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Totalitarismo moderno e terrorismo integralistico
Federico Repetto
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Tra le molte analisi della nuova situazione storica post - 11 settembre che ho trovato scorrendo ansiosamente i giornali, fatte da sociologi, politologi, polemologi, politici, opi-nionisti ecc., mi ha colpito quella di Alessandro Baricco, uomo di tutt'altro mestiere. Essa è uscita sulla Repubblica del 14 settembre ("Quando il conflitto non ha più confini").
Baricco osserva che da sempre la guerra è caratterizzata da uno scontro al fronte, da uno sfondamento dei confini del nemico e da un'invasione del suo territorio. Si potrebbe aggiungere che anche il conflitto tra animali, e in particolare tra diversi predatori, ha a che vedere con territori e confini. In questo caso, invece, dice Baricco, il nemico è dentro. Dato che il mondo attuale è globalizzato (un solo mercato, un solo impero, un solo sistema mediale) il nemico non può che essere dentro di esso (nel mondo naturale ciò corrisponderebbe al conflitto tra un organismo e i suoi stessi parassiti e virus).
L'autore aggiunge molto opportunamente che non solo Bin Laden è dentro il siste-ma globale, ma che ne è anche un attore a pieno titolo. In effetti, il finanziere saudita ha fatto affari con gli investitori occidentali, così come molti investitori occidentali hanno fat-to affari con lui; il leader integralista islamico ha aiutato i servizi segreti occidentali contro gli afgani filosovietici, così come i servizi occidentali e sauditi prima lo hanno aiutato e hanno continuato ad avere contatti con lui anche dopo la fine del conflitto afgano (su tutto ciò, è molto interessante il dossier biografico su Bin Laden pubblicato da Le Monde il 14 settembre).
Ma se è vero che l'organizzazione terroristica islamica è dentro ai nostri confini e dentro ai nostri meccanismi economici e strategici, un'analogia nasce spontanea: questo terrorismo è qualcosa di analogo al fenomeno del totalitarismo, il prodotto patologico del-la civiltà occidentale.
Per cercare di fare un passo avanti, proverò sommariamente a dare un quadro della genesi del totalitarismo classico, mescolando liberamente spunti presi da Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Karl Polanyi, La grande trasformazione e Dahren-dorf, Sociologia della Germania contemporanea. Tutti questi autori presentano, in mo-do a mio avviso esemplare, il totalitarismo e il bellicismo, e la "seconda guerra dei tren-t'anni" tra il 1914 e il 1945, come qualcosa che nasce dall'interno della civiltà occidentale. Del resto spesso le tesi "esterniste" risultano semplicistiche in modo grottesco: Schumpeter, in una sua analisi del 1919 della prima guerra mondiale, vedeva l'imperialismo e il bellici-smo come una ricaduta nell' "atavismo" sopravvenuta all'improvviso nel civilizzato mon-do capitalistico, Benedetto Croce riduceva il fascismo ad una parentesi della storia italia-na. Per Nolte, l'ideologia comunista, presentata come un corpo estraneo, come un male o-scuro e inesplicabile, dovrebbe spiegare la reazione nazifascista.
Ma il totalitarismo non è un male così oscuro e non nasce semplicemente sul terreno ideologico. Nasce più verosimilmente da un trauma per l'accelerazione impressa alla storia dalla modernizzazione capitalistica e burocratico-statale. L'individuo che ha perso i con-tatti con le sue comunità d'origine (villaggio, parrocchia, famiglia estesa, comunità di quartiere, comunità di mestiere, ecc.) e che è stato reso mobile prima dallo sviluppo economico e sociale e poi dalle grandi crisi (prima guerra mondiale, crisi del 29), è un a-tomo in balia delle tempeste magnetiche dei grandi sommovimenti politici. Il suo bisogno di comunità e di sicurezza lo spinge ad abboccare alle offerte pseudocomunitarie del tota-litarismo. Il quale però, sotto sembianze comunitarie e tradizionaliste, promuove un'ulte-riore modernizzazione (che tra l'altro gli è imposta dalla competizione con le altre poten-ze).
