Lavoro interculturale e narrazione a cura di Duccio Demetrio
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Lavoro interculturale e narrazione

a cura di
Duccio Demetrio
Professore di Educazione degli adulti, Facoltà di scienze della formazione,
Il Università degli Studi di Milano-Bicocca. Laboratorio di Etnopedagogia



SOMMARIO

Premessa

1. Tre vie:il rigetto, l’aiuto, l’educazione

2. Guardare agli altri per tornare a se stessi

3. Non siamo agli inizi

4. I paradigmi pedagogici della narrazione

4.1 Lo spazio del racconto
4.2 Spazi autobiografici e triangolarità narrativa
4.3 Lo sguardo dell’altro su di noi
4.4 Far parlare i silenzi
 
Premessa

Fra i tanti meriti che dobbiamo riconoscere all’immigrazione, ce n’è uno, in particolare, da sottolineare. L’incontro con storie e narrazioni che vanno arricchendo le nostre. Molti non vorrebbero ascoltarle. Preferendo - non potendone più fare a meno - almeno una migrazione muta e silenziosa. Costoro sono persino disponibili a capire le voci di protesta e le parole del disagio, ma ciò che proprio non tollerano è che tali moltitudini vogliano farci sapere chi sono, che cosa sentono o hanno lasciato. Tale ripulsa è più grave ancora di quella del rifiuto conclamato, poiché rende chiaro che il razzismo, esplicito e latente, è negazione di ogni interesse per le parole degli altri. Per i suoni di una lingua sconosciuta e, più ancora, per quei racconti, nella nostra lingua imparata in qualche modo, che pone gli stranieri nella condizione di farci comprendere quel che hanno il diritto di farci sapere. E che non può, sempre, corrispondere (come nei dibattiti televisivi) alle storie, drammatiche, delle vessazioni subite, delle difficoltà di integrazione nelle nostre culture. In tal modo, con il nostro modo di interrogare queste vicende, non facciamo altro che depauperare le donne, gli uomini, i ragazzi di ben altro che, invece, con differenti forme di ascolto e di incoraggiamento a raccontarsi potrebbero dirci. li merito cui accennavamo è quindi questo: i nuovi cittadini arricchiscono, purtroppo ancora potenzialmente, le nostre visioni della vita, del comunicare, del credere in qualche cosa, del senso stesso dell’essere al mondo. Noi facciamo di tutto per omologare, assimilare, costringere alla dispersione una immensa varietà di altri valori e credenze. I nostri territori urbani, contesti in cui più atta è la concentrazione immigratoria, che stanno facendo per creare “case delle storie”, spazi di aggregazione interculturale, occasioni permanenti (e non soltanto spettacolari ed episodiche) dove la reciproca narrazione delle diversità non sia conservata come in un museo etnografico, bensì, continuamente rinnovata? Dove agh stranieri sia dato di raccontare con voci nuove e antiche. Finché questi luoghi di Iegittimazione e di riconoscibilità, visibilità sociale, non ci saranno, possiamo comunque tentare di impegnarci, noi con loro, in una paziente opera di carattere autobiografico affinché racconti e storie di vita (immagini dell’infanzia, degli spazi dell’origine, dei riti o ricordi di climi e affetti) non si disperdano in quanto patrimonio di tutta l’umanità. Per fare questo occorre andare avanti nel lavoro di molti che nelle scuote, nelle esperienze di incontro, nel corso di colloqui d’aiuto già hanno compreso che queste narrazioni hanno bisogno di una più solerte attenzione. E cioè di qualcuno che se ne prenda cura, non per catalogarle, classificarle, custodirle in teche, ma per riproporle ai narratori affinché diventino libri, poesie, teatro. Anche questa è accoglienza. Forse potrà apparire superflua rispetto alle urgenze e alle esigenze vitali, però, ogni strategia civile e ogni lungimiranza creativa (e non solo preventiva) ci chiede di mettere al centro quelle risorse umane, fatte di pensiero e vissuti, che hanno bisogno di riconoscersi (anche) con il nostro aiuto.

