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Memorie di un insegnante, quindici.
Aldo Ettore Quagliozzi
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Leggendo la gradevolissima prosa di Paolo Teobaldi tratta dal suo volume di ricordi “La Scala di Giocca“ è un ripercorrere nella memoria gli anni di una iniziale carriera allorquando nella scuola pubblica italiana, agli albori anche delle innovazioni apportate con i famosi ‘decreti delegati‘, le rivendicazioni di natura contrattuale trovarono soluzione in invenzioni legislative-burocratico-amministrative che di ben poco aiuto sarebbero rivelate per il miglioramento dell’efficienza della pachidermica, allora, scuola della ‘partecipazione‘.
E chi non ricorda di quegli anni i famosi o famigerati ‘corsi abilitanti‘ attorno alla cui storia o cronaca l’autore costruisce il suo narrare, e che furono di certo una panacea per risolvere l’allora precariato nella scuola pubblica, ma per i quali non si può avere rimpianto alcuno, poiché essi hanno rappresentato indubbiamente l’affossamento di qualsiasi idea di miglioramento del servizio scolastico e la messa in soffitta di qualsiasi idea e strumento per una differenziazione meritocratica della carriera degli operatori scolastici, tanto per usare una bruttissima definizione al tempo molto in voga anche per designare altri operatori di attività di ben diverso peso culturale?
Leggere comunque la prosa del Teobaldi per averne una convincente prova; non si potrà alla fine non lasciarsi sfuggire un amarissimo e tenero sorriso, per un tempo che è stato.
“( … ) Quello che mi spinse a cambiare mestiere non furono i tornanti di Scala di Giocca e nemmeno i corsi abilitanti; anzi i corsi abilitanti io li ricordo con affetto perché furono la stagione degli amori.
Dai paesi della provincia confluimmo, il 29 settembre di quell'anno, per la riunione preliminare dei corsi abilitanti ordinari e speciali e fummo divisi per due, tanti eravamo: un primo gruppo, dalla A alla M, nell'aula magna dell'Istituto Magistrale "Margherita di Castelvì", dove si prendevano le filmine sulla circolazione del sangue e sull'ecologia; l'altro gruppo, dalla N alla Z, nell'aula magna del liceo classico Azuni, fondatore del diritto marittimo, istituto in cui avevano studiato Togliatti e il mio amico Vittorio.
Convenimmo da tutti i paesi della provincia, non solo, come i fortunati che insegnavano a Sassari, dalle scuole medie della città, senza nemmeno un nome ma solo un numero, e a ogni numero era abbinato un quartiere o meglio un nome di un preside; ma da Ossi, Tissi, Burgos, Florinas; da S'Alighera, Thiesi, Bunnanaru, Piaghe, Tempio, Sedini, Villanova, Osilo, Turris Lybissonis; vennero quelli lontanissimi da Olbia, anche da La Maddalena, noi di Thulas.
Erano in macchina, equipaggi già bene assortiti e organizzati, studiati da tempo, erano in treno, con l'autostop, col cavallo; avevano mariti e mogli, erano con i figli. Era una specie di raduno di primavera dei trapper nella regione dei grandi laghi, a portare le pelli raccolte, a scambiarsi notizie.
Non fu per i corsi abilitanti che cambiai mestiere che anzi ai corsi abilitanti io mi divertivo. A me piaceva soprattutto il fatto che, dopo aver parlato per anni, alle riunioni dei consigli di classe, ai collegi dei professori, negli incontri scuola-famiglia, nelle riunioni del sindacato, nei gruppi informali, e anche la mattina in classe, esclusa naturalmente l'ora di buco o "finestra" -come diceva qualche collega non sposata di brava famiglia- ai corsi abilitanti non dovevo più parlare ma solo ascoltare.
La meraviglia di questo dover stare a ascoltare aveva un effetto tranquillante molto più delle pillole verdi che mi aveva segnato il medico della mutua e che erano piccolissime e potenti, confermando una mia vecchia idea che le medicine più sono piccole più sono forti.
I docenti del corso erano sempre gli stessi dei corsi dei maestri cattolici, quelli del mezzo punto, che duravano quindici giorni, e anche quelli dei corsi sull'Africa, erano gli stessi presidi che venivano poi a fare i presidenti di commissione a turno, che insegnavano qualcosa all'università, che scrivevano dei pezzi su La Nuova Sardegna, delle poesie in dialetto; e per molti dei colleghi erano i professori che avevano avuto al liceo e questi li ricordavano benissimo e li salutavano per nome, come bravi ragazzi.
