possono essere le radici della fiducia negli opinion leader "da osteria"? L'accettazione della loro interpretazione delle informazioni da parte della gente comune del loro ambiente è per certi versi una scelta legata ad una comune appartenenza identitaria o ideologica, e questo è un aspetto talora deteriore: right or wrong - my country (my class, my religion, my party, etc.). Ma è anche una scelta legata ad una comune mentalità di sfondo razionalistica: l'opinion leader è visto come uno che ha una seria competenza, sa calcolare gli interessi, ha una visione d'insieme, e si dedica con passione al sapere e al bene pubblico. Ed è infine una scelta di saggezza (sapere di non sapere e affidarsi a chi sa) che però presuppone l'esistenza di un'autorevolezza degli opinion leader stessi. Si tratta dell'autorità intellettuale di uomini liberi su altri uomini liberi, un'autorità attribuita da chi vi si sottomette, non originaria, tradizionale e data per scontata da sempre. Essa nasce dalla credibilità dell'interlocutore in un rapporto "face to face", in un rapporto in cui l'uomo comune può esercitare la sua saggezza pratica ("di questo mi posso fidare").
I presupposti comunitari della democrazia liberale: la tradizione della critica delle tradizioni e l'autorità paterna degli uomini liberi.
Tale autorevolezza ci rimanda alla più generale missione di illuminazione che gli intellettuali moderni si sono (come dice Bauman) "autoconferita": Emile Zola, Romain Rolland e Julien Benda all'inizio del Novecento hanno ripreso quest'idea illuministica, insistendo sul fatto che proprio gli intellettuali, che si occupano del vero, del giusto e del bello in sé, indipendentemente dai condizionamenti del potere, hanno come missione la difesa di questi valori da ogni manipolazione proveniente dall'alto. Si pensi anche alla concezione di Popper di una tradizione critica e autocritica, una tradizione aperta, la cui regola sia quella che ogni idea preconcetta possa essere messa in discussione. Ma ogni tradizione ha bisogno di comunità: anche il razionalismo individualistico, che promuove l'autonomia dell'individuo, ha bisogno di un contesto comunitario capace di far nascere uomini liberi e autonomi: essi, almeno in massa e su base stabile, non si generano da soli, per autogenerazione.
A partire da un momento dato, ogni generazione di uomini liberi ha fatto nascere e formato un'altra generazione di uomini liberi: noi abbiamo imparato a diventare liberi subendo il comando paterno e materno. E se non avessimo subìto l'autorità genitoriale, non avremmo appreso l'autonomia.
L'autorità paterna, la tradizione critica e l'esistenza dei grandi intellettuali e degli opinion leader di base sono tutti prodotti della società civile. Lo Stato liberale, che non ha un'ideologia ufficiale, tuttavia non può lasciare che la società civile e gli ambiti comunitari e familiari siano corrosi da fattori disgreganti ed esauriscano la loro capacità formativa, e deve aiutarli a conservarla, favorendo ufficialmente e sistematicamente non solo il "patriottismo costituzionale" e l'etica pubblica, ma in genere tutti i processi che portano alla formazione dei soggetti autonomi razionali, capaci di discorso e di dialogo.
Presupposto di tale formazione non è certo un qualche modello tradizionale di famiglia, ma tutta una gamma di entità comunitarie che necessitano di protezione e assistenza (i diritti sociali del resto sono strettamente collegati a quelli politici e civili). Queste agenzie di formazione sono grosso modo: le famiglie tradizionali e non-tradizionali, le associazioni culturali della società civile e le istituzioni scolastiche (anche quelle pubbliche, che, data la libertà di stampa, di insegnamento e di discussione, sono di fatto in una certa misura degli organi della società civile).
La società senza padre: l'individuo crea se stesso?
