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Scontro di civiltà e di religioni?
HUNTINGTON o BAUMAN?
Federico Repetto
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Si continua a parlare di conflitto di civiltà e di religioni come se questo mito mediatico (che ha le sue origini nobili ne Lo scontro delle civiltà di Samuel Huntington, da sempre "teorico di corte" della Casa Bianca) fosse un indiscutibile dato di fatto.
Poiché vedo le cose in un modo un po’ diverso, ho scannerizzato per voi alcuni passi de "La società sotto assedio" di Zygmunt Barman (Laterza 2003- ma alcuni saggi in esso contenuti erano già stati pubblicati in "Una nuova condizione umana", edito da Vita e Pensiero, che credo sia sempre l'editore della Cattolica di Milano).
Purtroppo Bauman non sempre è molto chiaro (anche perché il passo si trova a metà del libro) e quindi é necessario qualche chiarimento.
Bauman sostiene che siamo passati da qualche decennio dalla società della "modernità solida" (al cui centro stanno lo stato nazionale, la fabbrica fordista, lo welfare keynesiano, il lavoro a vita, ecc., e il cui presupposto è stata la colonizzazione del mondo intero) alla "modernità liquida" (lavoro flessibile, mancanza di sicurezza, mobilità globale dei capitali, dominio del capitale finanziario, eclisse dello Stato nazionale), in cui l'élite capitalistica globale ("extraterritoriale") è caratterizzata da un rifiuto completo della responsabilità delle conseguenze locali degli investimenti (e dei disinvestimenti), e la cui cultura responsabilizza l'individuo singolo per il suo proprio destino sociale (soluzioni individuali a problemi globali - posti cioè dal capitale globale).
Per Bauman, di fronte all'élite globale, mobile in tutto il mondo, veloce negli investimenti e nei disinvestimenti, sta la massa di quanti non dispongono della possibilità di informarsi e di muoversi adeguatamente, di riciclarsi e di correre in continuazione dietro la buona occasione là dove essa si trova. E sono sottoposti al rischio del disinvestimento e della disoccupazione, senza possibilità di anticipare le mosse del mobilissimo capitale globale. Ma sta peggio ancora la massa dei diseredati e profughi, che come l'élite, non hanno un territorio proprio. Solo che l'élite non ce l'ha per sua convenienza, mentre i profughi per costrizione.
Si dirà che a Bauman sfugge il fatto che alcuni di questi profughi imbarcati su relitti emigrano da noi per diffondere l'Islam (forse è una pecca della sua teoria? nessuno è perfetto). D'altra parte egli chiama "comunitarismo" una strategia di difesa (secondo lui perdente) contro il capitale globale, che consiste nel fare appello ai valori della comunità locale contro la mobilità e il cambiamento accelerati, nel fare appello all'identità particolare contro la globalizzazione, nel trincerarsi nei luoghi particolari attraversati dalle continue trasformazioni globali. In effetti B., che ragiona sempre per categorie universali, non parla di comunitarismo solo per le molteplici culture e religioni non europee, ma anche per quelle europee e occidentali (decisamente la sua ottica non è quella delle guerre di religione, della lotta del bene contro il male, ecc.)
E i campi profughi, indipendemente dal fatto che contengano cristiani, musulmani, animisti o induisti, gli sembrano la forma moderna-liquida dell'esclusione degli uomini "eccedenti" dal genere umano. Questa esclusione aveva preso nella modernità solida le forme atroci, studiate da B. (ebreo polacco e partigiano) nel suo libro sull'Olocausto.
Egli pensa (molto pessimisticamente) che il capitale globale sia ormai difficilmente controllabile (tanto più dopo che l'11 settembre ha fornito ai governi pro-globalizzazione un diversivo, che dà loro di nuovo una funzione e un senso -considerata la loro impossibilità di gestire l'economia e le trasformazioni sociali). Per B. solo una comunità globale, un'agorà globale, una legge globale permetterebbero di controllare il capitale globale. Ma io ne vedo in giro ben poche tracce. Men che meno nelle idee di quelli la cui prima preoccupazione (da veri samaritani) è di essere conquistati culturalmente da un esercito di profughi.
Ps: da qualche parte qualcuno ha detto che le origini della democrazia occidentale sono nel cristianesimo. Ma c'è anche Amartya Sen. La democrazia degli altri. Perché la libertà non è un'invenzione dell'occidente, Mondadori 2004.
Forse, alla fine, tutto è in tutto, come diceva Anassagora. Io però continuo a pensare che i contributi più interessanti siano nel pensiero greco. Anch'io ritengo che la democrazia sia la parte migliore della contraddittoria eredità storica dell'occidente, ma è importante sapere se parliamo della stessa democrazia - basata sull'esercizio pubblico della ragione come facoltà universale umana, così come fu concepito dalla sofistica e dalla filosofia greche e ripresa dall'illuminismo.