A noi era capitato il preside di non so quale facoltà, il quale spiegava il predominio della lingua italiana su tutte le altre materie in quanto erano tutte spiegate in italiano.
"Per esempio," diceva, "si prenda una pagella della scuola media con l'elenco delle materie insegnate, elenco che loro conosceranno bene: religione; italiano; latino; storia; geografia; matematica ed osservazioni scientifiche; lingua, etc. Si ha un bel dire che le materie sono diverse ma, nell'ora di lezione, come vengono spiegate queste materie? Di quale strumento linguistico si avvale l'insegnante per spiegarle agli alunni? Dell'italiano, sempre dell'italiano. Da qui viene, cari colleghi, dico colleghi perché vi ritengo tali [mormorii, qualcuno rideva anche], che l'italiano è la materia fondamentale."
Queste parole semplici, ripetute per settimane, avevano il potere di tranquillizzarmi insieme al fatto che non dovevo assolutamente parlare, solo recepire ma forse nemmeno: dovevo solo stare lì, mentre il suono percuoteva il timpano.
Chiarito questo concetto, dopo tre-quattro settimane l'insegnante volle affrontare il programma e presentò la sua proposta: la lingua italiana dalle tavole Eugubine all'ultimo numero de La Nuova Sardegna.
Purtroppo fu messo in discussione o contestato da un gruppo di colleghi esagitati i quali ottennero che di tutto il programma si potesse limitare lo studio a un argomento monografico esaminato in gruppi di studio e che l'esame finale dovesse poi vertere sul contenuto dell'argomento stesso.
Io cercai di spiegare a questi colleghi, anzi amici, fratelli, molti dei quali appartenevano come me al gruppo dei Tenaci e con cui dividevo riunioni lunghissime tenute in sedi disagiate, scelte appositamente tra le case più umide della città, grevi di fumo freddo di gauloise e nazionali, che in questo modo avremmo dovuto studiare e che tutto il riposo in sito in quelle ore d'ascolto svaniva; alcuni mi dettero ragione ma la maggioranza non ne volle sapere e così dovemmo affrontare i gruppi di studio nella cui formazione non ci si riunì secondo l'interesse per l'argomento da esaminare ma seguendo le simpatie e gli amori che già sbocciavano in quello stare gomito a gomito su un banco di scuola, all'età di trent'anni, e sposati i più, con colleghi mai visti e che venivano da tutt'Italia, che avevano fatto il 68.
Per questo non li fanno più i corsi abilitanti: perché se molte famiglie andarono sfasciate -e fra queste quella di Pippiu- molti altri amori incontrollabili germinarono in quell'occasione e i professori si riprodussero in maniera irregolare, mescolando le graduatorie.
Comunque, perso il docente che sosteneva il predominio dell'italiano, dovemmo metterci a discutere per scegliere l'argomento da approfondire e che doveva essere un tema serio, su cui poi fare una relazione ciclostilata da distribuire e da discutere tutti insieme, una copia della quale andava allegata alla relazione da inviare al Sovrintendente Scolastico Regionale.
Gli altri gruppi si orientarono su questi argomenti: 1) "La questione meridionale" ; 2) "Strutturalismo e insegnamento delle lingue" ; 3) Società e codice di comportamento barbaricino"; 4) "Società agropastorale e influenza dell'industria petrolchimica"; 5) "Cultura e politica dal dopoguerra a oggi", tutti temi vasti e impegnativi che non me la sentivo di affrontare.
Il nostro gruppo che, come tutti gli altri, era affiatatissimo ci invitava a casa a pranzo, a cena; dalla tia Filumè ci fu un viavai indimenticabile, con 10-15 coperti al giorno; entrammo in tante case per converso e imparammo tante storie - era composto da: Vincenzo, Pippiu, sempre più agitato e festoso, che aveva ripreso l'abitudine di salutare la gente abbracciandola e si stringeva le colleghe ogni giorno, che ne erano lusingate; Attilio, un collega di Thiesi, nativo di Subiaco, che di pomeriggio recitava in una filodrammatica e che si era specializzato nelle opere di Eduardo, attività in cui riusciva anche bene ma che aveva i suoi problemi perché non riusciva a trovare un teatro per le prove e finiva sempre in un cinema parrocchiale; padre Ignazio, tattaresu, un sacerdote che insegnava italiano e storia e geografia alle medie, amante della compagnia e dei dolci; Francesco, detto Ciccio, nativo di Afragola, provincia di Napoli, e quindi quasi conterraneo di Vincenzo, forte e vigoroso, con la camicia quasi sempre aperta sul petto, a evidenziare il vello; Caterina, la quale, essendo in allattamento, arrivava tardi all'appello e quando il docente chiamava il suo nome perché facevano anche l'appello, anzi due appelli, uno all'inizio e uno alla fine, perché c'erano quelli che facevano i furbi - rispondevamo a turno, contraffacendo la sua voce; poi Vanna, Roberta di Macerata, Antonio di Caltanisetta, Laura, bellissima, che insegnava da cinque-sei anni in un paesino vicino a Siligo, patria di Maria Carta, di Gavino Ledda e di Cossiga.