1. Tre vie: il rigetto l’aiuto l’educazione

Lo sappiamo. Ogni riflessione sul presente e sul futuro multietnico che già ci coinvolge, e attende, può imboccare almeno tre vie: il rigetto, l’aiuto, l’educazione. Ognuna delle quali è provvista di una sua
indubbia legittimità e giustificazione narrativa (il “Noi”, ‘Ti accetto”, “Parliamo”); ma soltanto una (l’ultima) ci appare fertile, perché crocevia di altre, ulteriori, originali strade percorribili.
Per le filosofie e le scienze contemporanee soltanto ciò che si rivela generatore di altri sentieri, di altre ramificazioni interroganti, di paradigmi sempre aperti appartiene alla cultura che ci prepara al nuovo
millennio (F. REMOTTI, Contro l’identità, Roma-Bari, Laterza, 1996.). Si tratta della via di ricerca che non si ferma dinanzi alle proteste di chi reputa le migrazioni una iattura (è la via ipocrita del rigetto, pur nella consapevolezza che la nuova forza lavoro è una necessità cruciale) e che nemmeno si limita a
condividere la pur importante visione caritativa, assistenzialistica, umanitaria ditali fenomeni.
E', questa, la via dell’aiuto, agita e sostenuta da tutti coloro che si attendono l’espressione, a breve o a lungo termine, di una riconoscenza per quanto sì va facendo per alleviare le difficoltà di chi lascia un mondo per entrare in un altro, preceduto dai suoi sogni di sopravvivenza e di libertà.
La via dell’educazione interculturale (la terza) è ben altra. Meno facile ai più, incomprensibile e
superflua per molti altri. Chi legge te pagine più interessanti che ne hanno parlato si avvede subito
che, quel che propongono, non si limita nè a tracciare scenari più o meno apocalittici o rasserenanti, nè a considerare l’immigrazione un problema sociale.
Nel primo caso ci troveremmo, ancora una volta, dinanzi a versioni “materialistiche” degli eventi cui tutti stiamo partecipando, dal momento che ormai, tutti, siamo contaminati da questi discorsi. La nostra quotidianità è abitata dagli “altri” anche quando non desidereremmo parlarne; ci serviamo di loro per organizzare la giornata, li troviamo sui nostri cammini domestici, siamo costretti a guardarli ma non ad ascoltarli, quando invece è soltanto l’incontro delle parole che può mettersi nella condizione di superare il lato più oscuro della questione. Quello appunto che riduce ad un fatto demografico, economico, di ordine pubblico chi sta cercando altre forme per segnalarci la sua presenza e, che pur debitore, ammesso ma non concesso che così debba viversi, non si accontenta di essere considerato un utente attuale, o potenziale, di questo o di quel servizio sociale o caritativo.
L’educazione interculturale ci fornisce, invece, l’unica via -preferiamo chiamarla strategica - che possiamo percorrere nella educazione alla consapevolezza di quanto sia vieppiù indispensabile assumere una coscienza antropologica di quel che sta avvenendo.
Come altre proposte, oggi anche nel nostro Paese reperibili, e rivolte alle scuole, a chiunque si ponga domande più complesse, a chi non si accontenti di immagini televisive rubate alle tragedie, essa ci
invita ad esplorare storie, dimensioni “dell’essere”, sensazioni diffuse ormai così presenti nelle nostre autobiografie.

