Samir Kassir - Un saggio sull’infelicità araba. Un articolo di Gad Lerner
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Un saggio sull’infelicità araba        


di Gad Lerner






Tra la pubblicazione di “L’infelicità araba” in Francia e la sua traduzione in italiano presso Einaudi, è successo che l’autore è morto ammazzato. Lo hanno fatto saltare per aria il 2 giugno 2005 a Beirut dov’era appena tornato dopo una prolungata fuga parigina. Glielo avevano promesso, e così è stato. Samir Kassir se n’è andato all’età di 45 anni, portandosi dietro solo qualche vago ricordo d’infanzia del Libano felice e benestante e cosmopolita, laboratorio di convivenza tra fedi e comunità diverse, infrantosi per primo nella follia delle guerre civili mediorientali, sedicenti religiose, scatenate a partire dagli anni settanta del Novecento.
Kassir da intellettuale, giornalista e editore ha fatto appena in tempo a partecipare del movimento più avanzato in risposta al ricatto identitario dell’11 settembre 2001. La rivolta dei giovani libanesi contro il protettorato siriano sul paese dei cedri; una rivolta portata in piazza, grazie al buon uso del marketing pubblicitario contemporaneo, innalzando assieme in una mano il Corano e nell’altra la croce. Come a dire: non ci fregate più, la guerra civile che ha rovinato la vita dei nostri genitori è un tranello in cui non ricadremo.
Come altri intellettuali arabi di buona famiglia, vissuti tra la madre patria e le università europee o americane – penso naturalmente al palestinese Edward W. Said, ma anche all’algerino Amin Zaoui – Samir Kassir ha elaborato la capacità straordinaria del guardarsi da fuori senza per questo rinnegare la propria appartenenza. Sviluppare cioè un senso autocritico allo scopo di rendere un servizio nella propria comunità, non certo per distaccarsene usufruendo del proprio privilegio sociale. Ecco allora la potenza dell’intuizione che lui destina alla sua gente molto più che a noi. Sta tutta in quel titolo formidabile, che da solo vale una rivelazione: l’infelicità araba.
Proprio così, l’infelicità. Una parola in cui si riassumono la frustrazione, la povertà, l’invidia, l’umiliazione, il fatalismo, la cancellazione della speranza. Leggiamo questo libro e subito riconosciamo la sua verità: esiste una specifica infelicità “araba”.  Qualcosa che va oltre il rilievo delle disparità-contiguità esistenti fra il tenore di vita degli israeliani e quello dei loro vicini palestinesi. A partire dalle quali il filosofo Avishai Margalit ha elaborato la sua teoria della “società decente”. Un divario capace di scatenare un’invidia a sua volta capace di trasformarsi in ferocia, come riconosce Vittorio Dan Segre, cioè un combattente fondatore dello Stato d’Israele. Una diversità culturale la cui incomprensione genera stereotipi pericolosi, come abbiamo appreso dal già citato Said.
Ma è nella categoria esistenziale dell’infelicità araba che il breve saggio-testamento di Samir Kassir ci invita ad addentrarci, per cogliere l’essenza di uno stato d’animo diffuso e prolungato. Ancora una volta ritroviamo la malinconia, l’ambiguo sentimento della nostalgia rivolta a un passato mitico nel quale s’immagina rintracciabile la perduta felicità. Il califfato, la grande civiltà che fu, perfino accontentandosi dell’impero ottomano come surrogato della Umma dei credenti. Fantasie tutte rivolte al passato, necrofilia storica come sintomo dell’incapacità di vivere il presente e di pensare il futuro.
L’impotenza degli arabi – scrive Kassir – sarebbe ancora più dolorosa perché non esiste da sempre. O, per essere più precisi: l’infelicità degli arabi consisterebbe nella loro impotenza a “essere” dopo “essere stati”.
Impotenza diviene la parola più sferzante nell’ambito di un virilismo reso ancora più greve dalla costrizione recente: l’inevitabilità del confronto con l’Occidente, magari anche solo attraverso la parabola della tv satellitare che trasmette fin nei campi profughi i videoclip allusivi nel ritmo del coito e nell’esibizione dei corpi più desiderabili. Una frustrazione moderna di cui lo scrittore turco Orhan Pamuk ha voluto immaginare il preavviso fra i miniaturisti della Istanbul di fine Cinquecento, chiamati per la prima volta al raffronto con l’arte figurativa veneziana: “Pare che nelle città europee le donne vadano in giro in modo da lasciare scoperti non solo il viso, ma anche i capelli lucenti – la loro parte più attraente – il collo, le braccia; se è vero quello che si racconta, lasciano addirittura scoperta una parte delle gambe; è proprio a causa di ciò che gli uomini camminano con difficoltà, perennemente eccitati, vergognandosi e provando dolore, un fatto che, ovviamente, ha paralizzato la società” (da “Il mio nome è rosso”, Einaudi). Tra i tanti guai che sapevamo di dover addebitare alla libera sessualità, questo impedimento dinamico degli europei francamente ci era sfuggito. Eppure io me l’immagino il percorso psicologico del terrorista suicida ventenne che da Gaza raggiunge di venerdì sera – dopo la preghiera in moschea – la discoteca di Tel Aviv affollata di giovani russe in minigonna e tacchi a spillo, per esplodere insieme a loro. Lo riconosco mentre si scaglia contro l’irraggiungibile femminile proprio per questo demonizzato.
Qui ho trovato l’unico mio punto di dissenso dalle analisi lucide e sincere di Samir Kassir, quando egli sostiene che “non c’è alcuna angoscia tra i seguaci dell’islamismo radicale”. Descrive Kassir quella galassia islamista che “trova nel baratro una fonte inconfessata di giubilo nonché la legittimazione di una violenza apocalittica o, nel migliore dei casi, degna del Sansone biblico”. Comprendo il suo stupore di fronte alla militanza giovanile nelle file dell’integralismo che a lui forse parrà una militanza che produce entusiasmo. Ma non confonderei il fanatismo con la gioia. L’infelicità araba è condizione esistenziale davvero generalizzata.


http://www.lostraniero.net/aprile06/lerner.html



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