L'occidente ha certo la peculiarità di aver elaborato da sé le dottrine che condannano le politiche imperiali dei suoi stati-nazione degli ultimi duecento anni (e-non lo dimentico- anche quelle di tutti gli imperi non occidentali). Ma condannarsi da sé non significa assolversi.
Da: Zygmunt Barman, La società sotto assedio, Laterza 2003, pp. 107 sgg.
Vivere insieme in un mondo pieno
Habent sua fata libelli... i libri hanno un loro destino. Il destino del libro di Kant, Idee per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, è tanto singolare quanto illuminante: concepito nell'isolamento della tranquilla Königsberg nel 1784, rimase per ben due secoli ad ammuffire nelle biblioteche accademiche, letto soltanto -quasi sempre come una curiosità storica e senza grande entusiasmo- da un pugno di appassionati archivisti di idee. Dopo duecento anni di confino in qualche nota a piè di pagina e nelle bibliografie di studi accademici, balzò improvvisamente alla ribalta della «storía contemporanea». Oggi è difficile trovare uno studio erudito della nostra storia più recente che non cití la Storia universale di Kant quale suprema autorità e fonte di ispirazione di tutto il dibattito sulla cittadinanza mondiale, un argomento finito anch'esso repentinamente al centro della pubblica attenzione.
Il fatum di questo particolare libellum può apparire bizzarro e sconcertante, ma in realtà non c'è alcun mistero. Il suo segreto è semplice: il mondo ha impiegato duecento anni per raggiungere il limite estremo di una tendenza che lo ha guidato sin dagli albori dell'epoca moderna, ma che Kant, avendola sottoposta a un riscontro filosofico, scoprì in anticipo contraria al «was die Natur zur höchsten Absicht hat», allo scopo supremo della Natura. Kant osservò che il pianeta su cui viviamo è una sfera, e prese a meditare sulle conseguenze di tale banalissimo dato di fatto. E le conseguenze cui giunse furono che tutti noi viviamo e ci spostiamo sulla superficie di quella sfera, non abbiamo altro posto in cui andare e dunque siamo destinati a vivere per sempre in reciproca contiguità e compagnia. E così «die vollkommene bürgerliche Vereinigung in der Menschengattung», una «perfetta unificazione civile nel genere urnano», è il destino che la Natura ha scelto per noi, l'orizzonte ultimo della nostra storia universale che, stimolati e guidati dal raziocinio e dall'istinto di conservazione, siamo destinati a perseguire e a tempo debito raggiungere. Questo è quanto scopri Kant, ma il mondo ha impiegato altri due secoli per scoprire quanto avesse ragione.
Prima o poi, ammonì Kant, non ci sarà più uno spazio vuoto dove potranno avventurarsi quelli di noi che trovano troppo scomodi o stretti i luoghi già popolati. E quindi la Natura ci impone di considerare la (reciproca) ospitalità quale precetto supremo da abbracciare (cosa che alla fine saremo costretti a fare) per mettere fine alla lunga catena di tentativi ed errori, di catastrofi provocate dagli errori compiuti e di macerie lasciate sulla loro scia. Come Jacques Derrida [UN ALTRO EBREO ATIPICO] ha osservato duecento anni dopo, le affermazioni di Kant avrebbero facilmente smascherato come mere tautologíe espressioni oggi invalse quali «cultura dell'ospitalità» o «etica dell'ospitalità»: «L'hospítalité, c'est la culture méme et ce n'est pas une éthique parmi d'autres [ ...]. L'éthique est hospitalité». Di fatto, se l'etica, come Kant auspicava, è un frutto della ragione, allora l'ospitalità è - deve essere o deve prima o poi diventare - la prima regola di condotta di un genere umano guidato dall'etica.
Il mondo tuttavia non lo ha ascoltato; sembra che il mondo preferisca onorare i suoi filosofi con targhe commemorative anziché ascoltandoli e ancor meno seguendo i loro consigli. Forse i filosofi sono stati i principali scribi del dramma lirico dell'Illuminismo, ma la tragedia epica post-illuminista ha completamente ignorato i loro scritti. Impegnato a equiparare le nazioni agli stati, gli stati alla sovranità e la sovranità ai confini rigidamente controllati, il mondo pare abbia seguito un indirizzo del tutto diverso da quello delineato da Kant. Per duecento anni è stato occupato a rendere il controllo dei movimenti umani una prerogativa esclusiva del potere statale, a erigere barriere contro qualsiasi altra forma non controllata di movimento umano, e a presidiarle con guardiani sempre vigili e armati fino ai denti. Passaporti, visti, controlli doganali e all'immigrazione sono stati tra le principali invenzioni della moderna arte di governo.