2. Guardare gli altri per tornare a se stessi

L’educazione ìnterculturale, fattasi attenzione per le risorse umane, non solo ci guida attraverso la rilettura di tradizioni, di voci e intrecci di voci, di felicità e tragedie, di leggende e avventure presidiate da divinità scomparse o da ancestrali, le paure riemergenti (invasioni, epidemie, sbarchi, ecc.), essa ci introduce ad una comprensione più profonda di quelle che sono le nostre origini. Ci stimola a rintracciare nelle psicologie di ciascuno di noi, così profondamente mediterranee, anche laddove alcune nostre regioni non ne lambiscano le sponde, la parte migliore di una tradizione di pensiero costruitasi nel corso del tempo. Nata all’insegna di quella dialettica tra essere e divenire, tra perpetuare e cambiare, tra apollineo e dionisiaco (luce ed oscurità) che soltanto nei momenti più bui hanno tentato di fermare gli assolutismi del sud come del nord. È la tradizione che ci ha educati a coltivare, e a difendere, la nostra natura ibrida e vocazionalmente meticcia, aperta al molteplice ed alIa curiosità per il nuovo e il diverso.
L’educazione interculturale è un pensiero antico e profondo; è una modalità narrativa; è il segno di una mente abituatasi ad ascoltare i racconti stranieri, a meravigliarsi, a curiosare nelle mitologie altrui.
La nostra coscienza mediterranea (la nostra latina medietas la sensibilità e capacità di risoluzione de conflitti, la consapevolezza che un conflitto risolto non catastroficamente genera sempre novità) è giustamente chiamata a confrontarsi con le sue radici (linguistiche, estetiche, filosofico-letterarie’ giocoforza commiste. E, questo rapporto con i nostri sé personali o rnicrosociali, individuali o collettivi costitutivamente plurimi, va dunque riattualizzato e riscoperto dinanzi non solo a chi dallo stesso bacino oggi proviene. A tutte le genti che, pur avendo gli oceani come dimensione del limite e del possibile, si chiedono di essere riconosciute non solo come manodopera, nè come obbedienti assistiti queste agorà vanno garantite per antiche consuetudini di ospitalità, di ascolto e confronto.

3. Non siamo agli inizi

L’educazione interculturale nella scuola italiana non è più agli inizi. Ormai, i bambini piccoli e i più grandi - stranieri e non - possono contare su non poche pubblicazioni (dai giochi, ai libri di fiabe; dalle raccolte multimedìali alla letteratura prodotta dai protagonisti delle migrazioni: storie di vita e autobiografie). Questo non accade per quei livelli di istruzione che fino ad oggi sono stati meno degli altri coinvolti dai problemi dell’accoglienza e dell’integrazione.
Sono fin troppo noti i disagi di adattamento che i figli della migrazione hanno vissuto e stanno ancora vivendo quando debbono il più rapidamente possibile mutare e, al contempo, conservare, per non perdere lingua e consuetudini che li legano alla famiglia. Per tale ragione è quasi superfluo ricordare che tali tracce, negli ancor pochi privilegiati che transitano alle superiori (optando le ragazze e i ragazzi nati qui o immigrati per l’inserimento lavorativo o, tutt’al più, per la formazione professionale), sono vistose e penalizzanti. Macroscopici deficit linguistici, comportamenti che evidenziano irrisolti questioni di carattere relazionale, disturbi dell’identità, sono alcuni dei tratti di cui questi adolescenti sono portatori nella secondaria. A questi vanno aggiunti i malesseri che accompagnano ogni vissuto adolescenziale e, per questo, è bene che quanto già si va facendo per venire incontro al disagio infantile e giovanile possa declinarsi rispetto a domande specifiche di aiuto e incoraggiamento. Il sapere ha una funzione facilitante e di cura, laddove si incontri con le esigenze di chi è alla ricerca di un’identità, delle sue radici, ma, nondimeno, di ancoraggi e sostegni nel presente. Un’attenzione per le “culture della memoria" è difatti cruciale (indipendentemente dagli studenti cui la proprietà educativa si rivolge)affinché, proprio attraverso un buon rapporto con il passato personale o con quello del proprio gruppo di appartenenza, si possano stabilire quelle integrazioni interiori per l’autorealizzazione e l’autostima.
Le conoscenze, quando suscitano interesse e motivazione, sono sempre state un fattore che ha consentito ai più svantaggiati di ritrovarsi e di far sentire la loro parola. Ciò che ha diviso le culture è il risultato di interessi materiali contrapposti, di conflitti per il predominio, per la spartizione di territori quando, invece, certo pur essendo le culture anche il risultato di tutto questo, sono tuttavia (in quanto umane) connotate da comuni esigenze e tensioni.
I ragazzi italiani e i loro coetanei, figli o protagonisti dell’immigrazione, provenienti o meno da paesi dell’area mediterranea vanno quindi stimolati a individuare distanze e affinità non solo servendosi dei libri.
Educazione interculturale, è guardarsi intorno; è alzare la testa dalle pagine, è cercare - al di fuori della scuola - con interviste e raccolta di storie altrui quanto le letture stimolano e generano agli effetti del piacere di scoprire ciò che non si può sapere se non entrando nella vita.
Occorre insomma che gli insegnanti facciano in modo che si costruiscano con gli studenti, storie di quotidiana interculturalità. Non è difficile, basta ritrovare il piacere di far scuola tra la gente o invitando la gente a scuola a raccontare quanto ancora non è stato stampato. Quest’oralità diffusa è tutta da fermare e proteggere dalla dispersione.
Andare oltre il visibile, questo è il primo compito di chi apprende.
L’essenza interculturale nella Grecia classica era tributata all’isola di Delo. L’isola di Apollo ed Artemide: l’isola “commista” di luce solare e di oscurità, il simbolo di una mente che lavora per rischiarare e, al contempo, accettare l’ombra, in una dinamica eterna dei fatti e della psiche.

