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Media, pubblicità e formazione democratica del cittadino
Federico Repetto
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Prefazione
Questo intervento è dedicato a quei colleghi insegnati che siano interessati a ragionare sugli eventi generali che coinvolgono adesso la scuola e la società italiana, facendo un passo indietro e guardando all'evoluzione (o involuzione) civile degli ultimi vent'anni.
Il testo che segue, che è stato impiegato in una quinta liceo scientifico, fornisce una rapida presentazione dei meccanismi economici che stanno dietro i grandi media privati. La pubblicità ci appare come una parte delimitata, isolata, delle trasmissioni radiotelevisive. In realtà essa condiziona la loro natura complessiva, per cui lo spirito dei vecchi film fatti per il cinema e pagati esplicitamente con il biglietto d'ingresso è ben diverso dalle trasmissioni gratuite, che in realtà siamo sempre noi a pagare comprando le merci. Ma il rischio è anche quello di pagarle non solo in termini di denaro ma anche di inquinamento culturale e perfino politico.
L'OPINIONE PUBBLICA DEMOCRATICA PRIMA DELLO SVILUPPO DELLA TV COMMERCIALE
Partiamo dal modello di opinione pubblica democratica che ci propone il sociologo Jürgen Habermas nell'ultima parte di "Storia e critica dell'opinione pubblica", riguardo al periodo immediatamente precedente allo sviluppo e alla diffusione massiccia della tv commerciale generalista, precedente cioè, per riprendere un'espressione di Eco, alla "neotelevisione" (a quell'avvolgente sistema di canali tv a colori presente 24 ore su 24 con molte possibilità simultanee di scelta e con programmi seriali studiati per le diverse ore del giorno).
In tale situazione (democrazia capitalistica) i media più potenti (giornali, radio, case di produzione cinematografica, "paleotelevisioni", ecc.) erano già sotto il controllo di una pluralità di poteri diversi, costituita dai vertici delle "grandi organizzazioni" che dominano la società contemporanea: le diverse istituzioni dello Stato, le grandi aziende pubbliche, i partiti, i sindacati e le varie associazioni di categoria, le istituzioni religiose, e, last but not least, i grandi gruppi capitalistici privati (inclusi quelli specializzati nei media).
Questa pluralità di poteri diversi è cosa assai diversa dal totalitarismo, in cui tutti i poteri (politici, economici e sociali) sono concentrati nel partito unico. Tuttavia la concorrenza tra i grandi media anche nelle democrazie attuali non è affatto perfetta, ma limitata da una situazione di oligopolio, in cui solo un ristretto numero di istituzioni e di grandi imprese controllano l'informazione e lo spettacolo radiotelevisivi, mentre per entità più piccole l'accesso è impossibile o possibile solo in modo marginale. Nel periodo pionieristico dei media (quello dei giornali del settecento e dell'ottocento), il pubblico poteva ancora abbastanza di frequente determinare il successo di nuove imprese giornalistiche e l'insuccesso di quelle già sul mercato con le sue scelte di acquisto. Viceversa nella nuova situazione diventa sempre più difficile per i piccoli capitali (o per i partiti e movimenti non forniti adeguatamente di denaro) conquistarsi uno spazio significativo nell'opinione pubblica.
Un tale oligopolio dei media configurerebbe dunque una libertà di informazione più formale che reale. La concorrenza tra le merci è pregiudicata a favore dei grandi gruppi capitalistici (trusts e "cartelli"), e la concorrenza tra le idee politiche è pregiudicata a favore di quel ristretto numero di partiti che hanno già occupato la scena del parlamento e della propaganda politica, disponendo di più denaro e di più possibilità di accesso ai media.
In tale situazione i cittadini si dovrebbero accontentare della semplice possibilità di reagire solo in un secondo momento attraverso il consumo (per quanto riguarda l'economia) e attraverso il voto (per quanto riguarda la politica), quando ormai le fondamentali scelte di lungo periodo sono già state fatte dai vertici delle imprese (scelte produttive) e dei partiti (programmi politici).
