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Riletture.
Dell’essere, ovvero del ben-essere (titolo del redattore)
Aldo Ettore Quagliozzi
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“( … ) Preferisco, ( … ), valutare l’esistenza umana stessa con parametri teatrali: entriamo sulla scena assordante, dove è già iniziato un dramma il cui vero significato ci sfugge, fra malintesi e impedimenti proviamo a capire qual è la parte che dovremmo recitare, poi interveniamo a sproposito in una serie di dialoghi o recitiamo qualche monologo, finché spinti dietro le quinte scompariamo prima della fine del dramma. Questo è tutto, ma forse è quanto basta o almeno così lo dobbiamo accettare.“
E’ quanto scrive Fernando Savater nel suo ultimo lavoro “Contrattempi“. Con la solita sua arguzia, in un passaggio importante del suo lavoro, drammaticamente ci pone dinnanzi alla indecifrabilità stessa della vita, al suo divenire oscuro che rende ciascuno dei viventi dotati di pensiero compiuto marionette su di un palcoscenico che il caso, e solo il caso, ha portato a calpestare maldestramente, o furbescamente, o ingenuamente, ma sempre ed in ogni caso melodrammaticamente.
Di grande spessore sono le domande che si pone nella sua riflessione “A chi appartiene la tua vita?“ Paolo Flores D'Arcais, nell’ultimo numero di “MicroMega“, riflessione al centro della rilettura proposta.
Sono le domande che da sempre fanno tremare i cosiddetti “polsi“; conviene allora non porsele? Meglio non disturbare più di tanto i “pensatori da salotto“ del pensiero, ora divenuto pensiero teocon?
Meglio evitare per non scatenare la solita canea degli “atei-bigotti“ che pullulano ovunque come il virus aviario ed affollano ringhiando l’agorà mediatica soprattutto del bel paese?
Meglio evitare pur di non fare imbastire la solita pretestuosa comparsata dei sodali dell’egoarca di Arcore, che nell’imminenza della campagna elettorale dell’anno 2006 non troveranno di meglio che ringhiare a tutto denti contro i miscredenti di turno, gli affossatori della vita o meglio della non-vita, così come argomenta dottamente il nostro autore?
Pensieri invero difficili, non impossibili, se solo si vuole tentare di dare risposte, seppur parziali e temporanee, all’uomo del terzo millennio, che come gli uomini che lo hanno preceduto prosegue nella ricerca faticosa ed affannosa del senso compiuto dell’esistenza, affinché la stessa non abbia a ridursi alla solita scenica rappresentazione!
“A chi appartiene la tua vita? La stessa formulazione grammaticale e sintattica tradisce l'assurdità della domanda. Per essere tua, la tua vita non può appartenere che a te. Se appartiene ad altri non è più tua, e tu sei semplicemente lo schiavo di colui, o coloro, cui la 'tua' vita appartiene.
La risposta alla domanda 'a chi appartiene la tua vita?' non può essere, dunque, che ovvia e scontata. Nella lingua italiana, una domanda la cui risposta è scontata si definisce domanda retorica.
Eppure, dare nei fatti la risposta ovvia e scontata a questa domanda retorica può costare, in Italia, fino a quindici anni di carcere. Tale è la pena massima prevista per il reato di assistenza al suicidio. Se io, tu, lui, lei, vogliono decidere sulla propria vita, e considerandola ormai non più esistenza ma tortura, mero bios di sofferenza inenarrabile, decidono di porvi fine, e in questa decisione chiedono l'aiuto della persona più cara (solo un amore davvero grande sa dare un tale tragico aiuto, sa rispettare fino all'estremo l'autonomia della persona amata, sa sacrificare il proprio egoismo, che spinge a tenere la persona amata comunque in 'vita', anche contro la sua volontà), questa persona dovrà scegliere: o condannare la persona amata al prolungamento della tortura cui la sua 'vita' è ridotta (e se sia insopportabile tortura o meno, solo chi vive la propria sofferenza ha titolo per pronunciarsi) o spingere il proprio amore fino a fornire l'aiuto richiesto. E -in aggiunta al dolore della perdita più cara- rischiare quindici anni di carcere.
