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Cile - VENTICINQUE ANNI DOPO - Un articolo di LUIS SEPULVEDA

Lingua: Italiana
Destinatari: Alunni scuola dell'infanzia, Alunni scuola elementare
Tipologia: Ipermedia

Abstract:

VENTICINQUE ANNI DOPO

"Noi, quelli di allora, non siamo più gli stessi" dice un verso di Pablo Neruda, ed è vero, dannatamente, dolorosamente e gloriosamente vero. Noi, quelli di allora, non siamo più gli stessi, e quando dico noi penso a tanti che non ci sono più, che sono morti nel corso dei primi combattimenti, o in carcere, o in esilio, o negli scontri armati che sono proseguiti fino al 1989. Altri sono scomparsi in Nicaragua, nel Salvador, in Angola, in Mozambico, tra le file del Fronte Polisario, sempre combattendo, perché gli uomini e le donne che non hanno mai dimenticato l'esempio di Salvador Allende, del compagno Presidente, hanno portato nel mondo la sua dignità e il suo eroismo.

Allende. Che statura ha il coraggio? Salvador Allende era un metro e settanta, per i cileni era bassino, un "tappetto", ma allo stesso tempo era dotato di una grande dignità che lo faceva apparire più alto. Era come i galli da combattimento: piccoli, ma pronti a combattere sino alla fine.

Allende. Accanto alla mia scrivania ho una foto che lo ritrae la sera del 4 settembre 1970, la sera del trionfo elettorale della sinistra che aprì le porte ai sogni e alle speranze di cui erano protagonisti soprattutto i giovani. Quella sera parlò dalla casa della Federazione degli Studenti Cileni, perché sapeva che quei giovani erano - eravamo - pronti a dare tutto per quella rivoluzione che iniziava assieme alla primavera.

Con toni sobri ci parlò delle grandi sfide che avevamo davanti, ci predisse tempi duri, ci invitò a dimenticare la parola riposo perché dovevamo costruire una società migliore, più giusta e umana, più felice e generosa. E pretese che, per quanto potesse essere duro il compito della rivoluzione, non smettessimo mai di essere giovani, critici, audaci, fantasiosi, irriverenti, perché il grande capitale della rivoluzione cilena non era una teoria politica, ma la volontà di realizzare i cambiamenti che dovevano condurci alla nostra idea di socialismo. Concluse dicendo che da quel momento in poi con lui dovevamo dimenticare il protocollo. Per noi sarebbe sempre stato il compagno Allende o, a nostra scelta, il compagno Presidente.

Allende. La prima volta che mi trovai al suo fianco fu nel marzo del 1970, durante la campagna elettorale di Unidad Popular. Facevo parte del servizio di sicurezza che doveva accompagnarlo a Rancagua, per parlare davanti ai minatori del rame e ai contadini. Ricordo che una mezz'ora prima del discorso Allende si accorse di avere la camicia molto sporca per colpa della polvere, e purtroppo il suo segretario aveva dimenticato di mettergli un cambio in valigia. Mi offrii di andargli a comprare una camicia bianca, e assieme a sua figlia Beatriz, la mia cara "Tati", ci lanciammo in cerca di un negozio di abbigliamento. A quell'ora i negozi di Rancagua erano chiusi, ma avemmo fortuna e ne trovammo uno specializzato in uniformi per camerieri. "Che taglia ha il compagno Allende?" chiese il commesso. Guardai Tati e lei guardò me. "Io ho la 42, suppongo che lui avrà due taglie meno" dissi pensando che Allende era più basso e meno corpulento. Uscimmo da lì con una camicia taglia 38. Gliela portammo e dopo pochi minuti Allende mi chiamò:

"Compagno, sa davanti a chi devo parlare?"

"Ai minatori del rame e ai contadini, compagno."

"Esatto. E lei crede che potrò farlo indossando questa camicia da prima comunione?"

Poco dopo vidi che l'aveva messa e che ci scoppiava dentro, ma quella sera, con una camicia stretta, Allende pronunciò uno dei migliori discorsi della sua campagna elettorale.

Nel giugno del 1970 facevo parte del servizio di sicurezza che lo accompagnò nella sua terra patagonica, perché Allende era senatore delle province di Chiloé, Aisén e Magellano, zone da sempre di sinistra. Il primo Partito Socialista Cileno nacque proprio in Patagonia, nel 1906, e quindi Allende era come a casa.

Per passare da Puerto Montt a Balmaceda ci imbarcammo sul Pappagallo col singhiozzo, il leggendario DC3 di un leggendario pilota socialista, il capitano Esquella. Sull'aereo più che un vago sentore di pecora c'era una puzza da mozzare il fiato, perché nelle settimane precedenti Esquella aveva trasportato migliaia di ovini. Durante il volo Allende si informò sulle razze da lana, sul prezzo della carne e della lana, sullo stato del mare più ricco di crostacei, ed era l'unico a cui sembrava non importare il tanfo. Mentre tutti facevamo grandi smorfie e respiravamo con la bocca, Allende si bevve qualche bicchierino di Chivas Regal e ci offrì la bottiglia chiedendoci se volevamo un po' di quella medicina contro il mal d'aereo.