Il totalitarismo è dunque una risposta sempre patologica ad una malattia già in atto, malattia che Polanyi fa risalire al programma liberista di affidare al mercato autoregolato tre beni sociali che in precedenza erano stati sempre sottoposti alla tutela paternalistica dello Stato e dei poteri tradizionali, e cioè il lavoro, la terra e il credito. Anche per Hannah Arendt l'attacco indiscriminato alla millenaria tradizione occidentale, portato dalla mo-dernizzazione capitalista liberista, e già denunciato da Marx, conduce ad effetti perversi. Ma non a quelli previsti da Marx (la formazione di un proletariato come classe universale capace di rovesciare con la rivoluzione il processo di modernizzazione alienante), bensì ad un'inedita alleanza tra nobiltà bellicista decaduta e plebe, la base sociale del nazionalismo, del razzismo e della guerra imperialista.
I germi patogeni di questo imperialismo non si trovano solo nell'impero straccione degli zar, o in quello guglielmino, ben meglio attrezzato tecnologicamente. Sono ben pre-senti anche nel razzismo inglese e nello sciovinismo francese, e perfino nel progressismo espansionista di Teodoro Roosevelt. Così come focolai se ne trovano in tutta l'Europa degli anni venti e trenta, dalla Francia alla Norvegia, dall'Ungheria alla Romania, dalla Croazia alla Spagna, che saranno pronti a trasformarsi, con l'occasione dell'occupazione nazista, in riserve di collaborazionismo. Ma l'atto più totalitario compiuto dagli Stati non totalitari è con ogni evidenza la pace di Versailles, con le sue atroci condizioni di pace nei confronti dei tedeschi arresi a discrezione e convertitisi alla più completa democrazia liberale. Que-ste clausole durissime sono tanto causa dello sviluppo del totalitarismo quanto la tolleran-za dal '33 in poi della loro violazione, in particolare della violazione proprio di quegli arti-coli che potevano avere una giustificazione (il divieto di avere un grosso esercito e una flotta), nonché quanto la tolleranza della violazione della sovranità dei paesi confinanti con la Germania.
In sostanza, il totalitarismo nazista non è un fenomeno tedesco ma, con le dovute distinzioni, un fenomeno dell'occidente, che nasce dalla sua cultura, dalla sua economia e dalla sua politica. Forse, paradossalmente, il totalitarismo staliniano è quello che ingloba in sé più elementi estranei alla nostra civiltà, se teniamo presente che la Russia è stata cri-stianizzata poco dopo il Mille, che le sue popolazioni hanno finito di sedentarizzarsi anco-ra più tardi e che la servitù della gleba vi è stata abolita nel 1861. Certamente la filosofia della storia marxista e il fanatismo politico leninista (che, per me, non sono affatto la stessa cosa, date le componenti cospirative e nichilistiche del secondo) sono ideologie che pro-vengono dal cuore stesso della civiltà europea, Esse, come dice la Arendt, cercano di rea-lizzare in forma millennaristica e radicale il progetto titanico della modernità, quello di creare l'Uomo Nuovo, il paradiso in terra. Tuttavia questo stesso progetto, in una forma politica diversa e attraverso una diversa filosofia della storia, si trova anche nel liberismo alla Spencer, analizzato da Polanyi: togliendo ogni vincolo al mercato autoregolato, esso ci porterà ad uno sviluppo all'infinito. Ma un'accelerazione eccessiva delle particelle suba-tomiche del processo di modernizzazione può portare alla fusione. Il totalitarismo, per dir-lo con una metafora pesante, è la Cernobyl del reattore atomico del titanismo capitalistico moderno.
Certo, questa analisi sembra andare un po' troppo oltre il caso di Ben Laden e dei suoi terroristi suicidi. E' vero che il processo di globalizzazione ha inglobato e sconvolto in profondità il vicino e il medio oriente, ma sembra altresì vero che l'integralismo islamico, la guerra santa e il fanatismo degli eroi suicidi siano elementi culturali del tutto estranei alla nostra civiltà, che si trovano dentro la globalizzazione in senso geografico, ma che ap-partengono qualitativamente ad un altro mondo. Bisognerebbe quindi ricorrere in primo luogo ad una spiegazione di tipo "esternista".