4. I paradigmi pedagogici della narrazione

Ciò che più conta è l’identità personale di ciascuno, indipendentemente dalla provenienza, dalla lingua, dalle origini. Ma oggi e domani le nostre e le “loro” identità saranno plurali. Rapportarsi ai problemi dell’immigrazione con i paradigmi pedagogici della narrazione significa abbandonare per sempre un’idea univoca di identità. Chi viene da altri mondi è in tal modo, nella sua conclamata diversità, colei o colui che ci invita a far altrettanto con chi crediamo di conoscere da una vita. Lo straniero, ancora una volta, ci provoca interrogandoci sul nostro sapere o non sapere servirci del linguaggio, il più spontaneo e comune, nel momento in cui crediamo le condizioni migliori per consentire all’altro di dirci chi è, più che ciò che rappresenta. All’interno di un ciclo breve o lungo d conoscenza ed autoconoscenza. Infatti il racconto altrui, se ascoltato, se accettato senza condizioni non può mai non smuovere dalle sue certezze (identitarie) un ascoltatore attento: che si tende verso anche al rischio di udire ciò che non vorrebbe. In quell’attenzione pedagogica che ribalta la consuetudine; che non si dispone, dopo l’ascolto, all’insegnamento, poiché è mosso dalla incondizionata disponibilità ad apprendere soprattutto dall’altro, imparando a tacere e a rispondere in uno stato d’animo disposto alla complessità; disponibile a trasformare ogni dubbio e perplessità in curiosa aspettativa.

