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Educazione linguistica Italiano
Aspro e solenne, muore Mario Luzi - Autore di una ricerca potenzialmente centrifuga, rivolta a un progressivo allargamento del campo di indagine e a una piena comunicazione con il lettore, venne stretto inizialmente tra i due luoghi comuni che lo indicavano come poeta della intransitività ermetica e della moderazione cattolica. Ebbe come riferimenti privilegiati Leopardi e Mallarmé - di MASSIMO RAFFAELI

Lingua: Italiana
Destinatari: Alunni scuola media superiore, Formazione post diploma
Tipologia: Documentazione

Abstract: Aspro e solenne, muore Mario Luzi
L'addio al poeta novantenne morto ieri mattina nella sua casa di Firenze, probabilmente per un infarto. Autore di una ricerca potenzialmente centrifuga, rivolta a un progressivo allargamento del campo di indagine e a una piena comunicazione con il lettore, venne stretto inizialmente tra i due luoghi comuni che lo indicavano come poeta della intransitività ermetica e della moderazione cattolica. Ebbe come riferimenti privilegiati Leopardi e Mallarmé
MASSIMO RAFFAELI
Due sono le immagini principali, e così resistenti da ossificarsi in uno stereotipo, che hanno a lungo contrassegnato la fisionomia del poeta Mario Luzi, sinonimo in Italia del Secolo Breve, anzi emblema del Novecento, della sua lingua aspra e solenne e del suo percepire ricco, sghembo, eternamente complicato da cortocircuiti che rendevano irresolubili e urlanti i conflitti di spirito e parola, anima e corpo, lettera e senso. Il primo stereotipo è quello di poeta dell'ermetismo, cioè della vulgata che fa seguito, nell'epicentro della Firenze anteguerra, alla parola nuova di Ungaretti (scandita e sillabata dentro un alfabeto di essenzialità e rigore esistenziale) ma anche al trobar clus di Eugenio Montale, pure così distante dal giovane poeta di Castello, per l'adesione terrigena agli elementi, per il fonosimbolismo aderente alla musica di un paesaggio definito, al mare, al sole, alle barriere ostative di una metafisica così invasiva da non poter mai riassorbire o smaltire gli oggetti e le presenze della vita fisica. L'altro stereotipo è quello di un Luzi poeta naturaliter cattolico, dunque ipotecato da una osservanza, o meglio da un pedaggio rituale, che venisse prima della parola espressa e del suo stesso nominare. Ma sono appunto luoghi comuni, ovvero segnali di una poetica che può dirsi conclusa, e con esiti di grande originalità, nel primo arco della produzione, che lo smarca e lo definisce in originale rispetto agli autori coetanei, per solito a lui associati, dal neo-greco e orfico Quasimodo ad Alfonso Gatto, tanto cromatico e ritmicamente spasmodico da evocare in quegli anni sospetti di surrealismo. Da La barca (1935) a Primizie del deserto (1952), passando per Un brindisi (1946) e Quaderno gotico (1947), l'apprendistato di Luzi, se per inganno retrospettivo può ancora evocare le insegne dell'intransitività ermetica e della moderazione cattolica, non deve far dimenticare che sin dall'avvio la sua è una ricerca potenzialmente centrifuga, portata a un progressivo allargamento del campo poetico e rivolta, come liberandosi via via da un'occlusione, verso un pieno comunicare con il lettore, inteso nei modi integralmente cristiani di «persona», vale a dire nella concomitanza di ardore carnale e patema spirituale. Non è la Chiesa di Roma, o solo quella, a fare da riscontro e limite ai versi del giovane Luzi, semmai è l'incandescenza delle lettere di San Paolo (specie quando distingue tra il fatto che siamo affini in mente Dei prima che in sanguine hominum) o le pagine più tormentate di Simone Weil, quando riconosce che la condizione peccaminosa equivale senza residuo alla condizione umana medesima.

Luzi giovane paga ovviamente un pedaggio ineluttabile al senso comune della condizione formativa e alla cultura della classe di provenienza: da un lato, infatti, il suo secolo poetico costituito in grammatica gli impone le barriere di una oscurità preventiva, di un dire interdetto nei modi e persino nel gergo di Mallarmé, un maestro che il poeta toscano ha studiato e metabolizzato come nessun'altro (lo si vede, ad esempio, nei saggi contenuti in Studio su Mallarmé ,1952, e L'inferno e il limbo, 1964); dall'altro lato, l'introiezione del dettato evangelico gli induce la netta consapevolezza che i conflitti e le tragedie del secolo (le guerre e tutte le infamie del totalitarismo) si riassumono, una volta deprivate degli attributi di circostanza, nella figura sanguinante e agonica del Cristo.