La teoria liberale e libertaria ha spesso confuso l'autonomia razionale dell'individuo con una sua titanica autogenerazione dal nulla e la critica delle comunità oppressive con la critica di qualunque forma di autorità interna alla società civile. L'esito della rivendicazione libertaria di una "società senza padre" (si pensi al vecchio libro di Mitscherlich) ai tempi dello Stato Sociale fu quello di deresponsabilizzare, giuridicizzare e medicalizzare le comunità e la famiglia e di sottoporre i nodi vitali della società civile all'intervento amministrativo continuo dello stato. Intervento il cui scopo non è quello di rafforzare la capacità di formazione educativa e la produzione di autorevolezza all'interno della società civile - contestate dai movimenti degli anni sessanta e settanta - ma invece di sostituire l'autorità e la responsabilità genitoriale con interventi amministrativi. Il permissivismo, nei limiti dello Stato Sociale, non potendo diventare anarchia pura, induce lo Stato a camuffare l'intervento coercitivo da intervento terapeutico, moralmente del tutto neutrale (come ha ben visto Christopher Lasch).
Ma l'autorevolezza dei genitori, degli insegnanti e degli opinion leader di base è altresì minata dallo sviluppo della tv. Secondo lo straordinario saggio di Joshua Meyrovitz Oltre il senso del luogo, la contestazione nelle scuole americane negli anni sessanta e il femminismo del periodo successivo hanno un nesso significativo con la diffusione capillare della tv nel breve periodo tra la fine della guerra e la metà degli anni cinquanta, che ha aperto una nuova "finestra" nelle mura della casa delle famiglie dei ceti medi, svelando i retroscena degli adulti e dei mariti, i quali persero allora quell'autorevolezza che derivava loro dal quasi monopolio dei rapporti con lo spazio esterno. La tv che, secondo alcuni analisti, costituiva un compenso per la reclusione casalinga delle donne cacciate dal mercato del lavoro dai maschi reduci di guerra, era anche però una comoda finestra sul cortile del mondo anche per quelle donne della middle class che non si erano nemmeno affacciate al mercato del lavoro. La figura paterna maschile era minacciata anche da questo lato, senza che una qualche nuova forma di autorità genitoriale fosse in grado di sostituirla soddisfacentemente.
Sotto lo Stato neoliberista odierno, ridotto a Stato Minimo dalle forze potenti della globalizzazione, il sistema formativo pubblico è in declino e l'assistenza alle comunità è ridotta ai minimi termini. La risposta alla perdita di autorità e di capacità formativa della società civile è la criminalizzazione e la segregazione degli individui non ben formati, dei devianti. Se lo Stato Minimo riesce ad ottenere comunque l'obbedienza con la coercizione, non sembra che la sua autorevolezza e il suo carisma nei confronti dell'insieme della popolazione sia cresciuto rispetto al permissivo Stato Sociale: secondo Meyrowitz, la tv dà una dimensione quotidiana ai leader politici e ne abbassa la statura (li riduce a familiari "mezzi busti"). In sostanza, il trend dominante è quello per cui l'individualismo razionalistico e acquisitivo, prodotto dalla scuola e dalla famiglia tradizionale, è sostituito dall'"Io minimo", dotato di un'identità debole e di una scarsa propensione a progettare il futuro, e alieno dall'assumersi responsabilità - di cui parla Lasch.
La politica centrata sul denaro e sui media e il declino degli opinion leader da osteria
La società postindustriale ha progressivamente eroso il senso di appartenenza delle masse, per cui le campagne elettorali usufruiscono sempre meno dell'apporto gratuito dei militanti di base. Lo Stato Sociale del resto aveva già da tempo messo sotto il controllo dei politici somme ingenti, che permettevano loro di fare progressivamente a meno dei militanti, diminuendone l'influenza politica. Le spese delle campagne elettorali, per un trend generale che riguarda anche la pubblicità commerciale, sono venute aumentando progressivamente negli ultimi decenni, rafforzando il potere del denaro all'interno del mondo della politica (si veda su questo il bel saggio di Enrico Melchionda)
Tuttavia si poteva sperare che il declino della militanza fosse controbilanciato dalla scolarizzazione di massa e dall'aumento generale della cultura, oltre che dalla presenza degli opinion leader da osteria. In realtà il protrarsi nel tempo dell'istruzione è compensato negativamente dal suo peggioramento qualitativo e dall'effetto destrutturante del "curriculum tv" che si impone sul curriculum formale della scuola: questa situazione è stata denunciata più volte, tra l'altro, da Neil Postman e, in Italia, da Giovanni Sartori. Quanto agli opinion leader da osteria, essi, non meno degli insegnanti e dei genitori, vedono la loro autorevolezza diminuire a causa del discorso in prima persona che la tv rivolge al suo utente. Il rapporto "diretto" (benché elettronicamente mediato) tra leader e elettore rende poco attraente la discussione da osteria tra elettori e leader di base.