L'avvento dello stato moderno coincise con la nascita dell'«apolide», del sans papíers e dell'idea di unwertes Leben (vita senza valore), la reincarnazione moderna dell'antica istituzione dell'homo sacer, vale a dire la personificazíone ultima del diritto sovrano di esonerare ed escludere quegli esseri umani confinati al di là dei limiti imposti dalle leggi umane e divine; di trasformarli in esseri che possono essere impunemente annientati - e il cui annientamento è privo di qualsiasi significato etico o religioso ["Homo sacer": B. SI RIFERISCE AL LIBRO DI GIORGIO AGAMBEN EDITO DA EINAUDI].
Durante tutta la fase iniziale della storia moderna, il pesante fardello del moderno zelo classificatorio di inclusione/esclusione e stato in qualche modo meno esasperante, alleviato in parte da un'altra impresa moderna: l'apertura di un'estensione di «terra vergine» di dimensioni senza precedenti, da impiegare come discarica per tutti gli elementi indesiderati, e che fungesse da terra promessa per chi veniva catapultato fuori dalla macchina del progresso. Ovviamente, all'epoca in cui la Storia universale di Kant fu data alle stampe non esisteva nessuna terra realmente «vergine», ma moltissime terre erano già state rese vergini e molte altre sarebbero state classificate come tali nei decenni successivi, grazie all'enorme e crescente divario di potere tra il centro sempre più industrializzato e l'arretrata periferia. Il potere delle metropoli era così schiacciante che poté dichiarare giuridicamente inesistenti i nativi di quelle terre «primitive», «arretrate» e «selvagge» e ridefinire sommariamente la popolazione di ciascuna di queste terre come un collettivo «homo sacer» della metropoli - concedendo così licenza d'uccidere a tutti gli altri. Qualche tempo dopo, la tecnica dell'esclusione sommaria dalla razza umana, sviluppata durante la conquista di terre distanti, sarebbe rimbalzata sulla stessa Europa; come Aimé-Fernand Césaire osservò nel 1955, ciò che in realtà il borghese cristiano (dell'Europa e delle sue emanazioni) non poté perdonare a Hitler non fu il crimine del genocidio, quanto il crimine di aver applicato all'Europa la stessa politica colonialista di cui fino a quel momento erano stati succubi gli arabi, i coolies indiani e i neri...
La colonizzazione fece sì che le premonizioni di Kant restassero lì a impolverarsi. Al contempo, però, quando vennero alfine ripulite da polvere e ragnatele, le fece anche apparire come una profezia di sventura anziché la gioiosa utopia che intendeva Kant. Oggi la visione di Kant ci appare in questa luce perché, a causa di una fuorviante abbondanza di «terre-di-nessuno», non occorreva far nulla e dunque nulla venne fatto in quei due secoli per preparare l'umanità alla rivelazione che il mondo alla fine era destinato a riempirsi fino all'orlo.
Per liberarsi dei propri homines sacri europei, le terre decretate come vergini fornirono le varie Isole del Diavolo, Botany Bay e altre simili discariche ai governi europei che tanto invidiavano l'impero russo e il suo dominio delle immense vastità siberiane. Per gli europei che temevano un destino da reietti, le «terre rese vergini offrivano un'allettante prospettiva: un nascondiglio e la possibilità di «rifarsi una vita Gli abitanti dei villaggi irlandesi cercarono li scampo dalla carestia di patate che aveva colpito la loro patria; contadini tedeschi, svedesi e polacchi trovarono li rifugio dai villaggi sovraffollati e i paesini fatíscenti che non offrivano né un lavoro né prospettive future- gli ebrei vi cercarono scampo dai pogrom russi. La progenie diseredata di famiglie nobili raggiunse le «frontiere della civiltà» nella speranza di poter riacquisire potere e ricchezza nell'esercito, nell'amministrazione coloniale o nel mondo degli affari, non prima però di aver costruito un nuovo mondo, un mondo in cui fu necessario rimpiazzare l'indolente e letargica nobiltà locale con nuove élítes, in modo da renderlo capace di fornire ai nuovi arrivati prospettive di carriera completamente nuove. Per molti anni, la modernità, quella forma di civiltà intrinsecamente espansiva e trasgressiva, non ebbe motivo di preoccuparsi: la civiltà basata sulla spinta all'espansione e alla trasgressione aveva apparentemente uno spazio sterminato in cui espandersi e poteva contare su un'infinítà di nuove barriere in attesa di essere superate. Sulla mappa del mondo moderno c'era una gran profusione di spazi vuoti contrassegnati (temporancamente, è ovvio!) con un «hic sunt leones», «qui ci sono i leoni», e in attesa di essere disseminati di nuove città e intersecati da nuove reti stradali. Quei remoti posti vacanti erano le valvole di sicurezza che decomprimevano le metropoli e impedivano che si surriscaldassero. C'era un'infinità di posti in cui gli intrepidi potevano cercare l'avventura, gli amanti del rischio tentare la fortuna e i derelitti cambiare il proprio destino. Il mondo era tutt'altro che pieno.
