Viaggio ad Auschwitz tra memoria storica e sentimenti. Di Alessio Marchetti
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Viaggio ad Auschwitz
Di Alessio Marchetti

Praga- Auschwitz- Praga: il viaggio del nostro corrispondente dalla Republica Ceca, Alessio Marchetti verso il Campo di Auschwitz. Un viaggio tra memoria storica e sentimenti.



Praga, 26 Gennaio 2005 -- Parto mercoledi sera, intorno alle 16.30 da Praga, diretto a Cracovia. Salgo in treno, non particolarmente affollato, e cerco di trovare una sistemazione comoda, conscio del fatto che il viaggio sarà abbastanza lungo, circa 8 ore. Trovo uno scompartimento libero, mi siedo, prendo in mano un libro di memorie fotografiche che ho acquistato a una mostra visitata il giorno prima a Praga su i “Bambini del ghetto di Lodz” e aspetto che il treno si muova.


Non riesco a concentrarmi sulla lettura con il treno fermo alla stazione, il mio sguardo viaggia continuamente fuori dal finestrino, ad osservare la gente, il movimento continuo nella stazione centrale di Praga, i pendolari che tornano a casa, due amanti che si baciano, il frenetico movimento del venditore di bevande. Finalmente il treno si mette in movimento. Non è la prima volta che vado a visitare i luoghi dell’Olocausto, ma questa volta sono emozionato, come se andassi a incontrare la Storia in persona, quella che si scrive con la S maiuscola.


Lascio una Praga resa ancora più bella dalla neve, che continua a scendere, bianca e quasi intatta che però, subito fuori dalla città, con il buio della campagna e della sera da un senso di solitudine in quello scompartimento così vuoto. Saluto, dunque, con gioia l’ingresso di due ragazzi, lei slovacca, lui ceco.


Ripongo il mio libro, che non ho nemmeno aperto, sul sedile e non posso fare a meno di iniziare una conversazione con i due, che scopro, entrambi, studenti di Filosofia all’Università Carlo di Praga. Stanno andando direttamente a Oswiecim, il nome polacco di Auschwitz, sono stati fortunati ed hanno trovato da dormire direttamente in paese. La ragazza, Jana, mi dice che sta preparando una tesina sulle vittime politiche del nazismo e per questo motivo, il giorno prima, è andata a visitare il campo di prigionia di Terezin, a circa un’ora da Praga, un luogo dove erano rinchiusi ebrei ma, soprattutto, prigionieri di guerra e politici provenienti da tutta Europa, soprattutto russi. Jana mi racconta di come Terezin fosse stata usata come modello di “città paradiso” dai nazisti per far credere alla Croce Rossa Internazionale che la vita degli “ospiti” nei vari campi tedeschi fosse confortevole e felice.


La città-campo sembrava poter contare su tutto, agli occhi degli osservatori internazionali, che videro negozi, bande musicali, teatro e assistettero addirittura a una partita di football. Ma la verità sulle delle condizioni di vita del campo era ben diversa: i prigionieri erano spesso stipati in 50 in un’unica cella e alla fine della guerra addirittura in 100, con un solo bagno. Ogni prigioniero aveva mezzo litro di caffè, una fetta di pane e veniva servita una zuppa a pranzo e a cena. Delle volte, quando il responsabile del campo, Heinrich Jekel, si sentiva di umore magnanimo, ordinava di cucinare un pasto speciale con tutto quanto contenuto nei pacchi arrivati da casa per i prigionieri. Quindi cibo, dolce misto a salato, ma anche sigarette, aghi per cucire, dentifricio, matite e quant’altro. E i prigionieri erano obbligati a mangiare tutto insieme.


La conversazione con i ragazzi va avanti, fino a quando il lento e sempre uguale scorrere del treno vince le nostre reciproche curiosità e la voglia di conoscere e scambiare idee ed opinioni. Mi svegliano per salutarmi, sono già arrivati a Oswiecim. Bene, mi rimane solo un’ora fino a Cracovia. Non ho trovato da dormire ad Auschwitz-Oswiecim, e ne approfitto per andare a visitare di nuovo un’amica a Cracovia, città bellissima e simbolicamente importante per la Shoa. Entro in città finalmente, verso le 23.


So che alla stazione, infreddolita, ci sarà ad aspettarmi Krystyna, un’amica conosciuta qualche mese prima a Praga. Non la vedo dalla scorsa estate e faccio quasi fatica a riconoscerla, nascosta tra cappello e sciarpa multicolore. Krystyna abita in un bel palazzo d’epoca, insieme a sua madre, la signora Agnieszka, vicino alla stazione. Cracovia è molto comoda da questo punto di vista perché una volta alla stazione dei treni e degli autobus il centro è praticamente dietro l’angolo. Saliamo all’appartamento dove ad accogliermi, insieme alla madre c’è, come sempre, il poco amichevole dobermann della famiglia.