Atterrammo a mezzogiorno, e mentre camminavamo sulla pista verso l'aeroporto, mi prese sottobraccio e mi domandò sottovoce: "Senta, compagno, anche a lei è venuta voglia di un po' di foraggio?"

Allende. Nell'aprile del 1972, dopo un breve periodo nel GAP, il Gruppo di Amici Personali incaricati della sicurezza dei dirigenti, fui nominato commissario di un'industria agricola. Il "Diario Oficial", in un decreto firmato da Allende, mi definiva un rappresentante del compagno Presidente e dei compagni Ministri del Lavoro e dell'Agricoltura. Io non volevo occuparmi di un'industria agricola, volevo restare nel servizio di sicurezza, e lo dissi a Salvador Allende. Quella fu l'unica volta che rimasi solo con lui per mezz'ora. Sapeva molte cose di me, per esempio che ero uno scrittore, anche se scrivevo poco, che dormivo appena tre ore, e questo "glielo dico come medico, compagno, non va bene", che mio padre aveva un ristorante eppure non lo aveva mai invitato a mangiare, "le sembra giusto, compagno?". Infine mi parlò della necessità della disciplina nei processi rivoluzionari. "E poi io la conosco, compagno, e so che se un giorno la situazione si facesse critica e si dovessero impugnare le armi, lei sarebbe al mio fianco senza bisogno di chiamarla."

L'11 settembre 1973 ero responsabile della sicurezza dell'impianto dell'acqua potabile di Vizcachas, che riforniva del prezioso liquido la città di Santiago. Al mio fianco c'erano sette compagni esemplari: "Tuco" di vent'anni, "Mateo" di ventitré, "Pepe il negro" di ventuno, "Quintana il corvo" di trenta, "Magaly" di ventidue, "Menassin il turco" di venticinque, e "Carlitos Paz" di ventotto. Io avevo ventitré anni.

Erano ormai molte notti che non dormivamo per tenere a bada, con il nostro misero armamento, i fascisti di Patria y Libertad che, con la complicità dell'esercito e della polizia, avevano tentato varie volte di far saltare in aria l'impianto dell'acqua potabile. Tutti i miei compagni avevano un nome e un cognome, ma io li ricordo con i loro soprannomi politici, con i loro nomi di combattimento, perché è così che si chiamavano quando quel giorno terribile, alle nove del mattino, dopo una breve discussione, decidemmo di dirigerci al centro di Santiago, al palazzo della Moneda, per essere al fianco di Allende mentre guidava la Battaglia del Cile.

Non ci arrivammo mai. Durante gli scontri nel cordone industriale Vicuña Mackenna sentimmo l'ultimo discorso del compagno Presidente. Accanto a lui, i compagni del GAP sparavano all'impazzata coi loro kalashnikov per proteggere la sua voce - che infondeva speranza-, e gli echi del combattimento sottolineavano le sue parole ferme e decise. "Vi parla il compagno Presidente, questa sarà l'ultima volta che udirete il timbro sereno della mia voce..."

Solo "Magaly", "Tuco" e io sopravvivemmo a quella giornata. "Tuco" è morto nel 1986 nel Salvador, combattendo a fianco del Fronte di Liberazione Farabundo Martí. No. Noi, quelli di allora, non siamo più gli stessi.

Allende. Venticinque anni dopo i miei figli guardano la sua fotografia e mi chiedono: chi è quell'uomo?, perché gli vuoi così tanto bene?, e io gliene parlo, dico loro che era un medico, un amico, un uomo buono, e che amava il gelato al cocco, il Chivas Regal, il vino rosso, le giacche di tweed, le cravatte italiane, le scarpe inglesi, le belle donne, le commedie musicali, le empanadas, le grigliate all'aria aperta, i cani e i gatti, i romanzi gialli, i poeti spagnoli, i cantautori cileni, gli spazi sterminati della Patagonia.

Ho accompagnato quell'uomo nei mille giorni più belli e intensi della mia vita, spiego loro, si chiama Salvador Allende ed è morto lottando perché io possa guardarvi in faccia serenamente, senza vergogna, perché migliaia di cileni possano guardare e e dir loro che, per quanto possa essere dura la vita, arriverà il giorno "in cui si apriranno gli ampi viali dove cammina l'uomo libero".

No. Noi, quelli di allora, non siamo più gli stessi. Ma l'esempio di Salvador Allende, del compagno Presidente, ci fa restare saldi sulla nostra strada.

Allende. Venticinque anni dopo la sua figura si ingigantisce nel ricordo, come si ingigantisce il mio orgoglio di essere stato uno dei suoi uomini.

¡Venceremos!, caro compagno Salvador Allende.

Settembre 1998

Traduzione di Ilide Carmignani.


 

La Repubblica, 3 marzo 2000



http://web.tiscali.it/Ghighi_Gentili/webcile/sepulveda.htm



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