Ma anche se nella società democratica occidentale il potere decisionale reale è in mano ad alcune élites (peraltro in competizione tra loro), l'opinione pubblica dei cittadini, grazie ad una sostanziale libertà di espressione e di comunicazione e grazie alla capacità diffusa di informarsi e di esprimere la propria volontà, riesce almeno in parte a correggere tali decisioni in un rapporto dialettico continuo. La base dei cittadini che riceve i messaggi provenienti dall'alto può far sentire la sua voce in una maniera relativamente immediata e flessibile. Dalla lettera ai giornali allo sciopero, dalla creazione di comitati di iniziativa civica alla resistenza o al boicottaggio, dal declino dell'audience di certi media alle manifestazioni di piazza, molteplici sono le vie con cui essa si fa sentire, ben prima delle elezioni e soprattutto prima delle decisioni rilevanti, sia dello Stato sia del capitale privato. Ciò grazie anche ad una collaudata tradizione di risoluzione dei conflitti attraverso la discussione e il compromesso, grazie cioè a quella che si può chiamare la cultura democratica del discorso e del dialogo (rimando per questo al mio articolo "Cultura democratica del discorso" su Nuvole, 10, 1995). Si può integrare il modello di Habermas con l'osservazione che tra i vertici e i cittadini c'è un fondamentale tessuto connettivo, formato da quelli che potremmo chiamare gli intellettuali di base o opinion leaders di base. Essi si occupano di chiarire e di commentare, in un rapporto comunicativo solitamente orale, i messaggi o le informazioni prevalentemente scritti provenienti dai vertici e dal mondo intero. Si può trattare di parroci o di segretari della sezione locale di un partito, di farmacisti o di sindacalisti, di operai autodidatti o di maestri di scuola: la loro caratteristica generale è comunque quella di essere accaniti lettori di quotidiani, di avere una certa cultura generale e una buona capacità dialettica.
Se il cittadino medio non può di solito essere in grado di decifrare i messaggi complessi che gli vengono dal vasto mondo, può avere il buonsenso di scegliere, sulla base della sua esperienza di vita, i suoi esperti e i suoi consiglieri tra le persone più preparate del suo ambiente. Le catastrofi totalitarie di cui è costellata la storia della democrazia in questo secolo - si pensi al relativo successo elettorale del fascismo e del nazismo - mostrano che le sue scelte non sono infallibili. Ma anche le scelte delle élites hanno contribuito a quelle catastrofi: si pensi alla acquiescenza o al compromesso col fascismo e col nazismo di élites che si dicevano liberali.
LA MODERNIZZAZIONE ERODE I TESSUTI CONNETTIVI DELLA SOCIETA' DEMOCRATICA
Si direbbe che la situazione odierna sia caratterizzata da una tendenziale privatizzazione della vita e da un progressivo declino della funzione degli opinion leaders di base. Certo, la perdita di prestigio dei leaders di base in Italia e in altri paesi occidentali ha molteplici cause che non hanno alcun legame con l'avvento dei nuovi media - in primo luogo il riflusso nel privato dei movimenti politici degli anni sessanta-settanta. Per quanto riguarda l'Italia, in seguito anche Tangentopoli ha contribuito a erodere il prestigio di chi si occupa di politica ("o corrotto o fesso"). Quanto alla fuga nel privato, essa è una costante della cultura e della società moderna. Come insegnavano già i primi sociologi classici, la dimensione della società, in cui il rapporto tra gli individui è esteriore e non coinvolgente, in cui si entra in un rapporto di scambio sulla base di una coincidenza di interessi, in cui il pubblico resta separato dal privato, si allarga gradualmente a scapito di un'altra dimensione della vita umana, quella della comunità, in cui gli individui identificati da un legame di appartenenza sono coinvolti da valori e sentimenti comuni.
Certo, se la cosiddetta solitudine degli individui nel mondo moderno (la condizione di "folla solitaria") può portare anche ad un declino della discussione e della comunicazione politica, essa è compensata da un aumento della scolarizzazione e della competenza. Inoltre, per quanto possano anche scomparire del tutto certe vecchie forme comunitarie (la famiglia patriarcale, il villaggio, il gruppo dell'osteria…), ne nascono comunque sempre delle nuove, perché la stessa dimensione della società non potrebbe esistere se non ci fossero delle comunità che ci insegnano a vivere in essa e che le attribuiscono senso e valore. Non c'è proprio nulla di male, anzi, forse c'è qualcosa di bene, se alla famiglia patriarcale si sostituisce la famiglia mononucleare, e se alla chiusa comunità del paese e del quartiere si sostituisce il gruppo di amici dislocato sul territorio cittadino (o per il mondo, o per il cyberspazio) e scelto sulla base di interessi comuni.