Mi mettono subito a mio agio, la signora Agnieszka mi prepara un tè e poi si scusa, ma per lei già da un po’ è suonata l’ora della ritirata. E’ mezzanotte passata ma Krystyna, conoscendomi, si sacrifica proponendosi come guida per una visita notturna al quartiere ebraico di Kazimierz. Accetto con entusiasmo, incosciente della temperatura che segna meno 10 gradi. Prendiamo il tram notturno e scendiamo dopo pochi minuti. Camminiamo tra le strade buie e ghiacciate del vecchio quartiere ebraico che è qui fin dal XV secolo ed è uno dei meglio conservati e veritieri d’Europa, grazie anche al fatto di non essere stato distrutto dai nazisti durante la guerra.


Secondo stime tedesche a Cracovia vivevano circa 70.000 ebrei e a Kazimierz ne sono ben visibili le tracce per la particolarità delle architettura delle case, delle sinagoghe e dei negozi.


Purtroppo lungo la nostra passeggiata incontriamo anche alcune svastiche e croci celtiche a imbrattare i muri di questi palazzi e un piccolo bar in una piazza, di cui onestamente non ricordo il nome, da cui escono teste rasate accompagnate da fiumi di birra e musica rock ad alto volume, che mi ricorda che l’ignoranza è difficile da estirpare anche a 80 chilometri da dove è avvenuto uno degli orrori più grandi che mente d’uomo possa concepire. Krystyna mi da qualche lezione di storia e mi spiega che i nazisti, non appena occupata la città, fecero chiudere tutte le sinagoghe dalle quali prelevarono gli oggetti di valore, assaltarono i negozi degli ebrei depredandoli, confiscarono tutti i migliori appartamenti ad uso degli ufficiali e delle loro famiglie e mandarono i legittimi proprietari nei campi di lavoro forzati.


Osservo le finestre di un appartamento di uno di questi palazzi, molti dei quali sembrano ancora abbandonati o cadere a pezzi, e mi sforzo di tornare indietro con la memoria a quegli anni, immaginando la paura e l’angoscia di quella famiglia che abitava questo appartamento. E mi chiedo che fine possono aver fatto ora quelle persone. Krystyna mi chiede se me la sento di continuare, se non fa troppo freddo, e al mio assenso saliamo su un altro tram che ci porta dall’altra parte del fiume Vistola, nel quartiere di Podgorze dove, nel marzo del 1941, tutti gli ebrei rimasti in città furono costretti a trasferirsi forzatamente.


Qui fu costruito il vero ghetto di Cracovia, il cui muro è ancora perfettamente visibile a tratti.


Lo spostamento degli ebrei da Kazimierz a Podgorze significa anche lo spostamento di intere famiglie polacche che dovevano lasciare loro il posto. Ecco che sul ponte sulla Vistola si incrociarono famiglie polacche ed ebree che si muovevano nella direzione opposta in un opprimente silenzio, rotto solo da singhiozzi e sospiri. Tutte le finestre e le porte degli edifici del ghetto che davano sulla parte “ariana” della città furono murate, mentre furono create quattro entrate sorvegliate da soldati armati. Secondo le regole ogni appartamento doveva essere condiviso da quattro famiglie e le razioni di cibo erano così insufficienti (100 grammi di pane al giorno) che la fame divenne un nemico quasi più insopportabile dei tedeschi. Almeno fino a quando iniziarono le deportazioni ad Auschwitz che iniziarono tra il 30 maggio e l’8 giugno 1942.


A questo punto vedo la mia guida sofferente, sono le tre di notte e mi convinco che è forse arrivato il momento di rientrare.


La mattina seguente, dopo aver salutato le due gentilissime donne, mi dirigo alla stazione degli autobus dove una sorta di pezzo di antiquariato mobile polacco della PKS, i bus di linea pubblici, è pronto a portarmi a Oswiecim. Il viaggio dura circa un’ora, tra sussulti di un manto stradale approssimativo e “sgarupate” di un mezzo che sembra sempre esalare l’ultimo respiro ad ogni salita. Arrivo intorno alle 12, giusto in tempo per mangiare qualcosa e organizzarmi prima dell’inizio della cerimonia, prevista per le 14.30. Tira vento e fa freddo, la temperatura è abbondantemente sotto lo zero, nevica. Ma ciò non impedisce ai centinaia di giovani e di volontari delle varie associazioni di portare avanti le manifestazioni di contorno, come quella organizzata da “Let my people live”, che ha fatto incontrare e discutere centinaia di giovani da tutto il mondo. L’atmosfera attorno al campo è strana, vi è una moltitudine di gente che guarda, osserva, discute, ma tutto circondato quasi da un religioso e spontaneo rispetto per un luogo che non sembra neanche quello descritto dai libri di storia, ora, coperto da una candida neve che sembra quasi ripulirlo e purificarlo.


