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L’homo democraticus: una specie in via di estinzione?
Riflessioni su educazione e democrazia tra moderno e postmoderno
Federico Repetto
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1. Quale democrazia è in crisi?
Le nostre società democratiche sembrano colpite da una difficoltà generale nella ri-produzione, in quella fisica non meno che in quella culturale: l’uomo della democrazia rie-sce solo a stento a generare altri suoi simili. Questo fenomeno di lungo periodo si combina con una trasformazione del funzionamento quotidiano delle nostre istituzioni e dei nostri rapporti sociali, che da oltre un decennio è da più parti segnalata come crisi della de-mocrazia.
Non è tanto la democrazia parlamentare, la democrazia formale e procedurale ad es-sere in crisi, credo (benché forse non goda di una gran buona salute), ma essenzialmente la democrazia sociale, quella che integra diritti civili, politici e sociali, e che è tenuta insieme dalla solidarietà, dal senso civico e dal patriottismo costituzionale.
Il processo di sviluppo dai diritti civili a quelli politici a quelli sociali (ricostruito in modo classico dal sociologo inglese Thomas Marshall) è alle origini di un modello di società de-mocratica in cui i diritti civili per tutti sono garantiti, sul lungo periodo, non solo dall’equilibrio e dalla reciproca limitazione dei poteri, ma anche dalla partecipazione di massa alla democrazia, mentre la partecipazione di massa alla democrazia si collega a sua volta col bisogno delle masse di far rispettare i diritti sociali. Insomma, senza diritti so-ciali eguali per tutti manca la base reale della democrazia politica (diritti e doveri po-litici uguali per tutti) e, in ultima analisi, dello stesso Stato liberale (uguali diritti civili ed e-guaglianza degli individui di fronte alla legge).
Un tale difficile equilibrio tra diritti, doveri e interessi collettivi nell’ambito dello Stato Democratico di Diritto – che era anche Stato Sociale – si è realizzato al meglio nelle socie-tà industriali avanzate nei “trent’anni gloriosi” successivi alla prima guerra mondiale ed og-gi è, per consenso generale, in declino. Questo declino, tra le altre cause, ne ha sicura-mente una del tutto intenzionale: l’esplicita politica neoconservatrice e neoliberista, che ha demolito lo Stato Sociale in nome della responsabilità individuale e della prosperità teori-camente resa disponibile ai volenterosi dal mercato.
La scelta (più o meno programmatica e cosciente) di una parte dell’élite capitalistica e dell’élite politica americane di considerare secondari i diritti sociali comporta anche il ten-tativo di escludere dalla politica i gruppi sociali che sono interessati ad essi. Dal punto di vista materiale ciò ha significato rendere burocraticamente difficile l’iscrizione alla liste e-lettorali per i cittadini più poveri, meno colti e più sradicati (e quasi impossibile per molti neri). Dal punto di vista culturale, i diritti sociali sono stati messi in secondo piano nell’agenda politica. A questo fine hanno collaborato i politici neoliberisti e neoconservato-ri, la cultura accademica dello stesso orientamento, e i media, ampiamente controllati dai repubblicani.
Non voglio con ciò sostenere che i media, o, più in generale, il mondo dell’ideologia, abbiano avuto un ruolo decisivo: l’attacco “materiale” agli istituti della democrazia sociale è stato fortissimo, e infatti il processo che ha ridisegnato una nuova egemonia delle classi manageriali capitalistiche americane è stato pagato in gran parte con un forte calo della partecipazione politica e, dopo l’11 settembre, anche con una riduzione dei diritti civili. Ma questi costi potevano essere pagati abbastanza facilmente da un capitalismo che sempre meno ha bisogno della domanda interna proveniente dai salari e dalla spesa sociale per i lavoratori del proprio paese e sempre più produce globalmente per una domanda globale.
2. La formazione dell’homo democraticus: la scuola e la piazza
La crisi di riproduzione dell’homo democraticus si situa in questo ben noto contesto, di cui ho disegnato affrettatamente solo il versante americano. Essa però ha tempi e fattori scatenanti propri e assai meno visibili.
Questo modello di uomo, come base antropologica dello Stato Sociale di Diritto, deve essere capace di comportarsi come soggetto autonomo di dialogo politico all’interno dell’opinione pubblica libera, e di prendere decisioni autonome su base razionale, sottraendosi alle suggestioni sia delle forze culturali premoderne, sia dei partiti totalitari. Idealmente questo soggetto politico corrisponde all’Io filosofico, soggetto del “di-scorso della modernità”, di cui parla Jűrgen Habermas (Il discorso filosofico della mo-dernità).