Il nostro civilissimo mondo, insomma, non prende affatto sul serio (a parte la veramente civile Olanda) che la tua vita appartiene a te (appartiene: non uso il congiuntivo pour cause), presupposto di ogni tua altra libertà. Nel nostro civilissimo mondo la tua vita appartiene allo Stato e alla Chiesa. Cioè ad altri uomini come te, mortali e fallibili come te, e che mai accetterebbero che sulla loro vita decidessi tu, ma che sulla tua vita si arrogano la sovranità ultima e suprema. Per il 'tuo' bene, ça va sans dire, cioè per il loro bisogno (il loro 'bene'!) di imporre la loro ideologia anche a te che la rifiuti, e riguardo a ciò che ti è esistenzialmente (cioè essenzialmente) più proprio.
Questa pretesa, un tempo, si chiamava totalitarismo. Non ha nessun senso, infatti, replicare che la vita non appartiene a chi la vive ma è un dono di Dio. A parte la circostanza che un dono che non si può rifiutare non è più un dono ma una condanna (una 'condanna a vita' è non a caso l'espressione che si usa per l'ergastolo, non per la democratica 'ricerca della felicità' che la Costituzione americana mette tra i diritti umani imprescrittibili). Se la tua vita non appartiene a te, infatti, appartiene inevitabilmente a qualcun altro, in carne e ossa come te, mortale e fallibile come te. E prepotente su di te.
Cosa significa, infatti, che la vita non appartiene a chi la vive ma appartiene a Dio? A quale Dio? Al Dio di chi lo invoca per decidere sulla tua vita, evidentemente. Ma il suo Dio può non essere il tuo Dio. E il tuo e il suo possano essere lo stesso Dio, ma l'interpretazione della sua parola può essere agli antipodi tra voi che pure lo invocate entrambi (a proposito di suicidio assistito è quanto accade tra cristiani valdesi e cristiani della gerarchia cattolica). Oppure il suo Dio è per te solo flatus vocis, creazione cangiante delle culture umane, poiché il tuo umanesimo radicale non contempla Dio come creatore e la sua parola (sempre pronunciata da un uomo, mortale e fallibile come te, sia esso Profeta o Pontefice) come legge. E in una democrazia il credente e il non credente e il diversamente credente hanno gli stessi diritti.
Ma il primo dei diritti, anzi il meta-diritto che rende possibile qualsiasi altro diritto, è il diritto alla vita, alla propria vita, non alla 'ideologia della vita' di qualcuno. Se in nome di una ideologia 'altruistica' qualcuno volesse porre fine alle tue sofferenze, grideresti giustamente all'orrore: la tua vita appartiene a te (o al Dio che tu hai scelto, il che è equivalente). Eppure, in nome della tua ideologia, vuoi imporre la tortura a chi invece non vuole subirla perché non la considera più 'vita'. Vuoi dunque espropriarlo della sua vita, e della decisione ultima e più propria.
Eppure a scuola leggiamo classici dove farsi uccidere (da uno schiavo, o da un amico) è sublime eroismo, eppure al cinema impariamo che lasciare il commilitone atrocemente ferito e impossibilitato alla fuga, anziché esaudire la sua invocazione al colpo di grazia, sarebbe atroce sadismo, e sadismo sarebbe non equipaggiare di pasticca al cianuro l'agente paracadutato oltre le linee, che rischia, con la cattura, la tortura. Eppure, nessuno ha voluto condannare la decisione dei medici di un ospedale di New Orleans di sopprimere con la morfina malati terminali che sarebbero stati abbandonati (e anzi nessuno ha voluto più parlare dell'episodio, e meno che mai perseguire i medici).
Perché in realtà siamo tutti perfettamente consapevoli che se non si può invocare la sovrana volontà di Dio (e non si può, se non in una teocrazia totalitaria) non resta più un solo argomento per sanzionare penalmente il suicidio assistito, cioè la decisione di chi non vuole più scegliere la tortura anziché la morte. ( … )“
dicembre 2005
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