Vedo passare vicino a me due anziani, due uomini. Mi dicono essere un sopravvissuto dal campo e un ex soldato russo, uno di quello che, arrivato in questo luogo il 27 gennaio di 60 anni fa, ha visto per primi gli orrori. Non posso fare a meno di avvicinarli e con il mio russo stentato mi azzardo due parole e una stretta di mano.


 Continuo, nel frattempo faccio conoscenza con un collega ceco della TV di Stato.


Mi aiuta a entrare nell’area riservata, dove, da li a breve inizieranno i discorsi dei leader. Sono presenti un po’ tutti, ma la mia curiosità va soprattutto agli ex prigionieri, agli ex soldati sovietici, a tutti coloro che hanno vissuto quella lucida aberrazione della mente umana. Dal 1940 al 1945 i nazisti hanno deportato ad Auschwitz più di un milione di ebrei, quasi 150.000 polacchi, 23.000 rom, 15.000 prigionieri sovietici, e oltre 10.000 prigionieri da tutta Europa. La stragrande maggioranza di essi non uscì viva dal campo.


Mi soffermo ancora una volta davanti alle lapidi dove osservo iscrizioni in tantissime lingue: polacca, inglese, bulgara, rom, ceca, danese, francese, greca, ebraica, yiddish, spagnola, fiamminga, serbo-croata, tedesca, norvegese, russa, rumena, ungherese e italiana. Alle 14.30 finalmente la cerimonia inizia con il ministro della cultura polacco, Waldemar Dąbrowski, che da il benvenuto a tutti i partecipanti ufficiali della cerimonia.


La mia è una postazione di fortuna in quanto non accreditato, ma il mio collega della Ceska Televize, Jan, si prodiga per me. Parlano i superstiti e viene dato spazio anche ai rom, per bocca del loro portavoce Romani Rose, che ricorda le centinaia di migliaia di vittime dell’olocausto zingaro. Poi è la volta dei leader: inizia Aleksander Kwaśniewski, presidente della Polonia, poi è la volta di Moshe Katsav, presidente di Israele che accusa duramente gli alleati di non aver fatto nulla per impedire che si realizzasse quel genocidio. Quegli stessi alleati che, purtroppo, continuano a non fare nulla per fermare l’orrore presente in Palestina da tanti anni a questa parte.



E infine, soprattutto, il presidente russo Vladimir Putin, il cui discorso è sicuramente quello più interessante, con un saluto ai soldati sovietici liberatori del campo e un appello all'umanità, perché mediti sulla terribile lezione della Shoah, ed ha ammonito che i germi del razzismo e della xenofobia sono ancora presenti, Russia compresa.


Nella sua rinnovata carità filantropica riuscirà il presidente russo a fermare anche i massacri quotidiani in Cecenia? Poi le belle parole del papa, il cui messaggio è stato simbolicamente affidato all'arcivescovo di Parigi, monsignor Jean-Marie Lustiger, i cui genitori sono morti ad Auschwitz. Continua a nevicare e a tirare vento, si fa buio e le luci si accendono sulle rotaie su cui passavano i treni che trasportavano i deportati al campo. Qui vengono accese le candele a memoria delle vittime dai deportati e, successivamente, dai capi di stato.


C’è anche Berlusconi.


La cerimonia rende, forse, il contesto un po’ freddo, e l’emozione diventa grande solo quando riesco a isolarmi un po’ dalla folla e mi fermo ad osservare il campo da lontano, così, isolato dalla neve su cui campeggia quella beffarda scritta “Arbeit macht frei”. Non aspetto la conclusione affidata al musico di Lodz, Symcha Keller, che inizia a suonare lo shofar, lo strumento a fiato della tradizione ebraica.


Qualcuno se ne sta già andando. Saluto Jan, lo ringrazio, mi allontano e continuo a girare un po’ per il campo. Mi chino a raccogliere un pugno di neve proprio sotto i piloni di filo spinato che circondano il campo. Osservo la piccola torretta e immagino un soldato di guardia. Adesso sono solo, circondato dalla neve, è buio e inizio ad avvertire l’orrore che quel luogo emana.


Salgo di nuovo sull’autobus che mi porta alla stazione dei treni. Torno a Praga consapevole che oggi si è celebrata un pezzo di Storia.


Alessio Marchetti
redazione@reporterassociati.org



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