Beh, adesso lo è. Non ci sono più Statue della Libertà che promettono di accogliere le masse oppresse e abbandonate. Né più vie di fuga e nascondigli se non per un pugno di disadattati e criminali. Ma neanche (e questo sembra l'effetto più sorprendente della neo-rivelata saturazione del mondo) sicuri e confortevoli chez soi, come gli eventi dell'11 settembre hanno dimostrato in modo drammatico e al di là di ogni possibile dubbio.
Quella manifestazione della mutata condizione esistenziale ci ha colto del tutto ignari, così come il mutamento stesso ci aveva colti impreparati. La sacrosanta divisione tra dedans e dehors, dentro e fuori, che delineò il regno dell'íncolumità esistenziale e tracciò l'itinerario per la futura trascendenza, è stata quasi cancellata. Oggi, il n'y a pas de dehors, siamo tutti «dentro» e fuori non è rimasto alcunché. O piuttosto, tutto quanto era «fuori» adesso è entrato «dentro», e senza bussare; e vi si e insediato senza chiedere il permesso. Il bluff delle soluzioni locali ai problemi planetari è stato scoperto, l'inganno dell'isolamento territoriale è stato svelato. In tutte le epoche le terre di frontiera sono sempre state note come fabbriche di disgregazione e al contempo impianti di ríciclaggio per i profughi. E niente di diverso possiamo attenderci dal nuovo modello globale di terra di frontiera, se non ovviamente una nuova scala, planetaria, di produzione e ríciclaggio dei problemi. Permettetemi di ripetere: non esistono soluzioni locali a problemi globali, sebbene sono Proprio le soluzioni locali quelle ricercate tanto avidamente quanto invano dalle odierne istituzioni politiche, le uniche che abbiamo inventato collettivamente fino a oggi e le sole di cui disponiamo. Non può dunque sorprendere che tutte queste istituzioni siano locali e che il loro potere sovrano di azione praticabile (o legittima) sia localmente circoscritto.
I rifugiati in un mondo pieno
Per tutti i duecento anni di storia moderna si è sempre dato per scontato che rifugiati, emigranti volontari o coatti, profughi tout court, fossero un problema dei paesi ospitanti e come tali sono stati trattati. Pochi o nessuno degli stati nazionali presenti sulle moderne carte geografiche erano altrettanto autoctoni, «locali» in senso demografico di quanto lo fossero nell'esercizio delle loro prerogative sovrane. A volte di buon grado, altre volte a denti stretti, tutti hanno dovuto accettare la presenza di estranei nel proprio territorio, e tutti hanno dovuto accettare le varie ondate di immigrati in fuga o cacciati dalle terre di altri stati nazíonali sovrani. Una volta entrati, gli stranieri ricadevano sotto la completa ed esclusiva giurisdizione del paese ospitante, il quale era libero di applicare le versioni aggiornate e modernizzate delle due strategie descritte da Claude Lévi-Strauss in “Tristi tropici” quali modi possibili di affrontare la presenza di stranieri.
L'alternativa era tra la soluzione antropofagica e quella antropoemica. La prima consisteva nel «divorare gli stranieri»: o mangiandone letteralmente la carne - il cannibalismo invalso presso certe antiche tribù - oppure in senso più sublimato e metaforico, come nell'opera (assistita dal potere) di assimilazione portata avanti pressoché universalmente dagli stati nazionali, di modo che gli stranieri venissero fagocitati nel corpo nazionale e cessassero di esistere in quanto stranieri. La seconda consisteva invece nel «rigettare gli stranieri» anziché divorarli: vale a dire rastrellarli ed espellerli (proprio come Oriana Fallaci ha affermato dovremmo fare con tutti coloro che adorano altre divinità ed esibiscono sconcertanti abitudini igienico-sanitarie) o dai confini del potere statale o dal mondo degli esseri viventi.