La sua esistenza (dove e quando effettivamente è esistito) non dipende semplice-mente da un programma intenzionale –quello della tradizione pedagogica illuminista– ma da un fortunato concorso di circostanze storiche, a partire dal disfacimento della tradizione della famiglia patriarcale, dal declino dell’economia familiare domestica e dalla crisi di au-torità della Chiesa, dei ceti feudali e delle monarchie.
Prendiamo schematicamente in esame l’istituzione scolastica (anche perché oggi, in molti paesi industrializzati, è coinvolta nel taglio delle spese dello Stato sociale). In effetti l’homo democraticus –come fenomeno di massa– è tra l’altro il risultato di una serie di politiche scolastiche che avevano lo scopo di offrire a tutti, o a molti, opportunità di be-nessere e di stima sociale, di mettere a disposizione dello sviluppo capitalistico forza lavo-ro qualificata e di formare cittadini responsabili, consapevoli ed informati, che preferissero la soluzione dei conflitti attraverso la discussione e il negoziato anziché attraverso la vio-lenza. Per arrivare a tale obiettivo le scuole pubbliche degli Stati occidentali hanno esteso a grandi masse di persone quell’educazione attraverso la lettura sistematica di carta stampata che caratterizzava da alcuni secoli la formazione degli intellettuali moderni.
L’esistenza della stampa è un presupposto non secondario dello sviluppo storico del soggetto autonomo moderno. Nelle società del manoscritto era forte la dipendenza dal maestro che legge pubblicamente e interpreta i libri canonici (la “lectio” dell’università medievale) o dall’istituzione che li possiede, come è stato mostrato dagli storici dei media. L’uomo della carta stampata, invece, da solo in casa sua, o in una pubblica biblioteca, o in un ritrovo privato, è libero di affrontare autonomamente il testo –un numero di testi sempre più grande– a disposizione per la sua fruizione privata. Solo con la diffusione della stampa e con la sua completa industrializzazione nell’Ottocento, abbiamo la possibilità di fruizione universale del testo scritto - che permette di leggere, rileggere, confrontare, riflettere. Neil Postman in Divertirsi da morir ha messo bene in luce il nesso tra partecipazione democratica, cultura di massa e diffusione della carta stampata nel periodo mitico della prima democrazia americana, studiato già da Tocqueville ma prolungatosi fino alla presi-denza Lincoln.
Per Neil Postman, dunque, la democrazia moderna è in gran parte il prodotto della rivoluzione gutenberghiana e dello sforzo protestante e illuministico di alfabetizzazione u-niversale, che ha prodotto negli Stati Uniti, già nel Sette-Ottocento, una massa significativa di cittadini elettori e lettori, capaci di informazione autonoma, di distanza critica, di astrazione, di memoria storica e di progettualità. La cultura dell’immagine, dello spettacolo e della velocità, sviluppatasi soprattutto in seguito al predominio culturale delle tv private, sta progressivamente dissolvendo tutte queste capacità a favore della credenza acritica che l’informazione sia essenzialmente fornita dalle immagini in diretta, della fede magica nella tecnologia, dell’immediatezza dei sentimenti e dell’appiattimento sul presente, della personalizzazione e della spettacolarizzazione della politica, della sfiducia nelle istituzioni gutenberghiane (la scuola, la stampa, ecc.). I giovani, educati attraverso il “curriculum te-levisivo” che non richiede sforzo e che gratifica in continuazione il suo “studente”, non hanno fiducia nell’autorità degli adulti in carne e ossa (genitori, insegnanti, ecc.). Poiché l’ideologia della tv è l’intrattenimento, poiché il suo messaggio essenziale è un flusso di frammenti non collegati logicamente, “gli americani sono i più intrattenuti e i meno informa-ti fra tutti i popoli del mondo occidentale” (Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo, p.129).
Tuttavia, le scuole della prima democrazia americana, che nascevano spesso da ini-ziative delle comunità locali, avevano un basso grado di istituzionalizzazione e fornivano solo le basi per una cultura che cresceva attraverso lo scambio collettivo e il lavoro auto-didattico. Le scuole di élite della grande tradizione occidentale indubbiamente fanno di più. Esse forniscono infatti ai loro studenti ampie capacità di astrazione e di rigore logico (le dimostrazioni della geometria euclidea richiedono, come dice Lucio Russo, di ragionare non più in termini di “bastoncini”, ma in termini di “segmenti”), di appropriazione sistemati-ca di strutture di pensiero diverse dalla propria (il latino e le lingue moderne), di compren-sione del carattere storico della società e della cultura e dell’autonomia del sapere scienti-fico rispetto alla tradizione e alla religione. Per quanto pochi siano gli individui formati in questo modo, non sono tutti e sempre membri delle classi dominanti e dei ceti dirigenti se-parati, ma, diffusi nella società, sono un modello di soggetto razionale autonomo che può essere agevolmente riconosciuto dal normale homo democraticus, in grado co-munque di riconoscere e stimare i soggetti più competenti di lui e, come lui, indipendenti dalle autorità tradizionali.