   4.1 Lo spazio del racconto

Lo spazio del racconto è l’unico, il più vero ed affettivo luogo pedagogico dell’apprendimento linguistico; in un’aula, su un treno, per via, dove possano prender forma e maturare le radici del pensiero e della speranza interculturali.
Tre sono i requisiti che rendono qualsiasi occasione di incontro con donne e uomini “spaesati”, con e per i loro figli, un rifugio fatto di parole:
• la possibilità di raccontare, o scrivere, di sé in assoluta libertà e spontaneità
• la possibilità di poter sviluppare, ampliare, arricchire il racconto
• la possibilità di lasciare a se stessi e ad altri noti o sconosciuti un messaggio che possa essere raccolto e diffuso.
Si istituisce, in tal modo, una trìangolarità ideale, un luogo abitato di parole inventate o trovate per descrivere il mondo e descriversi, nella speranza di essere poi ridescritti da chi ha ascoltato o ha letto nostri discorsi. Si costruisce così quello che altrove abbiamo chiamato uno spazio autobiografico (D. DEMETRIO, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Milano, Cortina, 1996) rassicurante avalutativo, ristrutturante. Parlare e parlarsi da soli o con altri infatti incoraggia a non temere il giudizio altrui e consente a ciascuno indipendentemente dall’origine e dalla lingua a ritessere l’involucro della propria (solo questa) identità ferita, offesa, dispersa, dalla migrazione, dallo spaesamento, dalla rinuncia al racconto in luoghi dove il proprio idioma non è compreso (A. SMORTI, Il sé come testo. Costruzione delle storie e sviluppo della persona, Firenze, Giunti, 1997).

   4.2 Spazi autobiografici e triangolarità narrativa

Per questo, anche, i membri di una stessa comunità migrante si cercano, si raccolgono attorno ai loro racconti fino ad enfatizzarli e a mitizzarti inventando talvolta quel che non esiste più: la loro identità etnica. E, proprio per questo, il lavoro interculturale è soprattutto lavoro volto a inventare spaz autobiografici in cui tutto questo possa accadere. Dove sia possibile declinare la triangolarità narrativa in queste modalità:
• collaborando con le specifiche comunità affinché le loro storie possano diventare “banche della memoria” dell’immigrazione (S. TUTINO, “Dal progetto per sé, al progetto per tutti”, in Adultità, n. 7 monografico “Progetti di vita”, marzo, 1998) e momenti di ritrovamento della “nostalgia”, così utili, nella loro restituzione, ai figli: affinché si possano sentire ancora legati ad una tradizione fatta non soltanto di mentalità ma di ricordi e immagini che valga ancora la pena di trattenere e trasmettere. È questo il momento delle imago mentali, emotivamente ancora presenti, evocatrici di suoni, colori, parole, detti, storie e leggende:
• costituendo piccoli gruppi plurioriginari, italiani inclusi, nei quali sia realizzabile quello scambio di storie che faciliti la scoperta - mai ovvia - delle reciproche vicende di crescita: storia d’infanzia, di giovinezza, di maturità. Tutte accomunate, indipendentemente dai siti di provenienza, da rievocazioni che ben oltre le singolarità rispecchiano le stesse avventure della crescita. E questo il momento delle storie di formazione (5. TUTINO, “Dal progetto per sé, al progetto per tutti”, in Adultità, n. 7 monografico “Progetti di vita”, marzo, 1998).
• Infine, la terza possibilità autobiografica può trasformarsi in un luogo - laboratorio di scrittura, finalizzato alla raccolta, sistemazione e stampa dei racconto: in rapporto all’una o all’altra delle precedenti condizioni.
ll mondo della migrazione anche in Italia non cessa di sorprenderci con la nuova letteratura di scrittor immigrati venuti da ogni parte che arricchisce gli studi su questo genere emergente e le ricerche socio-antropologiche sui percorsi e le traiettorie migratorie. Romanzi, novelle, semplici pagine di diario c consentono di capire meglio non solo i vissuti di chi approda ma anche noi stessi.