Osserviamo tuttavia che il perseguire l'una o l'altra delle due soluzioni aveva senso solo in virtù di un duplice presupposto: una netta divisione territoriale tra il «dentro» e il «fuori» e la completa e indivisibile sovranità del potere di scelta della strategia all'interno di quel regno. Oggi, nel nostro mondo globale liquido-moderno, nessuno dei due presupposti gode più di alcuna credibilità, e quindi le possibilità di porre in atto l'una o l'altra delle due strategie ortodosse è, a dir poco, remota.
Ora che i modi di agire collaudati non sono più disponibili, sembra che non abbiamo più una buona strategia per gestire i nuovi arrivati. In un'epoca in cui nessun modello culturale può proclamare autorevolmente ed efficacemente la propria superiorità sui modelli antagonisti, e in cui il processo di costruzione della nazione e la mobilitazione patriottica non sono più i principali strumenti di integrazione sociale e di affermazione statale, l'assimilazione culturale non è più un'opzione praticabile. Poiché deportazioni ed espulsioni sono oggetto di drammatici reportage televisivi ed è probabile che scatenino una protesta pubblica e ledano le credenziali internazionali di chi le perpetra, i governi preferiscono tenersi lontano dai guai sbarrando le porte a quelli che bussano in cerca di riparo.
L'attuale tendenza di ridurre drasticamente il diritto all'asilo politico, accompagnata dal ferreo divieto d'ingresso agli «immigranti economici», non indica affatto una nuova strategia nei riguardi del fenomeno dei profughi, ma solo l'assenza di una strategia e il desiderio di evitare una situazione in cui tale assenza possa causare imbarazzo politico. In queste circostanze, l'assalto terroristico dell'11 novembre è stato un vero e proprio regalo ai politici. In aggiunta alle solite accuse di vivere alle spalle del paese e di rubare posti di lavoro ora gli immigrati vengono accusati di svolgere il ruolo di «quinta colonna» della rete terroristica globale. Finalmente c'è un motivo «razionale» e moralmente inattaccabile per rastrellare, incarcerare e deportare persone allorché non si sa più come gestirle e non ci si vuole prendere il disturbo di trovare un modo nuovo per farlo. Negli Stati Uniti, e subito dopo in Gran Bretagna, sotto lo slogan della «campagna antiterroristica», gli stranieri sono stati immediatamente privati dei fondamentali diritti umani che fino a oggi avevano resistito a tutte le vicissitudini della storia, sin dai tempi della Magna Charta e dell'habeas corpus. Oggi lo straniero può essere tenuto in stato di fermo a tempo indefinito con accuse dalle quali non può difendersi, dal momento che non gli viene neanche detto quali siano. Come Martin Thomas osserva con sarcasmo, in un drammatico ribaltamento del principio di base della legge di un paese civile, a partire da oggi «l'onere di provare un'accusa criminosa è un'inutile complicazione», almeno per quanto riguarda i profughi stranieri. Le porte possono anche essere sbarrate, ma il problema non si risolverà, per quanto massicci possano essere i lucchetti. Lucchetti e catenacci non possono certo domare o indebolire le forze che causano l'emigrazione; possono contribuire a occultare i problemi alla vista e alla mente, ma non a farli scomparire.
E così i profughi vengono sempre più a trovarsi sotto un fuoco incrociato, o, più esattamente, in una duplice morsa. Vengono cacciati a forza o indotti col terrore a lasciare il paese natio, ma viene loro rifiutato l'ingresso in qualsiasi altra nazione. E dunque il loro non è un semplice cambio di luogo: di fatto essi perdono un posto sulla terra e vengono catapultati in un niente, nel «non-lieux» di Augé o nelle «nowhereville» di Garreau, nella «Narrenschiffe» di Michel Foucault, in un «luogo senza luogo, che esiste di per sé, che è racchiuso in sé e che al contempo è abbandonato all'infinità del mare» - o (come Michel Agier suggerisce in un articolo su «Ethnography») in un deserto, quella terra per definizione disabitata, una terra che rifiuta l'uomo e in cui l'uomo s'avventura di rado.
I profughi sono diventati, in una sorta di fotocopia caricaturale della nuova élite di potere del mondo globalizzato, l'epitome di quella extraterritorialità in cui affondano le radici dell'odierna precarité della condizione umana, la causa prima delle paure e delle ansie dell'uomo moderno. Tali paure e ansie, nella vana ricerca di altri sbocchi, sono confluite in un sentimento popolare di rabbia e paura nei confronti dei rifugiati. Paura e rabbia che non possono certo essere dissipate in un confronto diretto con l'altra incarnazione dell'extraterritorialità: l'élite globale che si muove e opera al di fuori di qualsiasi controllo umano, troppo potente per potercisi confrontare. I profughi, per contro, sono un bersaglio fisso su cui poter scaricare la traboccante angoscia.