Non intendo dunque riproporre una forma di romanticismo antitecnico e ultra-comunitario. Il punto è che l'avvento della tv commerciale ha dato un notevole contributo alla generale accelerazione forsennata del processo di modernizzazione. Questa accelerazione sembra ora mettere in seria difficoltà la capacità di adattamento e di trasformazione della dimensione comunitaria, nonché la formazione del buon senso e della capacità di fare esperienza da parte degli individui. Beninteso, qui ora potremo parlare solo del contributo dato dalla tv, ma esso va contestualizzato con la crescita e la diffusione di altri fenomeni legati allo sviluppo tecnico-industriale (l'auto individuale, l'uso dell'aereo, la mondializzazione delle comunicazioni, l'urbanizzazione quasi totale della vita collettiva, ecc.) nelle condizioni specifiche di una grande vittoria culturale e sociale del capitalismo liberista nel mondo occidentale a partire dalla fine degli anni settanta, poi rinforzata dalla scomparsa delle società socialiste di tipo sovietico con il crollo del muro di Berlino.
L'AVVENTO DELLA TV GENERALISTA E IL TRIONFO DEL MEDIUM IMMAGINE
Il secondo momento, l'avvento della neotelevisione, lo ricostruiremo soprattutto con l'aiuto di Neil Postman ("Ecologia dei media", tradotto dall'editore Armando nel 1981), che lo ha studiato precocemente alla fine degli anni settanta sulle prime generazioni americane formate davanti al teleschermo. Postman prospetta un vero e proprio processo di mutazione antropologica e un cambiamento delle modalità percettive e cognitive (una visione globale analoga la troviamo in "Homo sentiens" di Franco Ferrarotti e in "Homo videns" di Giovanni Sartori, entrambi pubblicati di recente da Laterza).
Oggi, il tempo passato mediamente dai bambini di fronte alla tv ha un posto centrale nella loro formazione, se confrontato, quanto a lunghezza, con quello passato a scuola, con gli altri bambini e con i genitori. Per questo Postman parla di un'educazione televisiva, di un "curriculum tv", che sta portando alla prevalenza della comunicazione attraverso l'immagine rispetto alla tradizionale comunicazione attraverso la parola verbale o scritta. La tv, il principale medium fondato sull'immagine, ci mette di fronte piuttosto che a descrizioni, argomentazioni, narrazioni verbali, a immagini-informazione, immagini-persuasione, immagini-narrazione.
L'immagine non ha e non può avere la forma di una proposizione, non ha soggetto e predicato, non è né vera né falsa, né giusta né ingiusta, ma suscita reazioni emotive immediate. Il bambino educato da una "bambinaia a immagini" è particolarmente sensibile a ciò che è concreto, immediato, emozionale, legato alla persona, ed è invece assai meno stimolato all'acquisizione della capacità di astrazione e della capacità di assumere una distanza critica rispetto ai propri desideri e sentimenti, capacità che tradizionalmente sono date dall'educazione attraverso la parola, orale e scritta. Inoltre le immagini rendono qualunque evento non solo vicino, ma presente: non solo notizie e fiction, ma anche eventi contemporanei, passati e futuri nell'educazione televisiva tendono ad appiattirsi. La tv ha il potere immenso di rendere visibile il mondo intero, di raccontarlo e di interpretarlo. Il suo motto è: "qui ci sono le immagini, in diretta, in tempo reale"; come potranno allora saperne di
più i genitori, gli insegnanti, i libri?
In tali condizioni, la parola stessa rischia di essere attratta nel contesto semiologico dell'immagine: l'argomentazione verbale, nei programmi televisivi tipici, sembra assumere quel carattere intuitivo e quella velocità, immediatezza e labilità che sono proprie del messaggio immagine. La parola, che è un segno dotato un significato identificabile in un modo relativamente obiettivo, diventa sempre più suono suggestivo o metafora evocativa, legati a certi simboli visivi. La parola "ecologia", per esempio, più che indicare la scienza che studia gli equilibri ambientali, è un suono che si associa a immagini di foreste tropicali o di delfini guizzanti, e può essere usata nella pubblicità di un'automobile - inquinante - che permette a te come individuo di fuggire i fumi industriali della vita urbana.