Non sono mancati studiosi, come Christopher Lasch, che hanno sottolineato il valore dell’oralità e della coeducazione sociale nella formazione del cittadino moderno: la piccola città, il quartiere, i pubblici ritrovi, i puri e semplici luoghi d’incontro, i “luoghi terzi” rispetto alla famiglia e al posto di lavoro, hanno un’influenza nello sviluppo della capacità di discutere razionalmente e civilmente e nello sviluppo del senso di responsabilità nei confronti degli altri. Se le grandi fabbriche e i quartieri operai sono stati i luoghi classici del-la formazione della coscienza e della solidarietà operaia, più in generale anche la coscien-za civica e lo spirito democratico presuppongono dei particolari tipi di struttura urbana e di organizzazione della vita sociale, del consumo e del divertimento, che permettano una so-cializzazione aperta e disinteressata.
Naturalmente la carta stampata può giocare un ruolo importante in questo mondo della socialità orale. Lasch però è convinto che proprio l’ideale ipocrita del giornalista o-biettivo e al di sopra delle parti ha contribuito ad allontanare il giornale dalla cultura popo-lare, che preferisce i giornali apertamente schierati. Tuttavia non credo che l’incontro tra l’informazione politica specializzata e la discussione orale abbia bisogno necessariamente della lettura diretta del giornale: l’autorevolezza delle persone colte presenti nell’ambiente popolare di discussione (insegnanti, professionisti, preti, militanti politici e sindacali - ma-gari autodidatti, ecc.) può mediare notizie corrette e valutazioni per i quali l’uomo medio non avrebbe sufficienti basi di conoscenza.
Secondo molti analisti, questo complesso mondo della cultura popolare orale e scritta è stato minato, a partire più o meno dalla fine degli anni settanta, da una serie di processi concentrici che gli hanno tolto gran parte delle sue capacità di informazione e di discus-sione critica.
Da un lato la cultura dei media centrati sull’immagine ha acuito la crisi del sistema dell’istruzione pubblica, già da tempo in difficoltà per conto proprio e da ultimo coinvolto nel taglio delle spese dello Stato sociale. Essa in particolare ha contribuito alla regressione di gran parte della cultura scolastica (anche “alta”) dai “segmenti” ai “bastoncini”, dalla teo-ria basata sui concetti astratti alle nozioni basate su esempi e su casi personali. Anche la politica televisiva è diventata più elementare e concreta di quella della carta stampata e dei comizi, e normalmente fa riferimento a persone più che a programmi e idee: è sempre più concepita come duello tra leader e come gara tra squadre. Come nota il grande mas-smediologo americano Joshua Meyrowitz, il leader non è più il mitico e irraggiungibile ca-po di un partito, che ci arringa dall’alto della tribuna, ma un familiare mezzobusto televisi-vo, la cui vita privata non sfugge agli obiettivi delle videocamere.
Dall’altro lato la grande fabbrica come centro di socializzazione e di aggregazione in-torno a interessi comuni è sparita, le piccole città e i quartieri hanno in parte perso i loro centri di aggregazione e di discussione disinteressata: alla chiusura di molti piccoli negozi e caffé corrisponde la diffusione, almeno nell’America desolata di Lasch, delle shopping malls e degli spazi pubblici gestiti dai privati (non solo centri commerciali, ma anche centri residenziali).
In mezzo, resta schiacciato l’opinion leader da osteria, l’intellettuale di base che me-dia tra la cultura alta e specialistica e la cultura popolare. Da un lato le sue conoscenze cartacee perdono valore e fascino di fronte all’onniscienza spettacolare della tv, che ti met-te di fronte ai fatti e ai personaggi del momento in carne ed ossa. Dall’altro, nel mondo fre-netico della ricerca di un lavoro flessibile e precario e della commercializzazione universa-le del tempo libero e delle spazi pubblici, le possibilità di incontro e di discussione disinte-ressata si assottigliano sempre più.
3. La formazione dell’homo democraticus: la famiglia
Gli opinion leader da osteria non sono gli unici educatori dell’homo democrati-cus che perdono autorevolezza di fronte all’onniscienza delle immagini televisive. A lo-ro si devono aggiungere anche gli insegnanti, il cui prestigio è minato non solo dalla man-canza di rispetto e di interesse degli studenti, ma anche dalla contestazione delle stesse famiglie. Tuttavia, all’inizio della catena educativa, le prime vittime dell’universale declino dell’autorità in genere sono stati proprio i genitori.
