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Riletture. Del fischio (titolo del redattore)
Aldo Ettore Quagliozzi
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“Un fischio vale più di mille parole. Lo dicono concordemente tutti gli studi sul comportamento umano e su quello animale. Si può dire che gli uomini fischiano da che mondo è mondo.
( … ) Il fischio è infatti imitazione del suono degli uccelli o di altri animali sibilanti, una forma di comunicazione radicalmente diversa dal linguaggio umano e in quanto tale barbarica, nel senso che al termine davano i Greci.
Questi infatti chiamavano barbari tutti gli stranieri perché non ne comprendevano la lingua e la paragonavano al verso degli uccelli.
Il più antico significato del fischio è quello di contestazione. Al punto che nella Bibbia è già codificato come punizione mandata da Dio. Secondo il libro dei Re il Signore minaccia di afre di Israele lo zimbello di tutte le genti e di far piovere fischi sul popolo eletto se si fosse messo ad adorare altro Dio all’infuori di lui.
Fischiare, dunque, equivale a parlare in un modo diverso dall’ordinario, un modo più sintetico di qualsiasi parola. Ma non per questo meno complesso e meno ricco di forza comunicativa.
Anche perché nessuno come il ricevente riconosce il motivo per cui viene fischiato e quindi è lui per primo a dare senso al messaggio.
Fischiare e parlare sono insomma due modi diversi per dire la stessa cosa. Un gruppo di scienziati dell’Università di Washington ha pubblicato recentemente sulla prestigiosa rivista “ Nature “ i risultati di una ricerca su una lingua in codice in uso tra i pastori di Tenerife, nelle Canarie. Una lingua che usa fischi al posto delle parole e che tuttavia attiva i medesimi centri del linguaggio.
Fischiare e parlare per il cervello sono dunque la stessa cosa. E’ questa la conclusione dei neuroscienziati. Il fischio, come del resto l’applauso, sono forme antichissime di “ rituali comunicativi “, così li chiamano gli etologi e gli antropologi, comportamenti la cui esagerazione mimica li rende particolarmente teatrali, li sovraespone facendone dei simboli di qualcosa che non si può dire a parole.
Sono segnali al tempo stesso semplici e immediatamente riconoscibili. E’ anche questo che spiega la loro diffusione pressoché universale. Anche se spesso il loro senso può cambiare con la cultura e con il contesto.
I fischi in certi casi possono significare anche approvazione mentre, per esempio, battere i pugni sul tavolo, che è di solito un gesto aggressivo, nella comunità scientifica anglosassone equivale ad un’ovazione.
Così come le parole, anche gesti e suoni cambiano significato. Si tratta in ogni caso di segnali che disegnano una cornice, stabiliscono un confine, avvertono insomma che in quel momento la comunicazione ordinaria è impossibile o interrotta.
E’ questo il motivo per cui a teatro, allo stadio, al cinema e qualche volta davanti a un’opera d’arte non si parla con il destinatario del messaggio ma lo si fischia o lo si applaude.
In altre parole non si parla “con“ lui ma ci si rivolge “a“ lui attraverso gesti e suoni. ( … ) … il fischio è un vero e proprio picco comunicativo, come un urlo che serve spesso a riportare l’attenzione su un dialogo interrotto. Mille ragioni in meno di una sillaba. L’importante è andare oltre la sillaba e trovare le parole per far parlare quelle ragioni.“
Il brano trascritto quasi nella sua interezza ha come titolo “Fischiare è dialogare“. L’autore, Marino Niola, è antropologo e professore ordinario di Antropologia Culturale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa di Napoli, è direttore del Laboratorio Etnologico dell'Irpinia del Centro di Ricerca Guido Dorso di Avellino, è membro del Comitato Direttivo dell'AISEA, Associazione Italiana per le Scienze Etnoantropologiche, è opinionista dei seguenti quotidiani e settimanali "Il Mattino", "L'Unità", "Il Mattino di Padova", "La Tribuna di Treviso", "La Nuova Venezia", "Grazia".
Buon per il Cardinale Camillo Ruini che in quel di Siena ha recuperato alla memoria sua la ragione e l’origine biblica del fischio, per la qualcosa ha saputo egregiamente fronteggiare la situazione senza tutti gli starnazzamenti dei genuflessi politici di ambedue le sponde costituzionali e di tutti i pennivendoli della omologata stampa italiana.
Ma il problema di fondo permane ed anzi non accenna a rientrare nei limiti giusti di una dialettica democratica e di tolleranza ed accettazione reciproca; e ciò avviene quando non la ragione e la serenità degli spiriti prendono il sopravvento nelle vicende umane, ma l’intransigenza e l’integralismo più spietato, triste retaggio delle epoche storiche più buie della storia dell’uomo. Scrive per l’appunto Fernando Savater nel suo ultimo lavoro “Contrattempi“:
“( … ) Come gli ubriachi cerchiamo a volte, troppo spesso forse, le chiavi smarrite che aprono tutte le porte solo nel punto illuminato dal nostro lampione ( socio-economico, psicoanalitico, genetico eccetera ) , non perché le abbiamo perse lì, ma perché in quella minima zona di luce crediamo di vedere meglio.
E i peggiori ubriachi sono quelli che non si avvicinano neanche al lampione, ma fanno balzi spropositati nell’oscurità, affermando di vedere quello che non sanno o di sapere perché non vedono: come certi filosofi e i preti di qualsiasi grado e condizione. ( … )“
Ecco, siamo nel bel mezzo di una generale ubriacatura e si cercano affannosamente quelle chiavi utili un tempo ma inservibili al giorno d’oggi, e con quelle chiavi ostinatamente si vuole entrare nella mente della gente e nelle coscienze degli uomini del secolo ventunesimo e con le stesse chiavi si vuole rinserrare ed a volte castigare il mutamento profondo intervenuto anche nella realtà sociale del bel paese.
settembre 2005
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