Tutte queste caratteristiche del linguaggio-immagine televisivo sono rinforzate - a scapito del linguaggio-parola dominante nella scuola - dal restante mondo dei giochi e dei media elettronici, in cui le giovani generazioni sono immerse nel resto del tempo libero, e l'odierna diffusione delle pay-tv, delle tv via cavo e di internet conferma e rinforza questa situazione. Inoltre il linguaggio del medium immagine è ulteriormente rafforzato dai mezzi di trasporto attuali. Infatti i viaggi rapidissimi in auto, pullman, aereo, ecc. (mezzi ermeticamente chiusi, isolati dall'ambiente, in cui si vede il mondo da seduti attraverso uno schermo spesso fornito di una plancia di comando, come a casa attraverso la tv) danno ai viaggiatori la sensazione dell'onnipotenza della tecnica e dell'assenza di distanze nel "villaggio globale", e infine indeboliscono il loro senso delle differenze culturali e storiche, proprio come la tv.
LA CULTURA PUBBLICITARIA E LA POLITICA SPETTACOLO
La forma comunicativa della neotelevisione generalista non nasce semplicemente da un certo sviluppo della tecnica, ma è data anche dalla sua appartenenza al sistema dei media commerciali, finanziati con la pubblicità. La tv commerciale, per procurarsi l'audience, ha bisogno di un messaggio piacevole, seducente, gratificante, immediato. Come osservava già Postman, perché lo spettatore non cambi canale è necessario che il programma sia organizzato in brevi sequenze tematiche (otto-dieci minuti), ciascuna delle quali dovrà fare posto ad un'altra, per variare continuamente la situazione e catturare di nuovo l'attenzione. Lo sforzo di concentrazione e di riflessione è ridotto al minimo. Anche nei programmi più impegnati, è indispensabile dare allo spettatore la sensazione di essere rigorosamente informato, di poter crescere sul piano umano, di provare dei buoni sentimenti, di stare dalla parte di una causa giusta, ecc., ma tutto ciò con il minimo sforzo possibile, grazie all'onniscienza e onnipotenza del medium. Basta l'acquisto di un prodotto, una sottoscrizione, una cartolina di ordinazione o una telefonata per essere partecipi.
La cultura dell'immagine onnipresente, del mezzo tecnico onnisciente, dell'immediatezza emotiva e della gratificazione assicurata per Postman erode non solo il valore della nostra esperienza diretta, ma anche l'autorevolezza dei genitori e degli insegnanti - nonché, possiamo aggiungere noi, degli opinion leaders di base. La precoce esposizione ad una seduzione e ad una adulazione costanti ad opera della pubblicità, l'impressione di poter sapere tutto attraverso i media e la speranza di poter ottenere ciò che si vuole senza sforzo ("vinci dieci miliardi comprando XY") sono un ostacolo alla formazione delle doti del buon cittadino e del consumatore accorto. Per scegliere gli esperti e i consiglieri nel mondo circostante, ci vogliono sano buonsenso e capacità di "farsi un'esperienza" per confrontarla con quella altrui, mentre l'"esperienza" mediale si confonde con quella diretta, o tende a svalutarla e a sostituirsi ad essa.
L'obiezione classica ad analisi come quella di Postman è che, comunque si vogliano descrivere e valutare le trasformazioni della psicologia collettiva contemporanea, è impossibile con i dati statistici disponibili attribuirne la responsabilità specificamente alla tv o ai media. In effetti, finora gli studi che hanno dato risultati scientifici considerati attendibili sono stati soprattutto quelli che riguardano l'agenda setting: i media sono in grado di influenzare anche in maniera molto articolata l'agenda dei problemi all'ordine del giorno dei loro utenti. Secondo Maxwell McCombs, "se da una parte, i media non ci dicono cosa pensare, essi hanno tuttavia una sorprendente capacità di dirci intorno a cosa pensare. Gli studi esplicitamente mirati alla seconda dimensione dell'agenda setting [quella che riguarda non solo gli oggetti, i temi pubblici generali cui pensare, ma anche i loro attributi e aspetti particolari] lasciano credere inoltre, che i media ci dicano anche come pensare ad alcuni oggetti." (AAVV, "Comunicare politica nel sistema dei media", Costa e Nolan 1996, p. 135). Agli studi sull'agenda setting si possono aggiungere alcuni altri studi su tv e comportamento elettorale (in Italia Luca RicolfI) e alcuni studi comparativi internazionali di lungo periodo sugli effetti della violenza in tv.