Ma forse si tratta solo di una differenza di grado. Anche i tirolesi con i pantaloni di cuoio e il cappello alpino con la piuma, gli abitanti di Danzica discendenti dai cavalieri teutonici e i cosacchi del Don, si sentivano come un corpo estraneo dentro la modernizza-zione europea (e così anche gli zingari, vittime della contro-modernizzazione, o moderniz-zazione alternativa, del nazismo). Le popolazioni friulane, che hanno subito la ferocia dei cosacchi, che i nazisti (portandoseli come souvenir dalla campagna di Russia) avevano sca-tenato contro di loro e contro la resistenza, non so se li possano considerare più bonaccio-ni dei terroristi islamici (a parte il fatto che la loro ferocia era più improvvisata e artigiana-le, meno moderna). E consideriamo anche le infinite crudeltà delle guerre balcaniche, ben-ché certo contengano un germe culturale estraneo, legato alla tradizione dell'impero otto-mano. Esse, dalla prima guerra balcanica del 1912, ai massacri croati sponsorizzati dai fa-scisti e dai nazisti, e alle ultimi devastanti guerre degli anni novanta, sono qualcosa di più volte inglobato, in parte metabolizzato, ma poi trasformato in carcinoma.
È la logica stessa della globalizzazione che ci spinge ad inglobare e a tentare di as-similare tutto, fatte salve le conseguenze disastrose per l'organismo (o almeno per una par-te di esso, che, spesso, finora siamo riusciti ad asportare chirurgicamente o ad isolare in qualche modo).
La differenza di grado è che le possibilità di intervenire chirurgicamente o di isolare con lacci emostatici, in questo caso, sono ben poche. Ma credo che per cercare di capire ci si debba chiedere prima di tutto in che misura Ben Laden è uno di noi. Il fatto è che noi stessi per primi subiamo gli shok della modernizzazione accelerata (e della mobili-tà che l'accompagna). Sarà importantissimo naturalmente capire le differenze, ma dob-biamo evitare il rischio di vedere solo differenze, che sono per natura più difficili da afferrare.
La restaurazione della comunità mussulmana è veramente solo un progetto di ri-torno indietro, di islamismo puro? O forse è un peccato di titanismo modernista contro il Corano? Questo naturalmente dobbiamo chiederlo agli studiosi del Corano, ma, a quanto pare, diverse analisi del fondamentalismo ne fanno un fenomeno nuovo, che non ha pre-cedenti stretti nella storia mussulmana. Certo, esso fa uso di concetti tradizionali e non si presenta come una secolarizzazione del fanatismo religioso, ed è agli antipodi, per esempio, dello stalinismo modernista. Tuttavia il caso dei "cristiani tedeschi" di inizio secolo, i padri della chiesa tedesca ariana del nazismo, dovrebbe insegnarci qualcosa. Forse nel mondo mussulmano la necessità di secolarizzare il millennarismo religioso è meno sentita per l'assenza di un ceto ecclesiastico simile a quello cristiano. Ci potremmo trovare forse di fronte ad una specie di integralismo modernista, che potrebbe avere molte analogie con le religioni secolari dello stalinismo e del nazismo, e non poi così tante con la tradizione islamica.
Detto questo sull'integralismo dentro la globalizzazione, voglio fare ancora qualche osservazioni, da profano, sulle radici del fanatismo nella nostra cultura, cioè nella tradizione ebraico - cristiana - islamica. Non intendo con questo dire che essa sia più o meno violenta e fanatica di altre (per caso, ho visto un mese fa una mostra su Shih Huan Ti, il fondatore dell'Impero cinese, che mi ha richiamato alla memoria le poche nozioni che ho sulla civiltà cinese e sul suo gigantesco apparato burocratico, militare e poliziesco). Senza pregiudizi autodistruttivi, proviamo a riportare alla memoria alcuni passi biblici che sono patrimonio comune delle nostre "religioni del libro".
Chi è nato nella religione cattolica controriformata, e poi riveduta e corretta dal cat-tolicesimo romantico e umanitario di Don Bosco e della associazione San Vincenzo, diffi-cilmente ha letto i libri di Giosuè e di Samuele, che invece erano probabilmente ben noti ai crociati, ai cavalieri teutonici, ai protestanti del Far West e del Sud Africa, ai "cristiani te-deschi" e, molto prima, agli ebrei stessi (va da sé) e ai primi mussulmani.