Daniel Dagenais, un sociologo franco-canadese, ha sostenuto addirittura che la fa-miglia –almeno nella sua versione moderna– sta arrivando alla sua fine (La fin de la famille moderne, Rennes, P.U.R., 2000). Ciò significa che la famiglia “normale”, com-posta di un uomo e di una donna, diventa sempre più instabile e precaria (e anche relati-vamente meno frequente rispetto ad altri modelli di convivenza) e che in essa i genitori sono sempre più indecisi su come giocare il loro ruolo, e infine che questi ultimi non sono più certi di una delle ragioni d’essere della loro convivenza di lungo periodo: quella di met-tere al mondo dei figli e di educarli per la vita sociale. Nella famiglia premoderna i figli era-no educati per assumere un ruolo nel lignaggio e per lavorare nell’economia domestica. In quella moderna sono educati perché “facciano carriera” fuori della famiglia, ma questo im-plica una accettazione di quella “società degli individui” in cui tale carriera si svolgerà, e una proiezione dell’educazione verso il futuro, al di là della vita dei genitori.
Negli ultimi decenni, invece, nei rapporti con gli insegnanti, le famiglie sembrano prima di tutto interessate alle gratificazioni immediate dei loro figli piuttosto che ai contenuti tecnici dell’insegnamento. E i genitori non solo abbastanza frequentemente mo-strano di non riconoscere l’autorità dei docenti nei confronti dei loro figli, intralciandone il lavoro, ma forse ancor più di frequente non sembrano in grado di esercitarla essi stessi.
Diamo qui per scontato, seguendo le indicazioni di molti psicanalisti, che l’autorità sia un elemento indispensabile del processo educativo, e che la formazio-ne di un soggetto autonomo socializzato richieda una sua precedente sottomissione ad un soggetto autonomo già formato, che si prende la responsabilità di indicare la via dell’autorepressione e dell’autocontrollo. In effetti il soggetto politico della democrazia è sì un individuo autonomo, ma non un individuo isolato e asociale, che non riconosce sopra di sé alcun superiore e che non conosce alcun limite. Potremmo riprendere l’espressione di Marcel Gauchet che, del resto sulla scia di una grande tradizione sociologica, sostiene che l’individuo moderno riconosce in qualche modo che sia la società in cui si trova gettato, sia il futuro a cui i suoi figli e le nuove generazioni sono destinati sono qualcosa che lo trascende. E questa trascendenza laica era rimasta nel mondo moderno anche do-po la scomparsa della trascendenza religiosa.
Dall’analisi di Dagenais si ricava che il declino della famiglia moderna e la sua cre-scente difficoltà sia a generare sia a educare coerentemente i figli sono legati al declino del ruolo di padre e di marito. Questo declino da un lato può essere connotato positi-vamente come parte del fondamentale processo democratico di egualizzazione sociale dei sessi. Ma, dall’altro, non si può dimenticare che esso è accompagnato da risentimento e frustrazione da parte dei maschi e che il suo ritmo troppo accelerato (come quello di tutto il cambiamento sociale e psicologico odierno) può portare ad effetti incontrollabili.
Quanto al risentimento da parte dei maschi, esso ha anche avuto un peso non indif-ferente nel successo di un esponente della destra repubblicana, Newt Gingrich, che non molti anni fa attaccò direttamente il femminismo. In realtà l’eguaglianza tra i sessi è lungi dall’essere compiuta: come mostra assai bene Castells ne Il potere delle identità, negli anni novanta il lavoro femminile è penetrato profondamente nel mercato americano del lavoro e ha sostituito talora quello maschile, ma è rimasto complessivamente meno pagato. E non meraviglia che molti lavoratori maschi, non più all’altezza (nemmeno eco-nomicamente) del loro ruolo di padri, abbiano assunto comportamenti violenti e reazionari. Anche la violenza giovanile, così come il rifiuto dell’istituzione scolastica, sono prevalen-temente maschili.
Ma, a mio avviso, il punto essenziale è la velocità del cambiamento sociale e psico-logico, indotta dalla velocità dei cambiamenti della tecnica, dell’economia e delle comuni-cazioni: non si può dare per scontata la capacità degli individui di reinventare in tempi bre-vi nuovi modi relazionali, nuove forme di comunità e nuovi ruoli che sostituiscano effica-cemente quelli precedenti nell’educazione dei futuri cittadini.
4. L’Io postdemocratico
In questo contesto di autorità incerta o violenta, la famiglia postmoderna rischia di produrre un nuovo modello di Io postdemocratico, che ricorda un po’ l’individuo preso co-me unico, secondo le concezioni del giovane hegeliano anarchico Max Stirner (1844): un Io che non riconosce alcun potere sopra di sé, che è disposto ad associarsi co-gli altri solo temporaneamente, che non riconosce nessuna trascendenza sociale e nessun progetto a lungo termine. Si può forse dire che l’unico stirneriano ha anticipato l’Io po-stmoderno così come è stato pensato dall’anarco-capitalismo e dal liberismo più sel-vaggio, e anche come è ormai prodotto dalla famiglia attuale. Ma la società “senza cuore” e le leggi implacabili del mercato globale ne fanno poi un “uomo flessibile”, secondo la for-tunata espressione di Richard Sennett.Infatti l’individuo può anche continuare a non rico-noscere la trascendenza della società e il valore dell’autorità democratica, ma non può fa-re a meno di adattarsi alle costrizioni impersonali del mercato.