Tuttavia lo studio degli effetti a lungo termine è problematico per qualunque tipo di curriculum, non solo per quello televisivo, e in sostanza per qualunque fenomeno complesso; ciononostante non dobbiamo vivere alla giornata ed esimerci dal considerare il lungo periodo.
Cercherò qui di rafforzare il discorso precedente con un'argomentazione al meno in parte a priori. Ecco l'argomentazione. L'idea generale che la neotelevisione e i media recenti condizionino in modo significativo lo sviluppo della mentalità e della personalità degli utenti è confermata dal puro e semplice successo economico del sistema pubblicitario. I capitalisti non farebbero uso della pubblicità se essa - in media - non fosse realmente efficace.
Certo si potrebbe obiettare che tale sistema ha successo perché fondato sull'informazione razionale e convince i consumatori semplicemente perché dice la verità. Una obiezione del genere è un controsenso: in primo luogo la pubblicità ben di rado fornisce informazioni razionali e si articola in proposizioni che si possano considerare vere o false, ma è proprio un tipico messaggio - immagine, con ben poco contenuto razionale. Inoltre chi sostiene una tale tesi dovrebbe anche ammettere che i prodotti più venduti siano sempre quelli qualitativamente migliori - il che sembra tutt'altro che sostenibile.
In sintesi, se è vero che nel complesso l'apparato pubblicitario è efficace (e a dimostrare che lo sia c'è l'influente scienza del marketing), e che mediamente l'investimento in pubblicità è redditizio, ciò vuol dire che la pubblicità riesce effettivamente ad influenzare il consumatore con le armi della seduzione e della gratificazione narcisistica.
È possibile però un'altra obiezione più forte: la propensione del consumatore a credere al messaggio pubblicitario - o per lo meno a comprare i prodotti reclamizzati - potrebbe derivare da fattori che non hanno nulla a che vedere con la sua formazione attraverso la tv. Se il marketing individua in un particolare pubblico televisivo (p.es. quello che segue i programmi sportivi, o quello che segue certe situation comedies) il target di un particolare prodotto da reclamizzare in un certo modo, questo potrebbe voler dire solo che quel pubblico esiste già per conto suo ed è di per sé attratto da quegli specifici programmi.
Si può rispondere con l'aiuto di Chomsky (cfr. "Illusioni necessarie", Elèuthera, 1991, p.34-35). Egli dice sinteticamente che i media devono produrre il pubblico che venderanno agli inserzionisti. Sviluppiamo quest'argomento. A livello immediato, sono i media e le case produttrici di contenuti televisivi che lottano per contendersi il pubblico già esistente, ma sul lungo periodo invece sono loro che hanno in mano la produzione e l'emissione televisiva. Al pubblico - anche a quello refrattario alla pubblicità irrazionale - non rimane che questa alternativa: o sintonizzarsi sul canale pubblicitario più vicino (o meno lontano) alla propria mentalità, oppure rinunciare ai media (scelta praticata negli U.S.A. solo da quell'élite raffinata che si distingue per la mancanza dell'antenna tv sul tetto della propria villa suburbana). Anche nel caso dell'adulto già formato, è il consumatore che si deve adattare al medium commerciale, preso nel suo complesso, e non viceversa. Tanto più forte e rapido sarà l'adattamento dei bambini e dei ragazzi.
E il fine esplicito immediato dell'intera programmazione tv è quello di essere un veicolo di pubblicità, per cui, per esempio, i consigli per gli acquisti e la promozione commerciale sono intenzionalmente la dimensione dominante di tutta una serie di programmi - contenitore e di programmi di intrattenimento. Il fine ultimo è, come sappiamo, quello di vendere agli inserzionisti un pubblico che sia un target ideale per la pubblicità.
