In mezzo al degrado e alla miseria del campo di rifugiati di Otash, dove 45mila persone abbandonate a loro stesse - è davvero il caso di dire i più disgraziati sulla faccia della terra - vivono sotto il sole torrido dell’Africa, quello che più colpisce è la silenziosa crudeltà dell’indifferenza internazionale nei confronti della crisi del Darfur.
Nonostante i dettagliati rapporti sulle uccisioni, le mutilazioni e le violazioni, nonostante le storie di famiglie incatenate e bruciate vive, gli aiuti per le vittime di questa crisi continuano ad arrivare a intermittenza e senza alcun tipo di coordinamento.
Le statistiche lasciano senza fiato - un milione e mezzo di profughi, 2,2 milioni di persone che hanno disperato bisogno di cibo e medicine, la paura che più di 350mila persone possano morire prima della fine di quest’anno - ma la cosa sorprendente è l’assenza di aiuti internazionali su larga scala.
Abbandonati a loro stessi, vittime della disperazione e della fame, i rifugiati aspettano inermi l’arrivo - praticamente certo - del colera, del tifo e della malaria, che spesso visitano le terre colpite dalla guerra. In alcuni dei campi - in particolare a Kalma Kass e a Mershing - nonostante la disperazione e la miseria si sta facendo qualcosa per migliorare la situazione. Ma gli aiuti non hanno toccato i 45mila rifugiati di Otash.
Non si può nemmeno definire Otash una tendopoli, perché non ci sono tende, così come non c’è distribuzione di cibo, bagni, fognature o assistenza sanitaria. Per dormire e ripararsi ci sono strutture, alte poco più di un metro e mezzo, fatte di rami intrecciati, foglie, stracci e cartone, con pavimenti di fango rossastro, completamente in balia degli elementi. La parete di una di queste “case” è un cartone di un pacco di aiuti americani, colorato di rosso, bianco e blu: «contenitore di acqua da venti litri», c’è scritto sopra. Ma l’unica acqua che è arrivata qui risale a otto giorni fa, quando l’organizzazione umanitaria «Care» ha installato una cisterna. Fino a quel momento l’unica fonte di acqua era un rubinetto a quasi un chilometro di distanza.
Senza assistenza sanitaria, le malattie sono già più diffuse a Otash rispetto agli altri campi. Tra una capanna e l’altra vengono messe a seccare delle bacche: un rimedio usato contro la malaria, un sostituto delle pillole moderne che non sono ancora state distribuite tra la gente. Ci sono stati circa settanta morti negli ultimi due mesi, la maggior parte bambini, deceduti a causa di forti attacchi di diarrea e della malnutrizione.
L’acqua arriverà con le piogge, attese ormai da un mese, che dovrebbero cominciare a breve. Ma invece della salvezza, le piogge non faranno che accelerare la corsa verso altri disastri già profetizzati. Il campo, che si trova in un bacino naturale, diventerà un pantano di escrementi umani e animali in una zona in cui ci si aspettano epidemie di colera, tifo, malaria ed epatite.
È facile abituarsi a essere sconvolti dalla miseria umana. Ma è più difficile accettare questa situazione se si pensa che tutto questo avviene anche per colpa dell’indifferenza internazionale proprio alla periferia di Nyala, la capitale del Darfur meridionale, piena di stranieri che lavorano per le organizzazioni umanitarie e di funzionari del governo. Nyala è una città funzionante, dove c’è cibo nei mercati e nei bar.
«Sono cieco e ho fame», sussurra il settantenne Hamid Mohammed Baharuddin, la pelle avvizzita e il corpo esile che trema appoggiandosi a un bastone. «In questi due giorni ho mangiato solo due pezzi di pane. Mi sento molto debole. Mi sta diventando difficile anche stare in piedi. E ho sempre più problemi a ricordare le cose». Sua moglie, Faria Hamid, 59 anni, lo prende per il braccio per portarlo via, e nel farlo si scusa se il marito ci ha disturbato. Satima Gadir ha perso il suo bambino di sei anni cinque settimane fa. La sua voce è calma e pacata: «Abbiamo viaggiato per giorni da Yasin per arrivare fin qui. Mio figlio aveva già la febbre quando siamo arrivati. Ma qui l’acqua è cattiva, e si è ammalato. Lo abbiamo portato a Nyala, c’è voluta un’intera giornata per arrivarci. Ci hanno dato delle pastiglie. Non abbiamo mangiato niente, gli abbiamo dato tutto il cibo che avevamo. Ma non ce l’ha fatta».