Il Cristo di Luzi non è, né sarà mai, il giudice e il pantocratore; al contrario rimarrà il meteorite gettato nel mondo, l'uomo solo con se stesso nel momento in cui invoca il proprio simile, un corpo che può essere glorioso solo nel momento in cui patisce trafittura e piaga dalle forze convergenti di storia e natura. Si direbbe anche che nell'intelligenza di Luzi si sovrappongano al Cristo gli accenti dell'ultima e più stremata meditazione leopardiana. E proprio Leopardi, l'ateo Leopardi, costituisce l'altro suo riferimento essenziale con Mallarmé. Si tratta di un Cristo immanente, che guarda al mondo e precipita scandalosamente nel mondo per pura necessità di testimonianza. Infatti amici, dalla barca si vede il mondo è il verso più famoso del libro d'esordio ma anche una dichiarazione di poetica che contiene lo sviluppo successivo del suo poetare. Il quale si dà nei modi della contaminazione, dell'accesso e persino dello sprofondamento nelle cose della natura e della storia. In una parola, nella reciprocità con le cose del mondo, come hanno del resto rilevato i suoi maggiori interpreti e interlocutori, da Franco Fortini a Pier Vincenzo Mengaldo. Qui la sua parola «monologica» diviene interiettiva e dialogica, qui l'insegna elegante del secolo che era stata sua da giovane (ciò che Hugo Friedrich chiamava la dittatura del significante) si scopre esplosione dei significati, parola lacerata, pronunciata per frammenti, parentesi aperte e mai chiuse, chiazze abrase, crateri del senso. Solo le tele congeste e insaguinate di Burri ovvero il dripping di Pollock saprebbero alludere, circa un poeta per proverbio composto e assennato, la produzione della piena maturità, a cavallo degli anni Sessanta, tra Dal fondo delle campagne (1965), a Nel magma (1966) fino a Su fondamenti invisibili (1971) e Al fuoco della controversia (1978).

Non solo è il momento della riconosciuta maturità d'autore; è, nel frattempo, la fuoruscita dall'ipoteca più novecentesca, è il guadagnare la parola della interlocuzione e di una prima impensabile, ustionata, fraternità verbale con gli uomini e gli eventi. Il Grande Stile secolare, della cosmesi e della intransitività, sta ormai alle sue spalle mentre le sirene absolument modernes del tecnologico e delle neoavanguardie sono tenute rigorosamente a bada. Luzi accede dunque a una terra di nessuno che sappiamo essere, per privilegio di posteri, la fertile «terza via» del Novecento, la stessa che segna peraltro l'opera di autori molto differenti da lui, quali Sereni, Caproni, Betocchi, Bertolucci, Raboni, però simili a lui nella ricerca di qualcosa che, nel suono e nel senso, sia in grado di trasmettere un'esperienza autentica, una verità pagata in prima persona. Perciò il Novecento di Luzi ha i tratti del suo stesso volto, magro, segnato, aristocratico senza ostentazione, e ha il suono della sua parola, sempre più scarna, così ribadita da poter apparire a tratti volatile, come è d'uso per le pagine di diario o le pagine postume a un'opera già definita. Un lungo poscritto può essere considerata infatti la produzione del ventennio appena trascorso, il cui valore mediamente alto risulta inverso, in termini proporzionali, alla unanimità della ricezione, con qualche punta vistosa e imprevista (Per il battesimo dei nostri frammenti, 1985; Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, 1994).

Ma il poeta che amiamo, anzi colui che abbiamo imparato ad amare con sorpresa e sgomento, liberandoci tutti a fatica di troppi luoghi comuni, quello è iscritto nel nostro passato prossimo e di riflesso nel nostro futuro anteriore. È lo stesso che dice essere cose compagne la vita e la morte, e lo dice con una naturalezza che dà i brividi; è quello che esige da ogni istante dell'esistere una traccia di senso, che infine sospetta chiunque parli a vuoto del mistero della vita. E ha scritto, Mario Luzi: Nulla di ciò che accade e non ha volto / e nulla che precipiti puro, immune da traccia, / percettibile solo alla pietà / come te mi significa la morte.


http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/01-Marzo-2005/art98.html



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