Il medium che riuscirà ad attrarre sul breve periodo il pubblico più disponibile all'acquisto avrà dunque più inserzionisti. Non è detto che le direzioni delle tv commerciali abbiano le idee chiare su come ottenere questo risultato. Ma sul lungo periodo il mercato premierà quelle che in un modo o nell'altro ci riescono ed eliminerà quelle che non ci riescono. Sopravviveranno dunque le tv con il "curriculum tv" più efficace nel servire le esigenze degli inserzionisti. Lo stesso vale naturalmente anche per gli altri media governati dalla pubblicità, pre- o post-televisivi che siano. La pubblicità commerciale è dunque il meccanismo che determina lo stile dei diversi media, compresi quelli del prossimo futuro, condizionandone potentemente la forma espressiva dall'esterno (anche se ovviamente la forma del messaggio mediale ha delle costanti tecniche e semiologiche e non è manipolabile a piacere).
Da questo punto di vista, Pierre Bourdieu ("Sulla televisione", Feltrinelli) fornisce una spiegazione molto interessante. Egli sostiene che la logica della concorrenza commerciale ormai propria del "campo giornalistico" (che comprende sia giornali che tv, oggi in concorrenza e formanti un unico campo culturale) trasforma la notizia in spettacolo e altera i ritmi della riflessione, trasformando il pensiero in fast thinking. Inoltre nel mondo contemporaneo i diversi campi della cultura, regolati da norme e procedure specifiche, frutto di un lungo processo storico, sono invasi dal "campo giornalistico" e dalle sue regole. "…Il rafforzamento dell'influenza di un campo giornalistico per parte sua sempre più sottoposto al dominio diretto o indiretto della logica commerciale tende a minacciare l'autonomia dei diversi campi di produzione culturale, rafforzando, all'interno di ciascuno di essi, gli agenti e le imprese che sono più inclini a cedere alla seduzione dei profitti "esterni" [derivanti cioè dalla spettacolarizzazione e dalle mode di massa] in quanto meno ricchi di capitale specifico (scientifico, letterario, ecc.) e meno sicuri di realizzare i profitti specifici che il campo garantisce loro nell'immediato o a termine più o meno lungo" (op.cit., p.94). Non solo la notizia, ma anche, la politica, l'arte, la scienza, ecc., insomma i vari campi specifici della nostra cultura tradizionale, si trasformano in spettacolo, cioè nella dimensione generale della cultura neotelevisiva.
Con la diffusione di una cultura di massa sempre più basata sulla spettacolarizzazione della notizia, sulla gratificazione narcisistica dello spettatore e sull'immediatezza dell'immagine, non desta meraviglia il successo della politica spettacolo, che usa il linguaggio del calcio e degli imbonitori pubblicitari e che fa appello alle emozioni e alla seduzione carismatica del leader. In sostanza, la lotta politica oggi ormai è profondamente condizionata, oltre che da un'informazione insufficientemente pluralista ed equa, anche da un'educazione fortemente influenzata dalla cultura pubblicitaria della tv commerciale. Anche i partiti antiberlusconiani, oggi che gli opinion leaders di base hanno perduto buona parte del loro peso, sono in buona parte coinvolti nella politica spettacolo.
Se quest'analisi è vera, le forze della società civile che si riconoscono nella cultura democratica del discorso non possono limitarsi a sperare che chi ha in mano gli amplificatori della discoteca Italia permetta loro di far sentire adeguatamente la loro voce. Qualunque cosa accada nel mondo della politica, esse, restando nel loro ambito civile, devono mobilitarsi per salvare (e, se possibile, potenziare) ciò che è essenziale per la democrazia nel nostro sistema educativo.
Per quanto riguarda l'impossibilità - non tecnica, ma sociale e culturale - di ridurre drasticamente la pubblicità, concluderò con una provocazione. Il punto è che la pubblicità contraddice almeno in un punto proprio i principi del liberismo capitalistico dominante. Essa in effetti ha contribuito per la sua parte alla formazione progressiva di mega-aziende in posizione di oligopolio. Chi ha capitali per fare pubblicità in modo massiccio ha in mano uno strumento potentissimo per stroncare la concorrenza, indipendentemente dalla propria efficienza produttiva. Per questo motivo, del tutto interno alla logica liberista, la pubblicità, anziché detassata come è attualmente, andrebbe colpita con tasse fortemente progressive (cioè proporzionali al fatturato dell'azienda inserzionista), in difesa delle aziende più piccole. Ciò permetterebbe di creare un fondo a disposizione delle iniziative necessarie per adeguare l'educazione familiare e scolastica alla sfida dei nuovi media.