Zygmunt Bauman mostra come la flessibilità psicologica non significhi necessaria-mente “corrosione del carattere” (come la chiama Sennett), ma sia una sorta di reazione razionale all’ambiente. Per lui il passaggio dalla “modernità solida” della grande industria fordista all’odierna “modernità liquida” (mobilità, flessibilità e provvisorietà del lavoro, incer-tezza del futuro e dell’identità) crea una condizione oggettiva che scoraggia -e rende inuti-le e irrazionale- la ricerca delle tradizionali soluzioni solidali e collettive – politiche e sinda-cali. Semmai si rafforza la reazione della “voglia di comunità”, cioè della regressione a comunità elementari ed inclusive, solidali ma autoritarie e invadenti nei confronti dell’individuo. Per Bauman l’individuo della “modernità liquida” oscilla tra la tolleranza, il multiculturalismo, il rifiuto di qualunque etica e di qualunque responsabilità, propri dell’ideologia delle “élite globali”, e l’adesione alle misure repressive e intolleranti contro i criminali e i diversi promosse dagli Stati nazionali - quando cercano di occultare il proble-ma della sicurezza sociale sostituendolo con quello della sicurezza fisica - e può anche, a un certo punto, cercare rifugio nelle comunità chiuse e autoritarie
Lasch già prima de La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia a-veva parlato di profonde trasformazioni dell’Io (La cultura del narcisismo. L’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive, ediz.originale 1979). L’Io dell’americano del periodo attuale è per lui ridotto ad un “Io minimo”, in una fase di involu-zione rispetto all’individualismo classico della tradizione americana, che era forte, asserti-vo, capace di progetto. Nella fase più recente l’individuo non sembra capace di elaborare un forte “ideale dell’Io”, cioè un modello etico interiorizzato che gli richieda sforzo, tensio-ne, superamento delle proprie debolezze.
“Il narcisista non ha abbastanza fiducia nelle proprie capacità per forgiare se stesso sull’elevato modello di un’altra persona… Il narcisista riesce a identificarsi con qualcun altro solo a condizione di considerare l’altro come un’estensione di se stesso, annullandone l’identità. Incapace di identificarsi, in primo luogo con i genitori e altre figure autorevoli, non sa entusiasmarsi per il culto degli eroi… “(La cultura del narcisismo, Bompiani 1995², p. 100-101;)
La politica spettacolo odierna corrisponde a questa struttura dell’Io: essa non propo-ne la scelta tra grandi ideali e programmi, o tra grandi uomini, ma piuttosto competizioni di tipo sportivo tra celebrità. Le personalità dei politici si presentano con i tratti dell’uomo co-mune: sono “gente come noi” -quindi facilmente imitabile- che però ha avuto successo. Come abbiamo visto, per Joshua Meyrowitz la tv riduce il politico alla misura dell’uomo comune. Vari fattori vi concorrono: il formato mezzobusto, che da eroe misterioso e poco accessibile, che parla dall’alto di un palco, lo riduce a persona familiare che entra in casa nostra all’ora di cena, la cui faccia è pienamente visibile; il pettegolezzo salottiero dei talk show in cui esso è spesso presente; la caccia ai dettagli anche minimi della sua vita priva-ta cui si dedicano i cronisti.
Ma va sottolineato che anche Lasch, analista di alto livello della politica spettacolo e della pubblicità, non imputa semplicemente allo sviluppo della cultura e dei media le grandi trasformazioni in corso, ma le mette spesso in relazione con fatti socio-economici, dalla diffusione della vendita a rate, che ci esenta da una progettazione della nostra vita sul lun-go periodo, all’impossibilità di un miglioramento di status, per cui non resta che coltivare il proprio giardino privato e ritirarsi dalla politica, ecc.
La “società narcisista” di cui parla Lasch ha poi molti punti in comune con la “società individualizzata” di cui parla Zygmunt Bauman nell’opera omonima (il cui sottotitolo è signi-ficativamente: come cambia la nostra esperienza). Qui regna la competizione con-tinua tra individui che mancano di una prospettiva solidale e di uno stabile progetto di vita, che sono “dominati da un sentimento di impotenza e di incapacità ad agire” e da una con-tinua insicurezza. La libertà impotente di cui gode l’individuo di oggi, abbandonato a se stesso dalla società e dallo Stato, privo di luoghi di effettiva socializzazione politica e sin-dacale, si accompagna ad una sostanziale mancanza di fiducia nelle autorità e di entusia-smo per le istituzioni democratiche.