Se sono vere le descrizioni di Lasch e di Postman dell'Io minimo, l'elettore medio della democrazia occidentale oggi si trova non solo nell'impossibilità di valutare tecnicamente l'informazione, ma anche nell'impossibilità di essere conscio dei suoi stessi limiti e di accorgersi di aver bisogno degli opinion leader da osteria: l'informazione televisiva appare come autoevidente, lo schermo rende presente a noi la realtà, per cui non sentiamo il bisogno di intermediari, come ha ben visto Postman. D'altra parte il leader tv non assomiglia al grande leader popolare di una volta - l'uomo che parla dal palco: il leader televisivo non è un condottiero, un duce, un patriarca o un padre (redivivo), ma uno "zio" (come disse una volta Umberto Eco di Berlusconi) e ha un'autorevolezza limitata e provvisoria, o piuttosto una capacità seduttiva. Per cui difficilmente un leader politico può essere avvertito come un pericolo per la nostra autonomia.
Minacce alla democrazia liberale.
La sindrome per cui politica-capitale-tv costituiscono tendenzialmente un unico blocco di potere costituisce una minaccia alla democrazia policratica, come sistema basato su di una pluralità di poteri politici, economici e sociali, e animato dal dibattito critico tra soggetti autonomi razionali.
Una minaccia al discorso razionale e critico dei grandi intellettuali è costituita dall'invadenza del "campo giornalistico" (basato oggi sulle regole della notorietà e dell'audience di massa) nel "campo scientifico", basato su regole di competenza e di autorevolezza di tipo professionale (come ha denunciato Pierre Bourdieu, in Sulla televisione).
D'altro canto, la demolizione progressiva dello Stato Sociale e l'indebolimento del sistema pubblico di istruzione rende più problematica la formazione degli opinion leader di base, e colpisce economicamente in particolare gli insegnanti e i lavoratori intellettuali non direttamente collegati al sistema produttivo e mediatico.
La diffusione della rete internet ha indubbiamente contribuito alla nascita delle nuove comunità virtuali, di nuove forme di informazione e di comunicazione razionale e, in ultima analisi, di nuove opportunità per la democrazia, instaurando, come mostra il bel libro di Franco Carlini, Internet, Pinocchio e il gendarme, quel dialogo attivo tra soggetto e soggetto, che ai tempi del monopolio esclusivo della tv generalista e, prima ancora, della grande stampa di massa, era possibile solo nel piccolo e chiuso mondo dei salotti o delle osterie.
Tuttavia internet non costituisce - presa da sola - una liberazione tecnologica, ma resta un fenomeno ambivalente. Essa potenzia ulteriormente le capacità di quanti hanno già una formazione critica e razionale, e crea nuove opportunità di espansione dell'immaginazione e dei rapporti umani per una élite, seppur abbastanza vasta. Al grande pubblico che si affaccia al mondo multicolore del web (le generazioni formate dalla tv), internet si presenta già colonizzata dalla pubblicità. Né per ora è riuscita a scalzare la tv nei ceti popolari, che spesso usano la rete come un potenziamento dello zapping di evasione, o come una fonte di videogiochi e gadget di ogni tipo.
Ma mentre questo nuovo potenziale alleato del dialogo democratico comincia a fare le sue prove, nuove minacce - ancora più gravi - derivano oggi dalla militarizzazione della democrazia in seguito ai fatti dell'11 settembre 2001, come Nuvole ha sottolineato nel suo editoriale del numero scorso.