Secondo l'Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR), ci sono tra i 13 e i 18 milioni di «vittime di emigrazione coatta» che tentano di sopravvivere oltre i confini dei loro paesi di origine (senza contare i milioni di profughi «interni» in Burundi e Sri Lanka, Colombia e Angola, Sudan e Afghanistan, condannati al vagabondaggio da infinite guerre tribali). Di questi, oltre 6 milioni si trovano in Asia, da 7 a 8 milioni in Africa; ci sono 3 milioni di profughi palestinesi in Medio Oriente. E si tratta di una stima sicuramente prudente. Non tutti i Profughi sono stati riconosciuti (né se ne è chiesto il riconoscimento) come tali, e solo pochi di essi sono stati abbastanza fortunati da vedersi inclusi nei registri della UNHCR e sotto la sua protezione. Di questi, in Africa l'83,2 % vive in campi profughi, in Asia il 95,9% (in Europa sino a oggi solo il 14,3 % è stato rinchiuso in campi profughi).
I campi profughi sono espedienti temporanei trasformati in soluzioni permanenti mediante lo sbarramento di tutte le vie d'uscita. Gli internati non possono tornare «da dove sono venuti» perché i paesi da cui provengono non li rivogliono, avendo distrutto i loro mezzi di sussistenza e bruciato o confiscato le loro case. Ma non possono neanche andare avanti, perché nessun governo vedrebbe di buon occhio l'afflusso nel proprio paese di milioni di senzatetto. Per quanto riguarda la loro ubicazione ormai «permanentemente temporanea», i profughi «vi abitano ma non ne fanno parte». Non sono parte integrante del paese sul cui territorio sono state raggruppate le loro baracche e piantate le loro tende. Li separa dal resto del paese che li ospita l'invisibile, ma spesso e impenetrabile velo del sospetto e del risentimento. Sono sospesi in un vuoto spaziale in cui il tempo si è fermato. Non sono né fermi né in cammino, né stanziali né nomadi. Nei termini in cui viene narrata la condizione umana dell'uomo, sono ineffabili. Sono gli «indecidibili» di Jacques Derrida in carne e ossa. Per le persone come noi, elogiate e pronte ad autoincensarci per le nostre capacità di riflessione, essi sono non solo intoccabili, ma impensabili. Nel nostro mondo di comunità immaginate, essi sono inimmaginabili. Ed è rifiutando loro il diritto a essere immaginati che altre comunità - reali o che tali sperano di essere - cercano di dare credibilità ai loro sforzi di immaginazione. Solo la comunità che in questi giorni appare spesso nel discorso politico, ma che per'altri versi è impossibile da vedere nella vita reale e nel tempo reale, la comunità globale, una comunità inclusiva e non esclusiva, una comunità fedele alla visione di Kant di una «Vereinigung in der Menschengattung» -un'unificazione del genere. umano- potrebbe sradicare gli odierni profughi dal «nonluogo» in cui sono stati cacciati.
Il proliferare di campi profughi è un prodotto/manifestazione della globalizzazione altrettanto integrale di quanto lo è il denso arcipelago di non-luoghi di passaggio in cui si muove la nuova élite di giramondo. L'elemento che li unisce è l'extraterritorialítà, il loro non appartenere a nessun luogo, l'essere «dentro» ma non «parte integrante» dello spazio che occupano fisicamente. Per quanto ne sappiamo, potrebbero essere le teste di ponte di un'avanzante extraterritoríalità, o (in una prospettiva più a lungo termine) i laboratori in cui la de-semantizzazione del luogo, la smaltibilità dei significati, la plasticità delle identità e la nuova perpetua transitorietà (tutte tendenze intrinseche alla fase liquida della modernità) vengono sperimentate in condizioni estreme e collaudate in modo simile a quello con cui i limiti dell'arrendevolezza e della sottomissione umana, e i modi di raggiungere tali limiti, sono stati collaudati nei campi di concentramento della fase solida della storia moderna.