   4.3 Lo sguardo dell’altro su di noi

Un racconto di uno scrittore straniero ci invita ad interrogarci: è lo sguardo su di noi che nor vorremmo, talvolta, venisse gettato sulle nostre quotidianità, sulle nostre incomprensibili follie, sulle nostre rìtualità.
Un romanzo che appartenga al genere della migrazione traduce, poi, non una, ma molte storie fra loro intrecciate; è ad esempio:
• storia di sopravvivenza e conquista di diritti umani
• storia di iniziazione alla vita adulta, di passaggi esistenziali, di incontri cruciali fortunati o nocivi
• storia di rifiuto e rivolta
• storia di ricostruzione dell’identità e rappresentazione di modi di essere e vivere che
progressivamente si rendono commisti: dove non è arduo ritrovare il manifestarsi di identità plurime fatte di adattamenti e rassegnazioni all esigenze del presente e di perseveranza, resistenza, attaccamento ai luoghi interni, profondi, psicologici irrinunciabili presenti e assenti al contempo
• storia di cura di sé, che testimonia la nascita di una coscienza individuale scaturente dallo
strappo con contesti d’origine nei quali la stessa idea di soggettività è quanto mai labile. Storie, queste, che, inoltre, ci raccontano quanto l’impegno dello scrivere diventi un medicamento
nell’istante in cui la solitudine diventi la condizione che parrebbe costringere al silenzio, alla
dimenticanza e all’oblio: non soltanto di ciò che si è lasciato, ma di se stessi.
Questa terza possibilità corrisponde al momento della più vera visibilità. E ciò accade quando la miriade di storie attraverso l’arte del ricordare e dello scrivere si agglutina in qualche storia esemplare soprattutto per noi.
Poiché l’esito di una narrazione cerca sempre qualcuno cui affidare la propria storia. Quanto nasce da una individualità si protende verso la socialità e rompe l’esclusione. Di molte, moltissime storie anche stampate, che chiedono di essere aiutate a superare lo stadio espressivo dello sfogo abbiamo bisogno, per aiutare l’interculturalità a diffondersi. La nostra stessa identità scaturisce dalla narrazione degli altri, con la conseguenza che quanto riusciamo a conquistare, nel paziente lavoro di educatori a narrare, è una conquista per noi.

   4.4 Far parlare i silenzi

Lo scrittore Yusuf ldrìs, nel suo libro “Alla fine del mondo”, ci propone di far parlare i molti innumerevoli, sterminati silenzi di chi emigra. Di limitare lo spreco di storie che potrebbero esseri raccontate e che dovremmo nelle nostre città e ovunque incominciare ad aggregare comparandole avvicinandole, scambiandole con le nostre.
Ci attende un progetto-utopia di banche della memoria interculturale dove non sia necessaric contrattare, distinguere tra le ragioni degli uni e degli altri, in una sorta di dare per avere e del commercio regolato da norme di solito sfavorevoli per una delle parti.
Yusuf ci dice che soltanto quando il silenzio “si mette a parlare” (e l’istante prima del racconto ci chiede la pausa per suscitare l’incantesimo dell’attesa), quando, prima dei vincoli e delle aspettative, si accetta quello stato di sospensione del tempo e dello spazio; quando ciò accade si sperimenta “di tutti" i silenzi il più profondo. Perché è quello dove converge l’accordo più forte che esista. L’accordo concluso senza alcun patto”.
L’esperienza narrativa è sempre al di sopra di ogni faticosa trattativa di merci, idee, vite. Nel suo divenire è la capacità del narratore di spiegare ed evocare ad annichilire ogni distanza e differenza. A rendere illusori tutti i ragionamenti triti e sofisticati volti a ribadire quanto gli uni siano differenti dagli altri; a far tacere, almeno per poco, la voce delle scienze umane che contribuiscono sovente più a dividerci cercando le biologie, le psicologie, le antropologie della diversità.
L’arte del racconto orale o scritto, il linguaggio e i linguaggi della narrazione ci restituiscono, invece, la disarmante umanità delle storie e dei volti. Dalle quali e dai quali scaturisce allora, può scaturire dando una mano a quanto già fa parte di un impulso naturale e culturale che non conosce frontiere, un invito a rallentare, a sostare, a pensare.
Gli spazi autobiografici, nelle realtà della migrazione, possono rivelarsi nel momento in cui la voce riempie il silenzio e, nel momento in cui questa parola si spegne, un’occasione unica per la sosta e per nuovi inizi.
 


http://utenti.lycos.it/etnopedagogia/ita/demetrio.html



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