Per un nuovo j'accuse: gli intellettuali si devono levare in difesa della democrazia.
Gli intellettuali, per il pensiero democratico radicale, hanno quasi giocato il ruolo di "classe universale" che la classe operaia ha giocato per il pensiero socialista, anche se spesso questo ruolo è stato visto in interazione con la classe operaia stessa. Se Habermas ha sottolineato la loro funzione nella democrazia liberale della discussione razionale - che è il loro proprio campo - molto prima Mannheim aveva sottolineato la loro capacità di creare utopie riformatrici, mentre Touraine, agli albori della società postindustriale, ha visto nei ceti intellettuali professionali la (possibile) coscienza critica della nuova formazione sociale che stava nascendo.
È tuttavia possibile, ed auspicabile che, nell'attuale società globale dell'informazione, ci sia una ripresa dell'opposizione sociale da parte delle nuove forme di lavoro dipendente, o dei consumatori, o dei giovani. Ma gli intellettuali, "grandi" o "piccoli" possono e devono prendere coscienza dell'attuale crisi della democrazia e reagire energicamente contro di essa, perché sono in gioco con essa la loro identità, il ruolo e talora i loro mezzi di vita.
Le loro risorse principali, benché oggi svalutate, sono la conoscenza e l'autorevolezza. Rivalutare l'autorevolezza dipende anche dagli intellettuali stessi - che devono superare l'idea liberale-libertaria della morte del padre. Al posto di un pensiero debole, o, come dice Rorty, di un "liberalismo fiacco", abbiamo bisogno di una sorta di "fondamentalismo della ragione", di un'etica o di una religione laica dell'antifanatismo e della tolleranza, come quella proposta all'inizio del Novecento da Zola, e poi da Roland e da Benda. Gli intellettuali - in nome dell'avalutatività scientifica - non possono più essere eticamente neutri nei confronti della democrazia: devono proporla e proclamarla pubblicamente con autorevolezza, perché ne conoscono il valore, perché essa è parte integrante della loro professione e della loro esperienza di vita. L'uso del linguaggio e del dialogo, della parola scritta e parlata, costituiscono l'oggetto stesso del mestiere dell'intellettuale. Se esso deve necessariamente rinnovare i suoi strumenti di lavoro e di comunicazione, confrontandosi con la sfida del mondo dell'immagine e dell'informatica, è però impensabile che rinunci alla difesa dei valori della critica e dell'autonomia di fronte al nuovo sistema monocratico politica-capitale-tv, che sta avanzando ovunque, e con particolare forza in Italia.
La difesa della scuola pubblica e dell'assistenza pubblica a tutte le agenzie formative (associazioni e comunità familiari) ne costituisce un momento indispensabile. Ma la difesa dei diritti sociali concreti non può disgiungersi da quella -senza compromessi- dei valori etico-politici della legalità democratica costituzionale, perché la missione dell'intellettuale riguarda proprio i principi primi, al di là delle contingenze.
Bibliografia essenziale:
Jürgen Habermas, Storia e critica dell'opinione pubblica, Laterza, 1991.
Michael Walzer, L'intellettuale militante, Il Mulino, 1991 (il primo capitolo è dedicato a Lucine Benda)
Julien Benda, Il tradimento dei chierici, Einaudi, 1976.
Neil Postman, Ecologia dei media. L'insegnamento come attività conservatrice, A. Armando, 1981.
Joshua Meyrowitz, Oltre il senso del luogo, Baskerville, 1995.
Christopher Lasch, La cultura del narcisismo, Bompiani, 1981.
Christopher Lasch, L'io minimo, Feltrinelli, 1985.
Enrico Melchionda, Il finanziamento della politica, Editori Riuniti, 1997.
Pierre Bourdieu, Sulla televisione, Feltrinelli, 1997.
Franco Carlini, Internet, Pinocchio e il gendarme. Le prospettive della democrazia in rete, Manifestolibri, 1996.
Philippe Breton, Il culto di Internet. L'interconnessione globale e la fine del legame sociale. Testo&immagine, 2001.
febbraio 2002
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