Bauman, come sappiamo, collega la cultura e la psicologia individualistiche con fe-nomeni strutturali: la “flessibilità”, la frammentazione e la forte competitività del mercato del lavoro individualizzato le rendono, secondo lui, non solo quasi inevitabili, ma anche razionali: nella presente situazione di economia globale, la solidarietà e i progetti di lungo periodo sono inefficaci.
Sintetizzando, sulla base delle filosofie sociali pessimiste che abbiamo citato possia-mo dire che la diffusione di una cultura individualistica, il predominio dei media dell’immagine, dello spettacolo e dell’intrattenimento, l’erosione dell’autorità della famiglia e della scuola (la prima privata di mezzi in seguito all’impoverimento dei genitori e alla crisi della coppia, e la seconda in seguito alla fine dello Stato sociale), l’aumento della competi-zione individuale nel mercato del lavoro e la dissoluzione delle grandi organizzazioni politi-che e sindacali di massa producono una trasformazione dell’io nell’uomo occidentale: la sua mente è sempre più dominata da sentimenti e da immagini, e sempre meno capace di autonomia, di astrazione, di giudizio critico e di solidarietà - cioè delle condizioni base del-la democrazia partecipativa, come si è detto.
Tutto questo però potrebbe anche essere letto positivamente. Si potrebbe dire che il neoliberismo e la globalizzazione da esso voluta hanno liberato le migliori qualità degli in-dividui, cioè la capacità di decidere la propria vita e di cambiare le proprie preferenze mo-mento per momento, di esprimere fino in fondo la propria differenza, portando a compi-mento la fine delle ideologie e delle grandi narrazioni dei soggetti collettivi. Il neoli-berismo non si preoccuperà particolarmente se poi questo comporta la fine della demo-crazia partecipativa.
Si potrebbe obiettare che il prezzo pagato è troppo alto: polarizzazione crescente di ricchezza e di miseria, crescente disparità delle opportunità per i diversi individui, anomia e insicurezza, ecc.
Ma c’è una questione più importante, che ci porta sul terreno di Freud e di Lacan: il neoliberismo, pur non rinunciando al potere statale che tuteli la proprietà privata e l’ordine pubblico, di fatto mette radicalmente in questione il principio di autorità di cui lo Stato ha bisogno. In altre parole esso fa in teoria quello che i media, la frammentazione del mercato del lavoro e l’economia globalizzata fanno in pratica. A causa del suo radi-cale individualismo etico e politico, il neoliberismo più conseguente si rifiuta di aiutare at-traverso le politiche di welfare la famiglia e la scuola, considerandole questioni private, co-sì come si rifiuta di interferire nei programmi televisivi accessibili ai bambini di tutte le età, lasciando esclusivamente ai genitori la cura della loro sorveglianza (e se questi ultimi lavo-rano entrambi e non possono fare a meno della tv come parcheggio, pazienza). Ma l’educazione è un problema essenzialmente pubblico. Così come è un problema pubblico la preservazione di una qualche forma di autorità.
Freud e Lacan ci insegnano ciò che Lasch, Bauman, Postman e altri filosofi sociali pessimisti hanno bene imparato. E cioè che il soggetto libero, capace di parola e di ragione, nasce da un assoggettamento ad un’autorità, ad una parola che vie-ta (il “nome del padre” di Lacan). Per essere liberi e autonomi nel senso della vita civile -e non semplicemente spontanei nel senso della vita selvaggia- dobbiamo sottomettere le nostre pulsioni e il nostro stesso Io ad un “ideale dell’Io”, che ci permetta di trascendere l’immediatezza.
5. L’homo postdemocraticus è un homo totalitarius?
Misconoscendo questo problema, e in genere misconoscendo il fatto che il l’educazione e la riproduzione della cultura sono anche un problema pubblico, e non esclusivamente privato, il neoliberismo ha contribuito a creare una situazione di disordine, di insicurezza, di anomia. Esso tuttavia non ha portato, e non poteva portare, questa situazione alle estreme conseguenze, perché, se le condizioni di esistenza della riproduzione dell’autorità della democrazia sono state anche seriamente messe in que-stione, quelle della autorità pura e semplice sono rimaste sufficientemente salde. E l’11 settembre le ha fortemente rinsaldate. Si tratta di riflettere ora su che cosa significhi la ripresa non solo dell’autorità ma dell’autoritarismo, che sembra essere una conseguenza del patriottismo occidentale rilanciato da Bush, Blair e Berlusconi. Freud in Psicologia delle masse e analisi dell’Io parla dell’organizzazione delle “masse artificiali”, riferendosi a istituzioni come la Chiesa Cattolica e l’esercito. In esse tutti sono uguali e si identificano l’uno nell’altro, in quanto tutti sono egualmente sottomessi ad un Capo supremo. C’è da chiedersi quali rischi di autoritarismo si presentino se all’improvviso gli Io minimi che si affollano negli Stati Uniti e nel mondo occidentale devono passare dall’orizzonte della libera scelta delle scelte e dei valori individuali a quello dell’emergenza e della sacralità delle scelte di civiltà.