Il tema che il nostro gruppo doveva affrontare era: "Società agropastorale e attività ciclistica in Sardegna".
Originariamente l'argomento doveva essere soltanto "Attività ciclistica in Sardegna" in quanto io la ritenevo una questione interdisciplinare, atta cioè a sviluppare tutte le tematiche congiunte con autonomi strumenti d'indagine; per esempio, sostenevo -e potrei ancora sostenere anche se ho cambiato mestiere- la pratica ciclistica favorisce un allacciamento con la geografia in quanto, prima di partire per una pedalata, o sgambatura, anche solo di 15-20 chilometri, occorre bene documentarsi sulla natura del terreno, del territorio diremmo oggi, controllando sulle tavolette dell'Istituto Geografico Militare, scala 1:25.000, quante fontane ci sono, quanti bar e quante trattorie; una pedalata circolare, in scioltezza, favorisce la circolazione sanguigna (qui si innesta la medicina!), cioè una migliore irrorazione delle vene e dei capillari di tutti gli arti, e di tutti gli organi cervello compreso, con conseguente miglioramento del livello medio delle spiegazioni e della capacità di sopportazione.
Nodo fondamentale da esaminare sarebbe stato la mancanza, nelle squadre ciclistiche nazionali, di professionisti sardi, la ragione del quale fenomeno - io l'avevo solo accennata a Vincenzo - era nella storia stessa della regione, cioè nello stratificarsi di invasioni a opera di popoli poco amanti della bicicletta, fenici in testa, romani, pisani, spagnoli (che pure potevano essere buoni scalatori, o grimpeur, vista la loro complessione fisica), piemontesi, che lasciarono il cavallo solo per l'automobile.
Oggi, continuavo a spiegare a Vincenzo, qualcosa sta cambiando, quando con Raffaele scendiamo giù a Platamona di domenica mattina oltre a quelli che ci dicono dietro maccos ci sono anche gruppetti di pedalatori, alcuni giovanissimi, riuniti in vere e proprie confraternite, tra cui la "pedalofila sarda".
Questa era la mia proposta originaria, l'unico argomento che secondo me, una volta abolita la lezione del preside della facoltà, valesse la pena di approfondire.
Dato però che del gruppo non tutti ne avevano un'esperienza diretta, anche per accontentare padre Ignazio che si era laureato su quel problema, aggiungemmo la parte sulla "Società agropastorale". Per fortuna, dato che l'argomento era vastissimo, risolvemmo di dividerci in due sottogruppi, uno che studiava la società agropastorale sotto la guida di Ignazio, l'altro sotto la mia che approfondiva la pratica ciclistica in Sardegna: alla fine avremmo pensato qualcosa sul rapporto.
Recuperai la voglia di studiare, anzi venivo a scuola in bicicletta, scendevo dal quartiere dove abitavo, su verso lo stadio, con la Colnago superleggera a sei cambi -per comprarla avevo dovuto chiedere la cessione del quinto all'Enpas- e con una mano sola dato che con l'altra tenevo la borsa con i libri e le riviste specializzate.
Andare a lezione era facile, ci badavo tre minuti circa, una volta (cronometrato!) due minuti e quaranta secondi, passando per via Dante; a volte, addirittura tagliando per piazza d'Italia e tranciando tutti i sensi unici per arrivare ai giardini, dove era l'istituto; al ritorno facevo più fatica, soprattutto perché dovevo tenere il manubrio con una mano sola e non potevo fare forza: ma anche se era salita arrivavo a casa col 54x16.
Fu lì, ai corsi abilitanti, che incontrai Antonietta, che insegnava a Ittiri: mi innamorai di lei il primo giorno di lavoro di gruppo per il suo profumo.