Nel libro di Giosuè però sono raccontati fatti che, per altri versi, ci devono suonare tristemente familiari. Cito qualche passo sulla presa di possesso della terra promessa (dal-la Sacra Bibbia, traduzione di Fulvio Nardoni, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1960:
Giosuè, 6,21:"Impadronitisi della città [di Gerico] distrussero tutto ciò che vi era: uomini e donne, fanciulli e vecchi, perfino i bovi, le pecore gli asini: tutto passarono a fil di spada."
Giosuè, 8,2: "Quand'ebbero terminato di uccidere gli abitanti di Ai, passandoli a fil di spada nella campagna e nel deserto, dove li avevano assaliti, tutti gli israeliti si rivolsero alla città ed essa pure fu passata a fil di spada. La somma delle vittime di Ai, fra uomini e donne, fu quel giorno, di dodicimila persone."
In Giosuè, 9, viene raccontato che gli abitanti di Gabaon, sapendo che gli ebrei ave-vano appena ucciso gli abitanti di Gerico e di Ai, lasciano la loro città e si fingono stranieri migranti come gli ebrei e si offrono loro come alleati subordinati ("noi siamo vostri servi, fate alleanza con noi" - 9,11). Giosuè li accetta, ma va su tutte le furie quando scopre che non venivano da lontano, bensì proprio dalla terra promessa. I poveretti si difendono di-cendo: "A noi, tuoi servi, è stato annunziato ciò che il signore ha detto a Mosè, suo servo: che vi si desse tutta questa regione e che innanzi a voi fossero sterminati tutti gli abitanti. Perciò di fronte a voi abbiamo avuto gran timore…" Giosuè, bontà sua, li salvò dalle mani degli israeliti, che volevano ucciderli, e "li destinò a spaccar legna e ad attingere acqua per l'assemblea e per l'altare del signore.".
In Giosuè 10, sono sterminati gli abitanti dei cinque regni amorrei (nel caso di E-bron, gli uomini ed "ogni essere vivente", 10,37, altrove, vengono tagliati i garetti dei caval-li, 11.9).
Giosuè, 11,20: : "Fu volere di Dio che esse [le città] si ostinassero a combattere Israe-le, affinché questi potesse condannarle all'interdetto e sterminarle senza usar pietà, come aveva comandato il Signore a Mosè".
Dopo lo sterminio, il Signore comanda al suo popolo di non mescolarsi in matrimo-nio con i pochi superstiti:
"Perciò vi stia a cuore di amare il Signore, Dio vostro. Ma se voi vi volgerete indie-tro da Lui per aderire alle poche genti che ancora restano attorno a voi e contrarre matri-moni, frammischiarvi con loro, sappiate, fin d'ora, che il signore, vostro Dio, non continue-rà più a scacciare quelle genti davanti a voi: esse diventeranno per voi un laccio, un in-ciampo, un pungolo ai vostri fianchi e spine ai vostri occhi, fino a che voi non sarete tutti sterminati da questa ottima terra che il signore, vostro Dio, vi ha dato" (Giosuè, 23, 12-13).
Più noto forse è l'episodio di Samuele e di Agag, il re degli Amaleciti, perché forse è noto il caso di Simone Weil, che aveva abbandonato l'ebraismo e voleva convertirsi al cat-tolicesimo, e che si rifiutò di farlo a meno che non le fosse fornita una qualunque giustifi-cazione del passo biblico in questione.
Antefatto: il sacerdote Samuele riferisce al re Saul che il Signore degli eserciti gli ha detto: "Va e percuoti Amalec e metti all'interdetto tutto ciò che è suo, senza remissione, uc-cidendo uomini e donne, fanciulli e bambini, bovi e pecore, cammelli ed asini" (Samuele, 15,3). Saul esegue tutto alla lettera, ma non uccide Agag, il re degli Amaleciti. Dio allora si rivolge a Samuele dicendogli: "Mi pento di aver costituito re Saul, perché egli si è allonta-nato da me e non ha eseguito i miei ordini." Samuele riferisce ciò a Saul, che sarà perdona-to solo quando, fatto prigioniero Agag, lo ha "fatto a pezzi davanti al signore, in Galgal".
Simone Weil non trovò nessun prete che le desse una spiegazione convincente e non si convertì.
settembre 2001
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