A questo punto, anche in relazione con le spinte autoritarie successive all’11 settem-bre, si potrebbe addirittura sospettare che le difficoltà di riproduzione dell’homo demo-craticus ci portino ad un ritorno dell’homo totalitarius. La descrizione di Hannah Arendt ce lo presenta come un “fascio intercambiabile di reazioni emotive”, come isolato, debole, gregario, disorientato, ansioso per la sua sicurezza fisica e sociale, facile preda delle manipolazioni del leader carismatico che incarna il progetto titanico – proprio della religione secolarizzata – della formazione dell’Uomo Nuovo.
Ma la situazione è diversa per molti aspetti significativi. I leader politici sono oggi uni-formemente sottoposti al ridimensionamento e alla spoetizzazione del piccolo schermo. Come scrisse una volta Umberto Eco, Berlusconi più che il padre dei cittadini, può esserne al massimo lo zio. E c’è da chiedersi poi fino a che punto l’Io minimo dell’uomo flessibile ami le figure paterne. L’italiano, il tedesco o il russo del primo dopoguerra normalmente avevano avuto esperienza di grandi autorità tradizionali perdute o decadute (il padre, il so-vrano, l’uomo di chiesa) e di solide comunità dissolte dalle trasformazioni economiche (la famiglia patriarcale, il villaggio, la comunità di quartiere, ecc.). E il totalitarismo poteva of-frirsi, con enfasi, come loro sostituto emotivo. Ma né l’offerta politica odierna né la doman-da da parte degli “individui atomizzati” assomigliano veramente alla situazione totalitaria.
L’intolleranza antidemocratica odierna non sembra dunque una riedizione del vecchio totalitarismo, che sottoponeva il privato al pubblico fino a farlo scomparire. Invece la cultu-ra del Grande Fratello (quello di oggi) utilizza la dimensione pubblica per esibire senza inibizioni il privato, che perde così la sua intimità – mentre la dimensione pubblica per-de la sua trascendenza. Lo Stato forte che oggi si profila fornisce (o pretende di fornire) sicurezza e incolumità ai suoi cittadini (almeno a quelli a pieno titolo), ma si guarda bene dal chiedere loro quello che essi non sono affatto intenzionati a dargli: fiducia incon-dizionata, obbedienza e servizio militare obbligatorio. Essi non sembrano proprio disposti né a credere, né a obbedire, né a combattere. Lo spirito mimetico e gregario e il conformi-smo identitario restano fenomeni di superficie -Bauman parla di “identità usa-e-getta”- ben lontani dall’eroismo militare richiesto dal vecchio totalitarismo. Anche la riscoperta odierna delle radici cristiane dell’Europa o di un cristianesimo padano da parte di un popolo di non praticanti e fondamentalmente agnostici assomiglia molto ad un abito sgargiante indossato per un’occasione sociale particolare, che può essere mutato in un’altra nell’abito del tutto diverso del liberismo radicale.
6. Possiamo fare qualcosa?
Le trasformazioni dell’Io abbozzate nei paragrafi 2, 3 e 4 non sono state né previste né esplicitamente progettate da nessuno. Le loro cause sono e saranno soggette ad infini-te discussioni. Possono essere considerate in proporzioni variabili come effetti collaterali della politica neoliberista di demolizione dello Stato sociale e della globalizzazione, ma an-che come effetti perversi delle lotte post-sessantottesche per i diritti individuali contro l’autoritarismo familiare, scolastico e statale, del femminismo, dell’individualismo moderno che si radicalizza, ecc. Tuttavia sono anche legate a contingenze storiche impossibili da ricostruirsi. Le reazioni delle persone alle novità non sono sempre ed ovunque le stesse, e nemmeno la loro capacità di produrre novità, di creare nuove situazioni relazionali e co-munitarie. Non ha senso, anche avendo a disposizione ampie risorse per la politica socia-le, mettersi a riprogettare l’homo democraticus. Quello che forse si può tentare di fare è proteggere la vita familiare, comunitaria, scolastica, ecc. nelle nostre società in mo-do da dare alla creatività individuale e collettiva il tempo di produrre nuove forme di convi-venza: sembra che la globalizzazione abbia prodotto un’accelerazione della trasformazio-ne sociale che rischia di travolgere la nostra capacità di adattamento e di risposta.