Postfazione
Pensare qual è la situazione morale e mediale dell'Italia di oggi mi manda fuori dai gangheri e perdere il senso del limite. Per me, il problema è molto serio. Suona così: come faccio io a insegnare l'educazione civica come materia scolastica, le regole della convivenza sociale, l'educazione alla legalità, quando in parlamento siede una maggioranza il cui leader è pluri-inquisito, che inoltre utilizza abitualmente il linguaggio non come strumento univoco di comunicazione del vero, ma come strumento polisenso di seduzione e persuasione. La pubblicità sta sostituendo l'informazione, l'adorazione del successo (la "scienza dei mezzi") sta sostituendo ogni seria discussione sui fini e sui valori.
Tutto questo, beninteso, non riguarda solo B. Ma oggi l'ideologia della pubblicità, del consumismo e del successo ad ogni costo, che nella nostra società pluralista era una componente forte ma non ancora definitivamente vincente, rischia di divenire quasi l'ideologia ufficiale. Dico quasi, perché la libertà di parola non sta certo venendo meno: in Italia, stante l'attuale situazione dei media e quella che si creerà in RAI da qui a poco, c'è la stessa libertà di parola che c'è in una discoteca, in cui incontestabilmente tutti sono liberi di dire qualunque cosa...
Credo che il disastro morale italiano fosse già compiuto quando, mi pare alla fine degli anni ottanta o all'inizio dei novanta, una statistica rivelò che B. era l'uomo più popolare tra i giovani, battendo di diverse lunghezze Gesù Cristo e altri minori come Gandhi o Einstein.
Sintetizzando la questione, noi insegnanti responsabili abbiamo il dovere morale e pedagogico di respingere la mitologia consumista tecnologica che rincretinisce ulteriormente le nuove generazioni, di lottare per la razionalità critico-scientifica contro gli urli alla Sgarbi e le "amnesie" alla Colletti, per la ragione libertaria ed egualitaria contro il razzismo anti-negher e il neofascismo strisciante. Ma cosa possiamo fare? Dal mondo della politica, dalla sinistra o dagli altri partiti non apertamente venduti a B., non c'è venuto negli ultimi anni alcun aiuto.
Non ho una soluzione. Non riesco nemmeno ad essere disperato, perché si tratta, così come la viviamo noi (non siamo ancora il Brasile), di una gigantesca farsa e non di una tragedia. Ma proprio questa perdita di ogni serietà della vita civile è la vera tragedia. Tanto per dirne una, noi dobbiamo chiedere agli studenti di fare degli sforzi, perché lo sforzo è un presupposto necessario dell'apprendere. La tv insegna che tutto si può imparare con il minimo sforzo e che con un po' di fortuna si può diventare ricchi e felici (gratta e vinci). La tv e i vari media formano dei consumatori deficienti che però come produttori sono nell'ingranaggio di un sistema di concorrenza individualistico e senza esclusione di colpi. È un sistema che crea continuamente, eliminando quelli che non reggono alla competizione, disadattati ed emarginati. Basta leggere il libro di Luciano Gallino su "Globalizzazione e ineguaglianza" per rendersi conto che aumenta la forbice tra i super ricchi e gli ultra-poveri.
In una società sempre più multietnica, pluralista e complessa (questo è solo un risultato della globalizzazione, non il risultato dell'internazionalismo proletario) il trend culturale generale (accelerato dai media) porta ad un individualismo conflittuale se non addirittura violento. E noi dovremmo insegnare ai nostri ragazzi a vivere dentro tutto questo.
Non ho una soluzione. Ma penso che solo noi ci possiamo salvare, forse, attraverso la resistenza morale, il discorso razionale e l'azione comunicativa quotidiana, attraverso l'insegnamento e l'apprendimento continuo.
giugno 2001
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