Le urla e i pianti dei bambini affamati sono un suono costante a Otash. Amira Suleiman tiene in braccio Amina, la figlia di due anni, una bella bambina che all’improvviso smette di piangere e sorride. «Guardatela: guardate com’è magra, com’è malata. Che cos’ha fatto di male? Perché nessuno ci aiuta?».
Otash non è stata ignorata dagli aiuti umanitari che arrivano nel Darfur per una svista burocratica, ma a causa della politica del governo sudanese. Il Sudan vuole che i campi di rifugiati nati nella regione vengano smantellati, e vuole che tutti i profughi facciano ritorno a casa. Il governo sottolinea - e non ha tutti i torti - che i campi sono delle bombe a orologeria per le epidemie.
Ma i ministri continuano anche a ripetere che la violenza e la pulizia etnica che ha obbligato un milione di persone a fuggire in preda al terrore sono sotto controllo, e che chi torna riceverà una protezione adeguata. Eppure i rifugiati che tornano alle loro case, spesso per ordine dei capi villaggio che sono stati corrotti o minacciati dal governo per questo, raccontano tutti la stessa storia. Sono dovuti tornare a impugnare i Kalashnikov e i machete dei Janjaweed, la milizia araba responsabile della loro fuga, che secondo alcuni è appoggiata dall’esercito sudanese per la sua lotta contro l’esercito di liberazione del Sudan, in una campagna di pulizia etnica contro i civili africani.
La “polizia” che dovrebbe proteggere i rifugiati a sentir loro spesso è composta da membri del Janjaweed in uniforme blu. I soldati del governo li aiutano durante gli attacchi. Ma la posizione del governo sudanese rimane contraria a nuovi campi come quello di Otash. E, eccezion fatta per il progetto di rifornimento idrico, ha negato alle organizzazioni internazionali il permesso di lavorare nel campo, sostenendo che si tratta di un insediamento illegale, e che gli abusivi devono tornare da dove sono venuti.
Aziza Mahmood, trent’anni e di Tabaldial, porta i segni del suo incontro con la milizia: un uomo che aveva già ucciso suo marito Ibrahim Haq le ha sparato a un piede. «Mia sorella aveva portato via i bambini, ma io non riuscivo a muovermi. Stavo lì e piangevo, quando l’uomo si è girato e mi ha sparato. Non ha detto niente, ha sparato e basta. Mi sono trascinata dietro la mia casa, e sono rimasta lì. I miei vicini mi hanno trovato due ore dopo. Mi hanno portata via, insieme al corpo di mio marito». Si asciuga gli occhi con un foulard giallo. «Ho cinque bambini che adesso non hanno più un padre. Non posso lavorare, perché appena cammino mi fa male il piede. Non riesco neanche a stare sul ciglio della strada per chiedere l’elemosina, perché sento comunque dolore. Non so cosa fare. L’unica cosa in cui speriamo è che le organizzazioni che offrono aiuto in altri campi abbiano pietà di noi».
C’è un gran parlare nel campo della presenza dei Janjaweed nella zona. Ma non è chiaro se si tratti davvero della milizia araba, o se siano solo gruppi di uomini armati in un paese pieno di armi. Domenica quattro agricoltori sono stati uccisi a pochi chilometri da Nyala da alcuni “arabi” che avevano intimato agli Zurgha (un termine dispregiativo per indicare gli africani) di abbandonare le loro terre. Sono pochi i segni del disarmo da parte del governo della milizia o di trattative in corso (parte dell’accordo fatto dalle Nazioni Unite». Nelle ultime ventiquattr’ore diversi carri pieni di soldati si stanno dirigendo a sud verso Ad-Daien dove si dice che il governo starebbe aiutando i Janjaweed a reclutare soldati contro un’altra tribù araba. Anche l’esercito di liberazione del Sudan è coinvolto. Sembra che ci siano 35mila nuovi profughi in arrivo.
Nel lasciare il campo, vediamo il settantenne Hamid Mohammed sedersi vicino alla moglie nella piccola capanna. Tiene tra le mani una foto incorniciata della sua famiglia. «Non li posso vedere, ma posso sentire i loro volti. Sono contento che non siano qui, questo è un posto maledetto».
*copyright The Independent
(traduzione di Sara Bani)
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