Campi profughi e non-luoghi condividono questa voluta, intrínseca, pre-programmata transitoríetà. Entrambe le installazioni sono concepite e progettate come un fossato sia nel tempo che nello spazio, una temporanea sospensione di attribuzione territoriale e della sequenza temporale. Ma le facce che mostrano ai rispettivi utenti/internati sono molto diverse. I due tipi di extraterritorialità sono sedimentati, per così dire, ai poli opposti della globalizzazione. Il primo offre la transitorietà come uno strumento scelto di propria volontà, il secondo la rende permanente e irrevocabile, un destino ineluttabile; una differenza non diversa da quella che separa le due manifestazioni concrete della sicura perpetuítà: le comunità recintate dei ricchi che discriminano e i ghetti dei poveri che vengono discriminati. E anche le cause della differenza sono simili: ingressi attentamente sorvegliati e controllati e ampie porte d'uscita a un estremo, porta d'ingresso larghissima, ma uscite bloccate all'altro. E il blocco delle porte d'uscita, in particolare, che perpetua lo stato di transitorietà senza sostituirlo con la perpetuità. Nei campi profughi il tempo è sospeso; è tempo, ma non è storia.
I campi profughi vantano una nuova qualità: una «transitorietà congelata», un perpetuo, duraturo stato di temporaneità, una durata fatta di tanti momenti rappezzati tra loro, nessuno dei quali viene vissuto come un elemento di perpetuítà e un con tributo ad essa. Per gli internati di un campo profughi, l'idea di effetti e conseguenze di lungo periodo non rientra nella loro esperienza. Essi vivono - letteralmente - giorno dopo giorno, e il contenuto della vita non è minimamente intaccato dalla consapevolezza che i giorni si congiungono e formano mesi e anni. Come nelle prigioni e negli «iperghetti» analizzati da Loïc Wacquant, i profughi accampati «imparano a vivere, o piuttosto a sopravvivere [(sur)vivre], giorno dopo giorno, nell'immediatezza del momento, annaspando nella disperazione che fermenta entro le mura».
Nei campi, i profughi sono legati da una duplice corda: una protettiva e una costrittiva.
I poteri che governano il territorio attorno al campo si fanno in quattro per impedire che gli internati fuoriescano. Per gli internati questo territorio è essenzialmente off-limits. Nella migliore delle ipotesi, è oltremodo inospitale, popolato da gente guardinga e sospettosa, pronta a notare e rinfacciare qualsiasi errore vero o presunto e qualsiasi inciampo o passo falso che i profughi, estromessi dal loro elemento, è fin troppo probabile che compiano. Nelle terre in cui sono state piantate le loro tende temporanee/permanenti, i profughi restano palesemente degli «estranei», una minaccia alla sicurezza degli «ínsediati» - frutto di consolidate routíne quotidiane -, una sfida alla loro comune visione del mondo e una fonte di pericoli astrusi, mai sperimentati e non previsti dai loro consueti meccanismi di dífesa.
Gli insediati, usando il loro potere di definire la situazione e imporre la definizione di tutti quanti ne sono coinvolti, tendono a rinchiudere i nuovi arrivati nella gabbia di ferro dello stereotipo, «una rappresentazione fortemente semplificata delle realtà sociali». La stereotipizzazione crea «un quadro in bianco e nero» che «non lascia spazio alla diversità». Gli estranei sono colpevoli fino a prova contraria ma poiché è l'insediato che compendia in sé i ruoli di pubblico ministero, magistrato esaminante e giudice, e che è quindi contemporaneamente chiamato a pronunciare il capo d'imputazione, a esprimersi sulla sua fondatezza e a sedere in giudizio, le possibilità di assoluzione sono quanto mai remote, se non praticamente nulle. Come Elias e Scotson hanno scoperto, quanto più la popolazione insediata si sente minacciata, tanto più è probabile che le sue convinzioni tendano «verso gli estremi dell'illusione e della rigidità ideologica». E posti di fronte a un'ondata di profughi, gli insediati hanno tutti i motivi di sentirsi minacciati. Oltre a rappresentare l'«ignoto» che tutti gli stranieri incarnano, i profughi portano con sé echi distanti di guerre e il tanfo di case sventrate e di città rase al suolo, e tali echi non possono che rammentare all'insediato quanto facilmente il bozzolo della routine sicura e familiare (sicura perché familiare) possa essere violato o infranto.
Nell'avventurarsi dal campo alla cittadina adiacente, i profughi si espongono a un tipo di incertezza che è difficile da reggere dopo la quotidiana routìne della vita nel campo, stagnante e congelata. Percorsi anche pochi passi, si ritrovano in un ambiente ostile. Il loro diritto di entrare nel fuori è quanto meno dubbio e può essere contestato dal primo che passa. Al confronto, il «dentro» del campo appare un paradiso sicuro. Solo i più íntraprendenti desiderano lasciarlo per un tempo prolungato, e ancora meno sono quanti oserebbero realizzare tale desiderio.