È comunque molto difficile tradurre questo programma di conservazione e di protezione in precisi provvedimenti amministrativi. Il ricorso alla spesa sociale è ovvio e necessario. Ma si pongono molti problemi di difficile soluzione. Per esempio, non è facile sapere, in una politica a favore dell’autorità genitoriale (non diciamo dell’autorità paterna), che tipo di fa-miglie debbano avere la priorità. O, in una politica per la promozione della comunicazione popolare, se debba avere la priorità una politica della promozione degli spazi urbani di in-contro o la lotta contro l’esclusione dalla comunicazione via internet, contro il digital di-vide. E non è affatto chiaro che tipo di nuovo Io crei l’impiego del computer e di inter-net in un contesto egemonizzato dal liberismo individualista: se i nuovi movimenti della new globalisation e, in Italia, della società civile hanno fatto un vasto uso di internet, cre-ando nuove speranze per la democrazia, ciò non significa ancora che i nuovi media diano sempre di per sé un contributo alla ricostruzione dell’homo democraticus. E ancora: la scuola “deve stare al passo con i tempi” e dare l’assoluta priorità all’introduzione delle nuove tecnologie dell’informazione o deve innanzi tutto preoccuparsi –essendo l’unica in grado di farlo– di formare i suoi studenti alla cultura “libresca” dei segmenti e dei concetti astratti, che al momento costituisce la base migliore per un uso razionale di tali tecnologie? Non bisogna infine dimenticare i difficili problemi che nascono dal rapporto con le forze che combattono legittimamente contro gli effetti perversi della globalizzazione partendo però da un punto di vista confessionale, o addirittura fondamentalista. La tradi-zionale bussola dei valori di sinistra e soprattutto la vecchia ideologia del progres-so, per cui il nuovo che avanza è buono in quanto tale, sono sempre meno in grado di indicarci la via, e un ripensamento della condizione umana si impone sempre più all’azione politica democratica.
Ironicamente, il vecchio slogan “il personale è politico” si mostra in un certo senso ancora significativo: l’eguaglianza tra i sessi, che è una delle caratteristiche più radicali della tradizione democratica occidentale, si rivela fonte di grandi difficoltà per la riprodu-zione della democrazia, poiché mette in questione le radici tradizionali dell’autorità inter-generazionale e del legame sociale, senza che sia possibile in tempi brevi creare un loro efficace sostituto. Proprio là dove il programma illuminista si è mostrato più coraggioso e originale, nella lotta contro i privilegi di sesso, sorgono difficoltà che sembrano rimetterlo in questione.
In tutti i casi nessuno può illudersi di progettare l’uomo nuovo a tavolino, ma per le forze politiche realmente democratiche è indispensabile l’interazione con i movimenti or-ganizzati e con le tendenze informali che dal basso reagiscono alle trasformazioni troppo rapide e promuovono autonomamente nuove forme di comunità. La vita e la comunicazio-ne popolari, anche se non si svolgono più nelle piazze e nei caffè di cui parla Lasch, non sono per questo scomparse. Si tratta di capire dove sono e come si manifestano.
INVITO ALLA LETTURA
-Neil Postman, Divertirsi da morire, Marsilio 2002
-Neil Postman, Ecologia dei media. L'insegnamento come attività conservatrice, A. Armando editore, 1991
-Joshua Meyrowitz, Oltre il senso del luogo, Baskerville 1995.
-Derrick De Kerckhove, La civilizzazione video - cristiana, Feltrinelli, 1995
-Elizabeth Eisenstein, La rivoluzione inavvertita. La stampa come fattore di mutamen-to, Il Mulino, 1985
-Lucio Russo, Segmenti e bastoncini. Dove sta andando la scuola? Feltrinelli 1998
-Christopher Lasch, La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia, Feltri-nelli 1995
- Manuel Castells, Il potere delle identità, EGEA 2003
-Marcel Gauchet, La democrazia contro se stessa, Città aperta, 2005
-Zygmunt Bauman, La società individualizzata, Il Mulino 2002
-Zygmunt Bauman, La società sotto assedio, Laterza 2004
-Richard Sennett, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli 2001
-Max Stirner, L’unico e la sua proprietà, Adelphi 1979
- Le débat - histoire, politique, société, n° 132, éditions Gallimard, novembre-décembre 2004 (numero monografico dedicato a L’enfant problème e alla crisi dell’autorità familiare)
- Nuvole. Per la ragionevolezza dell’utopia, Città Aperta editrice, n° 26, dossier su “Le masse e l’Io” (che raccoglie alcuni testi del convegno psicanalitico “Psicologia delle masse. Persistenze e nuove modalità”)
settembre 2005
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