Lei era piccolina e dolce, piena di ammonizioni e censure comminatele dalla preside che, secondo me, l'odiava per la sua bellezza: gelosa della sua bellezza.
Ricordo benissimo che ci trovammo nello stesso banco, io e lei, a esaminare un'annata della rivista Tuttociclismo, e a sentire il suo profumo buonissimo, che poi mi accompagnò nel cervello per tutto il periodo della nostra storia, intensa e breve, capii che non c'era niente da fare.
Le chiesi: "Come si chiama questo profumo?" Lei rispose: "Masumi."
Era nato l'amore. Lei dimenticò il fidanzato coglione che la veniva a prendere a scuola tutte le sere, ingrugnito, geloso di tutta quella familiarità con i colleghi, io dimenticai moglie e figli in un attimo e la portavo sulla canna della Colnago superleggera, ma lei era una piuma!, e andavo per Sassari anche in salita, con lei in canna e con la borsa in una mano: come rapporto usavo il 54x14.
Anche gli altri si innamorarono, anche mia moglie del resto, anche Vincenzo, Pippiu, padre Ignazio; alla sera ci si incontrava nelle trattorie del centro, quelle che ci avevano già visti nel periodo impegnato della strategia zimino, mangiavamo piedini di porco tenendoci stretti nella fumareccia. Vincenzo con Caterina, padre Ignazio con Laura, Vanna con Pippiu.
A volte ci spingevamo più lontano, dicevamo che bisognava studiare dopo cena per terminare la relazione e si andava a ballare a Alghero oppure al cinema o in pizzeria, a fare l'amore in macchina ai pettini di Platamona o nelle tante campagne scure che circondavano la città, o negli alberghi di Alghero e Porto Torres.
In trattoria, Antonietta, che io chiamavo Masumi semplicemente, mi raccontava della sua famiglia, dei tanti fratelli, dell'università frequentata a fatica, della preside che la odiava e le aveva abbassato la qualifica, del fidanzato che doveva sposare per fare contenti i suoi perché ormai andavano insieme da otto anni, da quando aveva sedici anni, e mi faceva vedere le foto del campeggio alla pineta Mugoni, l'estate prima, e lei era in costume e era bellissima, anzi dispiaceva essere d'inverno. Vero, io di tutto quel passato non conoscevo niente, non l'avevo mai vista in costume perché l'avevo conosciuta alla fine di ottobre, non potevo difenderla contro la preside e invece avrei potuto aiutarla a fare i ricorsi; dopo io le facevo vedere le foto di moglie e figli e lei si commuoveva e diceva: "Chissà se tu mi vuoi bene veramente." E io rispondevo solo "Masumi.".
Fu una storia bellissima che finì quando finirono i corsi abilitanti, con gli esami. Ci furono le riunioni finali e tutti i gruppi presentarono la relazione ciclostilata, e erano relazioni alte tre dita, avevamo usato ciclostile del sindacato, della sede dei Tenaci, alcuni della parrocchia, della Confesercenti, con la bibliografia e le citazioni.
Ne discutevamo una al giorno: prima si leggevano davanti a tutta l'assemblea e poi venivano discusse dai colleghi i quali avevano seguito la lettura con grande interesse, prendendo appunti.
O meglio, non era una vera lettura perché ci sarebbero volute cinque-sei ore consecutive, ma una sintesi: ogni membro del gruppo esponeva una parte e noi, che eravamo un gruppo molto affiatato, ci dividemmo i compiti con una vera e propria regìa: chi era preparato sulla società agropastorale espose la parte riguardante l'attività ciclistica e viceversa in modo che alle domande dei colleghi rispondessero gli esperti.
Facemmo un figurone ma la commissione, al momento de valutazione, invece di dare un unico voto a tutti, diede dei giudizi differenziati e così ci fu qualcuno che prese 100, qualcuno 97, qualcuno 92 e qualcuno 80; cosa che ci dispiacque moltissimo.
Prima di tutto perché all'istituto magistrale, dove erano i colleghi dalla A alla M, la media era più alta, sul 98, e quei punti avremmo ritrovati nella graduatoria per l'assegnazione definitiva di sede e magari, per un punto, uno che si chiamava Meloni ti passava davanti e a te toccava andare a insegnare a Burgos o a Bono, che era come dire l'ultima Tule della provincia di Sassari. Poi perché in Sicilia, diceva qualcuno che aveva telefonato, addirittura davano 100 a tutti. ( … )“
gennaio 2005
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