Volendo rifarci a Loïc Wacquant, potremmo dire che i campi profughi mescolano e fondono assieme sia i tratti distintivi del «ghetto comunitario» d'epoca fordista-keynesiana sia l'«iperghetto» dei nostri tempi post-fordisti. Se i «ghetti-comunità» erano totalità sociali relativamente autonome e autoriproducentesi, con tanto di repliche in miniatura della stratificazione in atto nella società in generale, delle sue divisioni funzionali e delle istituzioni necessarie per soddisfare i bisogni della vita comunitaria, gli «iperghetti» sono aggregazioní monche, artificiali e palesemente incomplete, incapaci di sopravvivere con le proprie forze. Allorché le élites uscirono dal ghetto e cessarono di alimentare la rete di attività economiche che perpetuavano (per quanto precariamente) i mezzi di sussistenza della popolazione del ghetto, gli enti di amministrazione e controllo dello stato (due funzioni di norma intimamente correlate tra loro) ne rilevarono il posto. L'«iperghetto» è sospeso su fili che travalicano i suoi confini e di certo anche la sua capacità di controllo.
Nei campi profughi, come ha rilevato Michel Agier, i tratti dei «ghettí comunitari» sono fittamente intreccíatí agli attributi di un «íperghetto», in una densa rete di reciproca dipendenza. Possiamo ipotizzare che una tale combinazione stringe ancor più il nodo che lega gli internati al campo. La corda protettiva del «ghetto comunitario» e quella costrittiva dell'«iperghetto», per quanto potenti possano essere entrambe, si sovrappongono e si rafforzano l'un l'altra. Dinanzi all'ostilità dell'ambiente esterno, generano congiuntamente una straripante forza centripeta cui è difficile resistere e che rende inutile la tecnica della recinzione e dell'isolamento sviluppata dai responsabili e dagli amministratori di Auschwitz o del Gulag. Più di qualunque altro microcosmo sociale coatto, i campi profughi si avvicinano al tipo ideale di «istituzione totale» di Erving Goffman: essi offrono, per commissione od omissione, una «vita totale» dalla quale non c'è via di fuga.
Avendo abbandonato o essendo stati cacciati dal loro precedente ambiente, i profughi tendono a essere spogliati delle identità che quell'ambiente definiva, sosteneva e riproduceva. Da un punto di vista sociale, essi sono degli «zombie»: le loro vecchie identità sopravvivono in gran parte come spettri - ossessionando in modo ancor più penoso le notti poiché invisibili alla luce del giorno. Persino quelle più confortevoli, prestigiose e ambite si trasformano in un limite: ostacolano la ricerca di nuove identità più consone al nuovo ambiente, impediscono di venire a patti con la nuova condizione e ritardano il riconoscimento della perpetuità della nuova condizione. A tutti i fini pratici, i profughi sono stati gettati nello stadio intermedio del passaggio in tre fasi di Vari Gennep e Victor Turner [SI TRATTA DI UNO STUDIO SUI RITI DI PASSAGGIO], lo stadio «né carne né pesce», senza tuttavia che tale assegnazione sia stata riconoscíuta, senza che sia stato stabilito un tempo di durata, ma soprattutto senza la consapevolezza che il ritorno alla condizione precedente è impossibile e non vi è la benché minima idea del la natura dell'ambiente che ci si potrà trovare davanti.
Tutte le comunità sono immaginate. E la postulata comunità globale non fa eccezione alla regola. Ma l'immaginazione si trasforma in una tangibile e potente forza di integrazione allorché è sostenuta da istituzioni di autoidentificazione e autogoverno collettivo socialmente prodotte e perpetuate, come nel caso delle nazioni moderne sposate ai moderni stati sovrani nella buona e nella cattiva sorte e finché morte non h separi. Per quanto concerne l'immaginata comunità globale, una simile rete istituzionale (fatta di enti globali di controllo democratico, un sistema giudiziario vincolante a livello globale e di princìpi etici validi globalmente) è in gran parte assente. E questa, aggiungo, è la causa principale di quello che viene eufemisticamente chiamato il «problema dei profughi» e il principale ostacolo alla sua soluzione.
L'unità del genere umano postulata da Kant potrebbe riecheggiare, come egli suggeriva, lo scopo della Natura, ma di certo non sembra «storicamente determinata». La perdurante impossibilità di controllare la rete già oggi globale di reciproca dipendenza e «reciproca vulnerabilità assicurata» quasi certamente non aumenta la realizzazione di tale unità. Ciò, tuttavia, significa soltanto che in nessun altro momento la bramosa ricerca di un'umanità comune e l'azione pratica che da essa deriva è stata così urgente e imperativa come adesso. Nell'era della globalizzazione la causa e la politica dell'umanità comune affrontano i passi più decisivi che abbiano mai dovuto compiere nel corso della loro lunga storia.
luglio 2005
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